Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 12058 depositata il 14 aprile 2020
reati tributari – indebita compensazione – sequestro preventivo del saldo attivo dei conti correnti bancari
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Torino, con ordinanza del 28 ottobre 2019 ha respinto l’appello proposto nell’interesse di P.D. quale legale rappresentante pro tempore della società “O.C. s.r.l.” avverso l’ordinanza emessa il 27 giugno 2019 dal GIP di Torino, che ha rigettato due istanze di revoca del sequestro preventivo del saldo attivo dei conti correnti bancari della società disposto in relazione al reato di cui all’art. 10-quater d.lgs. 74/2000, ipotizzato nei confronti del legale rappresentante della predetta società all’epoca dei fatti.
Avverso tale pronuncia P.D., qualificandosi terzo estraneo, propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia e procuratore speciale, deducendo i motivi di seguito enunciati.
2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità dell’apparato motivazionale posto alla base dell’ordinanza impugnata nella parte in cui è attribuita natura diretta al sequestro preventivo operato ai sensi del decreto 10 maggio 2019.
Osserva, a tale proposito, che dal contenuto degli atti emergerebbe la natura esclusivamente per equivalente del decreto di sequestro e che un riferimento al sequestro finalizzato alla confisca diretta non sarebbe rinvenibile neppure nella richiesta del Pubblico Ministero.
3. Con un secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui l’ordinanza del Tribunale ha statuito la sequestrabilità, quale profitto del reato, di somme di denaro affluite sui conti correnti bancari della società successivamente alla commissione del fatto di reato ed in forza di un titolo lecito.
Osserva, a tale proposito, che le somme depositate sui conti della società erano derivanti da pagamenti di clienti e da finanziamenti effettuati da terzi successivamente alla commissione del reato e che il provvedimento cautelare era stato applicato a distanza di quasi due anni dalla data di consumazione del reato ipotizzato e che, pertanto, dette somme di denaro non potevano rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del risparmio d’imposta.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. Occorre preliminarmente ricordare che l’art. 325 cod. proc. pen. consente il ricorso per cassazione avverso le ordinanze emesse a norma dell’art. 322-bis cod. proc. pen. solamente per violazione di legge.
Sul punto si sono espresse anche le Sezioni Unite di questa Corte le quali, richiamando la giurisprudenza costante, hanno ricordato che “...il difetto di motivazione integra gli estremi della violazione di legge solo quando l’apparato argomentativo che dovrebbe giustificare il provvedimento o manchi del tutto o risulti privo dei requisiti minimi di coerenza, di completezza e di ragionevolezza, in guisa da apparire assolutamente inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dall’organo investito del procedimento” (Sez. U, n. 25932 del 29/5/2008, Ivanov, Rv. 239692. Conf. Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093. V. anche Sez. 2, n. 18951 del 14/3/2017, Napoli e altro, Rv. 269656; Sez. 6, n. 6589 del 10/1/2013, Gabriele, Rv. 254893).
Il ricorso, come emerge agevolmente dalla mera lettura, formula anche censure che riguardano, come precisato nell’intestazione dei singoli motivi, non soltanto la violazione degli art. 240 cod. pen. e 321, comma 2 cod. proc. pen., ma anche la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Risolvendosi le censure nella sostanziale critica del percorso argomentativo seguito dai giudici dell’appello, peraltro effettuata anche attraverso il richiamo a dati fattuali, esse non sono apprezzabili in questa sede di legittimità.
Inoltre, la motivazione del provvedimento impugnato non presenta affatto vizi così radicali quali quelli indicati dalla giurisprudenza in precedenza richiamata.
L’esame dei motivi di ricorso, conseguentemente, deve essere limitato alle questioni concernenti la sola violazione di legge, prospettata, nella fattispecie in relazione alla ritenuta natura diretta del sequestro da parte del Tribunale, che il ricorrente censura richiamando alcuni principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte.
3. Si è infatti affermato che, in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca, la natura fungibile del denaro non consente la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, ove si abbia la prova che le stesse non possono in alcun modo derivare dal reato e costituiscano, pertanto, profitto dell’illecito (Sez. 3, n. 8995 del 30/10/2017 (dep. 2018), P.M. in proc. Barletta e altro, Rv. 272353).
In quell’occasione, trattandosi di fattispecie in tema di omesso versamento delle ritenute, di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, si è esclusa la sussistenza dei presupposti per il sequestro e la successiva confisca di somme di denaro certamente depositate successivamente al momento di perfezionamento del reato.
La sentenza Barletta ha chiarito che, sebbene, come ricordato dal P.M. ricorrente, le Sezioni Unite di questa Corte abbiano affermato che ove il prezzo o il profitto cd. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Sez. Un., n. 10561 del 30/1/2014, Gubert, Rv. 258647; Sez. Un., n. 31617 del 26/6/2015, Lucci, Rv. 264437) e ciò, implicitamente, proprio perché la natura fungibile del bene, che, come sottolineato dalle Sezioni Unite Lucci, si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ed è tale da perdere – per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo – qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica, rende superfluo accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita; “ciò che rileva”, proseguono le Sezioni Unite, è che “le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo“, nondimeno, proprio in ragione di ciò, ed in senso esattamente corrispondente, seppure a contrario, al principio enunciato dalle Sezioni Unite, ove si abbia invece la prova che tali somme non possano proprio in alcun modo derivare dal reato (come appunto nel caso in cui le stesse, come nella fattispecie esaminata, siano corrispondenti a rimesse effettuate da terzi successivamente alla scadenza del termine per il versamento delle ritenute in esecuzione del concordato preventivo), di talché le stesse neppure possono, evidentemente, rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del mancato versamento delle imposte (ovvero, in altri termini del “risparmio di imposta” nel quale la giurisprudenza ha costantemente identificato il profitto dei reati tributari), le stesse non sono sottoponibili a sequestro, difettando in esse la caratteristica di profitto, pur sempre necessaria per potere procedere, in base alle definizioni e ai principi di carattere generale, ad un sequestro, come quello di specie, in via diretta.
A tali considerazioni, sopra testualmente riprodotte, si sono conformate successive pronunce nelle quali il principio affermato dalla sentenza Barletta è stato ribadito, precisando che è onere del terzo ricorrente di allegare circostanze da cui desumere che l’accrescimento del conto è frutto di rimesse successive alla commissione del reato e con questo non collegabili (Sez. 3, n. 41104 del 12/7/2018, Vincenzini, Rv. 274307) e che ai fini della confisca diretta delle somme sequestrate sul conto corrente bancario dell’imputato, la natura fungibile del denaro non è sufficiente per qualificare come “profitto” del reato l’oggetto del sequestro, essendo necessario anche provare che la disponibilità delle somme, successivamente sequestrate, costituisca un risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta, precisando che, per accertare se il denaro costituisce profitto del reato tributario, e, cioè, un risparmio di spesa aggredibile in via diretta, è necessario avere riguardo non all’identità fisica delle somme, ma al valore numerano delle disponibilità giacenti sul conto dell’imputato alla scadenza del termine per il versamento dell’imposta, mentre il denaro versato successivamente a detto termine, che fosse stato sequestrato, non può essere ritenuto “profitto” del reato, ma rappresenta un’unità di misura equivalente al debito fiscale scaduto e non onorato, confiscabile se ricorrono i presupposti per la confisca per equivalente (Sez. 3, n. 6348 del 4/10/2018 dep. 2019), Torelli, Rv. 274859).
Si è inoltre pervenuti ad analoghe conclusioni anche con riferimento a ipotesi di reato diverse da quelle previste dal d.lgs. 74/2000, affermando che è illegittima l’apprensione diretta delle somme di denaro entrate nel patrimonio del reo in base ad un titolo lecito, ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, che non risultino allo stesso collegate, neppure indirettamente. (Sez. 6, n. 6816 del 29/1/2019, Sena, Rv. 275048).
I principi in precedenza richiamati sono stati successivamente ribaditi (v. Sez. 3, n. 30414 del 17/5/2019, lacovelli, non ancora massimata) affermando anche, in tema di omesso versamento di ritenute operate quale sostituto di imposta, che il profitto del reato consiste nel corrispondente risparmio di spesa ed, in particolare, nelle disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente alla data di scadenza del termine per il pagamento e non versate, con la conseguenza che il sequestro, per essere qualificato come finalizzato alla confisca diretta del danaro costituente il profitto del reato omissivo, non può mai essere disposto, né essere eseguito, per importi comunque superiori ai saldi attivi giacenti sui conti bancari e/o postali di cui il contribuente disponeva alla scadenza del termine per il pagamento, né su somme di danaro acquisite successivamente alla consumazione del reato (Sez. 3, n. 22061 del 23/1/2019, Moroso, Rv. 275754, non massimata sul punto).
4. Tali principi sono pienamente condivisi dal Collegio, il quale non intende discostarsene, osservando, in particolare, che proprio alla luce di quanto affermato nelle precedenti decisioni, può affermarsi che in presenza di un saldo attivo sul conto corrente al momento del conseguimento del profitto del reato fiscale, la fungibilità del denaro consente il sequestro in forma diretta.
Invero, come puntualmente affermato dalla richiamata sentenza Moroso, “la somma di denaro prelevata, distratta o destinata ad altri fini dal contribuente prima della scadenza del termine, non può essere qualificata come profitto del reato perché non può esservi “profitto” prima della consumazione del reato omissivo unisussistente. Sicché, per stabilire se il denaro costituisce profitto (e cioè risparmio di spesa) del reato di omesso versamento dell’imposta (e dunque bene aggredibile in via diretta) occorre prendere in considerazione esclusivamente le disponibilità liquide giacenti sui conti del contribuente al momento della scadenza del termine previsto per il pagamento dell’imposta stessa, avendo riguardo ovviamente non alla loro identità fisica, ma al valore numerarlo che potrà essere oggetto di sequestro diretto solo se di segno positivo sia al momento della scadenza del termine per il pagamento dell’imposta che a quello, successivo, del sequestro e non potrà mai essere considerato “diretto” per la parte eccedente il saldo al momento della scadenza, anche se non corrispondente all’imposta evasa nella sua interezza (così, per esempio, se alla data di scadenza il conto corrente ha una disponibilità liquida di euro 100,00 ed il debito tributario è pari ad euro 1.000,00, la somma di denaro che può essere sequestrata direttamente non potrà mai essere superiore ad euro 100,00, nemmeno se alla data del sequestro tali disponibilità dovessero essere aumentate fino a coprire tutto il debito perché per l’ammontare residuo il sequestro può essere concepito solo “per equivalente”)”.
Ciò rende necessario accertare — precisa la sentenza Moroso – se, alla data di scadenza del termine, sul conto giacessero somme liquide a disposizione del contribuente e quale ne fosse la consistenza sia al momento della scadenza del termine per versare le ritenute che a quello del sequestro.
Allo stesso modo — siccome, nel caso in esame, il delitto di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, si consuma al momento della presentazione dell’ultimo modello F24 relativo all’anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi, in quanto, con l’utilizzo del modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto dell’indebita compensazione di crediti in realtà non spettanti in base alla normativa fiscale (Sez. 3, n. 4958 del 11/10/2018 (dep. 2019), Cappello, Rv. 274854) — costituiva onere del ricorrente, in presenza del sequestro di una somma di denaro la cui disponibilità nelle casse sociali al momento dell’imposizione del vincolo legittimava la confisca in forma diretta del relativo importo sul rilievo indiziario che le disponibilità monetarie del percipiente si fossero, appunto, accresciute della somma risparmiata, in quanto oggetto dell’evasione fiscale, allegare circostanze specifiche dalle quali desumere che, alla data di consumazione del reato, sui conti correnti sociali non vi fossero somme liquide a disposizione del contribuente e allegare altresì circostanze specifiche dalle quali desumere che le somme oggetto di sequestro fossero il frutto di nuova finanza o, come dedotto nel caso di specie, di accrediti effettuati da terzi, clienti della società, a distanza di due anni dalla data di commissione del reato oggetto di provvisoria incolpazione e che, pertanto, esse non potessero rappresentare il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del risparmio di imposta in forza del quale si sarebbe dovuto identificare il profitto del reato sottoponibile a confisca diretta.
Non avendo il ricorrente fornito alcuna adeguata indicazione circa la consistenza dei conti alla data di consumazione del reato, indicazioni che soltanto avrebbero consentito di apprezzare, secondo la sua apodittica affermazione, la natura per equivalente e non in forma specifica del sequestro nei termini dianzi richiamati, il ricorso deve pertanto essere rigettato, con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento