Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 12378 del 17 aprile 2020
reati tributari – omesso versamento IVA
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza del 24 aprile 2019 la Corte di appello di Brescia ha confermato la condanna inflitta a C.G. dal Tribunale di Brescia il 15 maggio 2018 alla pena di sei mesi di reclusione, oltre alle pene accessorie, per il reato ex art. 10-ter d.lgs. 74/2000 perché, quale legale rappresentante della SRL P.A., in relazione all’annualità 2013, non versò entro il termine, l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare complessivo pari a € 282.633; in Brescia il 29 dicembre 2014.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore di C.G..
2.1. Con il primo motivo, ex art. 606 lett. c), d) ed e) cod. proc. pen., si deducono la violazione degli artt. 507 e 192 cod. proc. pen., la mancata assunzione di una prova decisiva -, l’esame del rag. R.M., commercialista della società – ed il vizio della motivazione quanto alla conferma della decisione del Tribunale che ritenne l’esame del teste, richiesto ex art. 507 cod. proc. pen., non necessario ai fini della decisione.
Il vizio della motivazione è dedotto anche quanto alla valutazione dell’esame dell’imputato il quale riferì che l’importo indicato nella dichiarazione iva era il frutto di un errore del commercialista, in quanto non era credibile che una piccola ditta individuale, senza dipendenti, potesse aver fatturato importi superiori al milione di euro. A sostegno di ciò produsse alcune fatture. Il ricorrente, privo di nozioni di contabilità, si sarebbe fidato del commercialista; la Corte di appello si sarebbe limitata ad affermare la responsabilità dell’imputato per avere egli firmato la dichiarazione in quanto la sottoscrizione determina l’assunzione della responsabilità da parte dell’imputato. La Corte di appello non avrebbe approfondito gli aspetti relativi alla oggettiva capacità del ricorrente di realizzare le condotte contestate ed al ruolo svolto dal commercialista.
2.2. Con il secondo motivo si deducono i vizi ex art. 606 lett. c) ed e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 192 cod. proc. pen., quanto al trattamento sanzionatorio ed alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, sul cui diniego mancherebbe la motivazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo ed il secondo motivo, nella parte in cui deducono ex art. 606 lett. c) cod. proc. pen., la violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., sono inammissibili ex art. 606 comma 3 cod. proc. pen. Il vizio ex art. 606 lett. c) cod. proc. pen.sussiste solo per l’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o di decadenza: la norma invocata dal ricorrente non prevede, in caso di inosservanza, nessuna delle sanzioni descritte nella lett. c) dell’art. 606 cod. proc. pen.
1.1. Quanto poi ai vizi dedotti con riferimento all’omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ex art. 603 cod. proc. pen., deve rilevarsi che la richiesta di rinnovazione mediante l’esame del commercialista della società è stata proposta, come risulta dal testo della sentenza impugnata, tardivamente all’udienza e’ non nell’atto di appello o nei motivi presentati a norma dell’articolo 585 comma 4, come prevede l’art. 603 comma 1 cod. proc. pen.
Tale dato processuale non risulta contestato con il ricorso per cassazione. La questione pertanto non può essere dedotta con il ricorso per cassazione.
1.2. Quanto poi alla motivazione della sentenza impugnata sulla dichiarazione di penale responsabilità dell’imputato, il ricorso oltre ad essere del tutto generico, non indicando i profili di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, è anche privo del requisito della specificità intrinseca, perché non si confronta in alcun modo con la motivazione della sentenza impugnata che ha indicato in maniera analitica tutti gli elementi di prova in base ai quali l’esame del commercialista era irrilevante e sussiste la penale responsabilità.
1.3. Per altro, la tesi difensiva è manifestamente infondata, poiché il ricorrente è il legale responsabile della s.r.l. che ha sottoscritto la dichiarazione e non ha poi versato gli importi. È proprio dalla presentazione della dichiarazione annuale, effettuata dal ricorrente, che emerge quanto è dovuto a titolo di imposta.
Come affermato da Sez. 3, n. 14595 del 17/11/2017, dep. 2018, Strada, Rv. 272552 – 01, ai fini della integrazione del reato di omesso versamento dell’IVA di cui all’art. 10 -ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, l’entità della somma da versare, costituente il debito IVA, è quella risultante dalla dichiarazione del contribuente e non quella effettiva, desumibile dalle annotazioni contabili.
Non rileva neanche, per ragioni di tipicità, se l’importo relativo all’Iva sia stato effettivamente incassato.
La sentenza Strada ha affermato che il debito erariale non deve risultare dai registri delle fatture emesse o dalle fatture o dalla contabilità di impresa o, ancora, dal bilancio: il debito erariale rilevante ai fini del reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto è solo quello oggetto della dichiarazione annuale. La presentazione della dichiarazione, infatti, costituisce un presupposto necessario ai fini della consumazione del reato (in questo senso, espressamente, Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, in motivazione; nonché Sez. 3, n. 6293 del 14/01/2010, n.m.), tant’è che l’autore del reato deve necessariamente rappresentarsi che l’oggetto della condotta omissiva è esattamente (ed esclusivamente) il debito dichiarato, non quello risultante aliunde (Sez. U, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, secondo cui la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine previsto).
Il tema della non corrispondenza del debito dichiarato (superiore alla cd. soglia) con quello che risulta dalla contabilità dell’impresa (in ipotesi ad essa inferiore) non ha perciò alcuna rilevanza posto che, come già rilevato, la fattispecie, per chiara scelta legislativa, non è strutturata intorno al debito effettivo, ma solo a quello dichiarato. Le discrasie tra il debito erariale dichiarato e quello effettivo hanno il proprio terreno elettivo nei reati in materia di dichiarazione di cui agli artt. 2, 3 e 4, d.lgs. n. 74 del 2000 i quali ben possono concorrere con quello di cui all’art. 10 -ter.
2. Il secondo motivo è inammissibile per genericità.
2.1. In tema di applicazione delle circostanze attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché non sia contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (cfr. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269).
L’applicazione delle circostanze attenuanti generiche non costituisce oggetto di un diritto (cfr. Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, Di Luca, Rv. 270694) ma, come ogni circostanza attenuante, l’attitudine ad attenuare la pena si deve fondare su fatti concreti.
2.2. La Corte di appello ha pertanto correttamente rigettato l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche non rinvenendo elementi concreti per concederle; inoltre, ha rigettato la richiesta in base alla gravità del reato, in relazione all’entità dell’imposta evasa, ed alle modalità della condotta, che rivelano preordinazione: la Corte di appello ha pertanto rigettato la richiesta applicando correttamente i parametri ex art. 133 cod. pen.
2.3. Non sono stati neanche indicati nel ricorso i fatti concreti che non sarebbero stati valutati dalla Corte di appello ai fini dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
3. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell’art.616 cod. proc. pen. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di euro 2.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
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