Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 13107 depositata il 21 marzo 2018
DICHIARAZIONE INFEDELE – COMPRAVENDITA SIMULATA – ELEMENTI PASSIVO FITTIZIO NELLA DICHIARAZIONE ANNUALE IRES – SUSSISTE – ABUSO DEL DIRITTO PENALMENTE IRRILEVANTE – NON SUSSISTE
RITENUTO IN FATTO
1. A.F. ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello di Catania in data 12/01/2017 di conferma della sentenza del Tribunale di Siracusa che lo ha condannato per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 perché, in qualità di amministratore della CO.AC. s.r.l., al fine di evadere le imposte dirette sulle persone giuridiche, indicava nella dichiarazione annuale Ires elementi passivi fittizi consistiti in costi generati da fatture da ricevere relativi a servizi per l’importo di Euro 630.000 e di costi generati da perdite sui crediti per l’importo di Euro 205.109,05.
2. Con un primo motivo di ricorso lamenta la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 nonché vizio di motivazione in punto di superamento della soglia di punibilità prevista per il reato in esame dalla lett. b) del predetto articolo perché, a fronte di un’aliquota, applicabile al momento dei fatti, del 33 per cento, l’imposta evasa, da liquidare sul maggiore imponibile di Euro 835.106,05, sarebbe stata di Euro 275.585,99 e, dunque, inferiore al “dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione” e pari ad Euro 301.787,80 (essendo stato l’ammontare complessivo di Euro 3.017.878).
3. Con un secondo motivo lamenta la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 nonché vizio di motivazione in punto di qualificazioni delle operazioni poste in essere dall’imputato come inesistenti, e quindi sanzionabili sul piano penale e non già come elusive, e dunque sanzionabili esclusivamente sul piano amministrativo ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, sebbene vi fosse traccia delle operazioni finanziarie nei libri contabili e nella documentazione, sia con riferimento all’importo per Euro 630.000 delle fatture che avrebbe dovuto emettere il direttore dei lavori sia con riferimento alle somme per Euro 205.109,05 finalizzate all’acquisto, non concluso causa il fallimento della società, di un immobile.
4. Con un terzo motivo lamenta violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 in relazione alla L. n. 44 del 1999, art. 20, n. 2 nonché vizio di motivazione per avere la Corte considerato la presentazione della dichiarazione Ires in data 29/09/2008, a fronte della facoltà, spettante alle vittime di richieste estorsive, di ottenere, ex L. n. 44 del 1999, art. 20, n. 2, la sospensione triennale dei termini degli adempimenti fiscali, come un’implicita rinuncia alla sospensione suddetta concessa dal Prefetto in data 22/09/2008 e per avere escluso che l’imputato avesse, in forza della proroga, la facoltà di integrare la dichiarazione attraverso successiva dichiarazione entro il 30/09/2011. A ciò sarebbero anche seguite la irrituale attività ispettiva della G.d.f. e quella di accertamento degli uffici tributari che invece avrebbero dovuto necessariamente attendere la maturazione del termine definitivo per effetto della predetta sospensione, tanto che in data 03/03/2011 era poi stata effettuata dal contribuente dichiarazione a rettifica della precedente evidenziando come variazioni in aumento la somma coincidente con quella recuperata a tassazione dall’ufficio con l’avviso di accertamento del 15/04/2011.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è inammissibile.
Premesso infatti che la previsione in ordine alla soglia di punibilità di cui alla del cit. art. 4, lett. b), specificamente riferita alla percentuale dell’imposta evasa pari al 10% rispetto all’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, non ha subito alcuna modifica a seguito del D.Lgs. n. 185 del 2015, la relativa eccezione, che ben poteva quindi essere svolta con l’atto di appello, è stata formulata per la prima volta unicamente con il presente ricorso; e ciò tanto più avendo già la sentenza di primo grado a suo tempo chiarito, a pag. 3, che l’ammontare dei costi era tale da superare “le soglie indicate dall’art. 4”.
Da ciò deriva dunque l’inammissibilità del motivo ex art. 606 c.p.p., comma 3, tanto più in quanto finalizzato a devolvere a questa Corte questione inevitabilmente comportante l’esame e la valutazione di dati fattuali.
2. Il secondo motivo, non proposto con l’atto di appello ma comunque ammissibile sotto tale profilo perché derivante da modifica normativa (segnatamente la novellazione dell’art. 4, nonché l’introduzione del nuovo L. n. 212 del 2000, art. 10 bis) successiva all’atto di appello, è però generico per un verso e manifestamente infondato per un altro e, dunque, comunque complessivamente inammissibile.
Già la sentenza del Tribunale, cui si è richiamata quella impugnata, aveva fatto espresso riferimento, a pag. 2, quanto meno con riferimento alla posta passiva di Euro 630.000, alla “inesistenza” della stessa, in tali termini, dunque, dovendosi intendere la fittizietà addebitata in imputazione; a fronte di ciò il ricorrente appare essersi limitato a dedurre, invece, l’esistenza della stessa (a cui peraltro si fa semplicisticamente per ciò solo conseguire la natura elusiva e non evasiva della indicazione in dichiarazione) sulla sola base di “traccia nei libri contabili e nella documentazione”, indicazione, questa, evidentemente, del tutto insufficiente al fine di conferire specificità al motivo di ricorso.
Quanto poi alla ulteriore voce di Euro 205.109,05, sempre la sentenza di primo grado aveva posto in evidenza la natura simulata della compravendita immobiliare in vista della quale sarebbe stato, secondo il ricorrente, stipulato contratto preliminare senza che, anche seguendo la prospettazione del ricorso (secondo cui il contratto definitivo non ebbe più ad essere stipulato), mai alcuna azione giudiziaria sia stata avviata per il recupero delle somme già versate.
Sicché, proprio la simulazione indicata in sentenza, e rispetto alla quale nessuna specifica censura risulta sollevata in ricorso, appare ostare alla invocata configurabilità di condotte semplicemente elusive ove si consideri che, sulla base della definizione di operazioni simulate di cui alla del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. g bis), le stesse devono necessariamente essere diverse “da quelle disciplinate dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10 bis”.
A conferma di ciò, del resto, va rammentato anche il contenuto della disposizione di delega di cui alla L. n. 23 del 2014, art. 8 della quale il comma 13 dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente costituisce attuazione, essendosi con la stessa delegato il Governo a configurare come fattispecie di reato, senza la previsione di alcuna limitazione, “i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa”.
Per tale ragione, dunque, già questa Corte ha affermato che l’istituto dell’abuso del diritto di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis, che, per effetto della modifica introdotta dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi (Sez. 3, n. 38016 del 21/04/2017, dep. 31/07/2017, Ferrari, Rv. 270550; Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015, dep. 07/10/2015, Mocali, Rv. 264950).
3. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
La L. n. 44 del 1999, art. 20, comma 2, intitolato come “sospensione dei termini”, prevede che a favore dei soggetti che abbiano richiesto o nel cui interesse sia stata richiesta l’elargizione prevista dagli artt. 3, 5, 6 e 8 (ovvero, in sostanza, agli esercenti un’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o comunque economica ovvero una libera arte o professione che abbiano subito un evento lesivo in conseguenza di delitti commessi allo scopo di costringerli ad aderire a richieste estorsive), i termini di scadenza, ricadenti entro un anno dalla data dell’evento lesivo, degli adempimenti fiscali sono prorogati dalle rispettive scadenze per la durata di tre anni.
Ciò posto, il ricorrente, al fine di invocare a proprio favore la valorizzabilità, anche sul piano penale, della dichiarazione sostanzialmente integrativa presentata; sempre per il periodo d’imposta 2007, in data 03/03/2011, e, dunque, entro il termine di proroga dei tre anni suddetta, con cui si è preso parzialmente atto dei rilievi mossi a suo tempo, ha censurato la lettura della norma in oggetto data dai giudici di merito secondo cui, una volta presentata una prima dichiarazione, la proroga non potrebbe più operare.
Al contrario, tale lettura si pone, a ben vedere, in sintonia con la formulazione della disposizione: è la stessa connotazione in termini espressi di “proroga” dei termini per la dichiarazione, infatti, che osta a che, una volta presentata, nei termini di legge “ordinari”, una prima dichiarazione, ne possano seguire poi altra od altre con valenza integratrice od addirittura obliteratrice di quella originaria; non può porsi in dubbio, quindi, che la presentazione nei termini della dichiarazione (con ciò implicitamente esternandosi la volontà di non fruire del periodo di proroga cui si avrebbe diritto), con conseguente perfezionamento, già a tale data, del reato addebitato derivante dal contenuto della stessa, sia tale da “consumare” la possibilità di avvalersi dello slittamento dei termini altrimenti consentito. Una lettura in senso contrario, del resto, non potrebbe impedire che, successivamente alla originaria dichiarazione, ne potessero essere presentate ulteriori, anche plurime; e tuttavia, una tale conclusione finirebbe irrazionalmente per concedere al contribuente, sia pure in un particolare contesto quale quello disegnato dalla legge, una discrezionale volontà di correggere ed integrare più volte quella originaria in modo del tutto extravagante rispetto al sistema ordinario.
Sicché, in definitiva, la lettura della normativa in questione operata dalla sentenza impugnata, che ha equiparato la presentazione della dichiarazione nel 2008 ad una rinuncia ad avvalersi della proroga, appare del tutto corretta.
4. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.