Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 14654 depositata il 30 marzo 2018
LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – INFORTUNIO SUL LAVORO – RESPONSABILITA’ DEL VICEPRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE E DELEGATO IN MATERIA DI SICUREZZA – DVR
FATTO
1. La Corte di Appello di Trieste, con la sentenza in epigrafe, ha riformato la pronuncia di assoluzione emessa il 9/04/2014 dal Tribunale di Gorizia dichiarando D’A.A. responsabile del reato di cui all’art.590, commi 2 e 3, cod. pen. e condannandolo alla pena ritenuta di giustizia per avere cagionato, nella sua qualità di vicepresidente del consiglio di amministrazione e delegato in materia di sicurezza della HF s.r.l. con sede in Monfalcone, lesioni personali a LT.N., per colpa consistita in violazione degli artt. 28, comma 2, 36, comma 2, e 37, comma 1, nonché 73 d.lgs. 81/2008 in Fogliano Redipuglia il 4 ottobre 2010. In particolare, si contestavano al datore di lavoro, in generale la violazione dell’art.2087 cod. civ. per non aver adottato le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore e, specificamente, l’omessa predisposizione del documento di valutazione dei rischi e l’omessa formazione e informazione del lavoratore.
2. Il fatto è stato ricostruito dal giudice di primo grado come segue: LT.N. si trovava al banco di lavoro della sega circolare squadratrice per sagomare e rifinire un pannello di legno quando, per continuare la lavorazione, si era avvicinato con la mano alla lama che era in attività, procurandosi una lesione complessa alla mano destra, giudicata guaribile in non meno di otto mesi; il documento di valutazione dei rischi era stato predisposto, ma non conteneva alcun riferimento al rischio in questione; il lavoratore non aveva partecipato ai corsi di formazione sulla sicurezza svolti presso la società datrice di lavoro.
3. Il Tribunale aveva assolto l’imputato ritenendo insussistente il nesso di causalità tra le predette mancanze datoriali e l’infortunio occorso al lavoratore, essendo emerso che il LT.N. fosse stato formato specificamente sull’utilizzo della macchina e che avesse con sé il dispositivo di protezione (lo spingitoio), conoscendo il tipo di rischio che tale strumento era in grado di evitare. L’infortunio, conseguente ad un comportamento anomalo del lavoratore, si sarebbe, in altre parole, ugualmente verificato anche se il datore di lavoro avesse redatto compiutamente il documento di valutazione dei rischi e se il lavoratore avesse partecipato ai corsi sulla sicurezza.
4. La Corte territoriale, investita dell’appello dal Pubblico Ministero del Tribunale di Gorizia, è pervenuta alla pronuncia di condanna ritenendo che il giudice di primo grado avesse omesso di considerare che le lavorazioni da eseguirsi con la sega indicata nel capo d’imputazione non fossero state prese in considerazione nel documento di valutazione dei rischi e che il lavoratore infortunato non avesse frequentato corsi; tali circostanze avrebbero dovuto essere valutate unitamente a quanto risultava dalla consulenza disposta dal pubblico ministero, che aveva evidenziato che, per la lavorazione del particolare pannello assegnato alla vittima, avrebbero dovuto essere imposte speciali cautele e procedure tecniche particolari, diverse da quelle ordinarie, concernenti il meno impegnativo e rischioso taglio dei pannelli in truciolare in legno, con conseguente necessità di uno specifico addestramento del lavoratore. La Corte di Appello ha richiamato le dichiarazioni del consulente tecnico del pubblico ministero, dalle quali era emerso che il pannello in lavorazione era composto di due superfici in materiale plastico, tali da rendere necessarie una particolare qualifica ed esperienza del lavoratore con riguardo alla tecnologia del taglio. Nella sentenza si è, quindi, evidenziata l’inadeguatezza della protezione apposta alla macchina ad impedire che l’operatore introducesse le dita mentre la sega squadratrice era in funzione e si è escluso che la condotta dell’infortunato di asportare con la mano, anziché con l’ausilio dell’apposito strumento, un residuo di taglio, potesse considerarsi abnorme.
5. D’A.A. propone ricorso per cassazione censurando la sentenza impugnata per i seguenti motivi:
a) vizio della motivazione in relazione all’art.6, parr.l e 3 lett. d) CEDU, art.lll Cosi, e 531, comma 1, cod.proc.pen. La Corte di Appello ha violato il principio secondo il quale il giudice chiamato a decidere sull’impugnazione è tenuto a rinnovare l’istruzione dibattimentale laddove il materiale probatorio su cui si fonda la sentenza di condanna abbia ad oggetto la medesima prova dichiarativa utilizzata dal giudice di primo grado. Il giudice di appello ha, infatti, utilizzato le medesime prove dichiarative, ossia la testimonianza della persona offesa LT.N. e del consulente del pubblico ministero, senza tale doverosa rinnovazione pur avendo ritenuta decisiva la prova dichiarativa costituita dall’esame del consulente del pubblico ministero;
b) inosservanza o erronea applicazione degli artt.521 cod.proc.pen., 5, parr. 1 e 3, CEDU, art.41, comma 2, cod. pen. In base alla deposizione della persona offesa, il tribunale aveva ricostruito il fatto accertando che la sega a lama circolare fosse dotata di idonea protezione posta a copertura della lama stessa e che il lavoratore avesse rimosso tale protezione senza preventivamente spegnere il macchinario, mentre la Corte territoriale ha ritenuto non credibile la deposizione dell’infortunato, con ciò violando l’art.41, comma 2, cod. pen. laddove ha escluso che la condotta del lavoratore fosse causa sopravvenuta sufficiente a determinare l’evento nonostante il lavoratore avesse messo in atto una condotta volta a superare le barriere poste a presidio della sicurezza; sebbene nel capo d’imputazione non fosse enunciata alcuna violazione della normativa antinfortunistica, e fosse stata dunque contestata la sola colpa generica, nella sentenza impugnata è stato attribuito all’imputato un profilo di colpa specifica sulla base di una circostanza mai contestatagli, ovverossia l’omessa previsione del blocco automatico di sicurezza del macchinario, così privando l’imputato della possibilità di difendersi provando gli elementi di fatto e di indagine tecnica sul macchinario, in violazione dell’art.521 cod.proc.pen.
DIRITTO
1. Il ricorso è fondatamente proposto.
1.1. In linea di principio, nel giudizio di appello, per la riforma di una sentenza assolutoria, devono essere evidenziati elementi ulteriori rispetto a quelli esaminati in primo grado perché non è sufficiente, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera e diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, né che tale valutazione sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio (Sez.6, n.45203 del 22/10/2013, P., Rv. 25686901; Sez. 6, n.8705 del 24/01/2013, F., Rv. 25411301; Sez.2, n.11883 del 08/11/2012, dep. 2013, B., Rv. 25472501; Sez.6, n.34487 del 13/06/2012, G., Rv. 25343401).
1.2. La regola di giudizio introdotta formalmente dall’art. 5 legge 6 febbraio 2006, n. 46, mediante la sostituzione del comma 1 dell’art. 533 cod.proc.pen., impone, per altro verso, al giudice di procedere ad un completo esame degli elementi di prova rilevanti e di argomentare adeguatamente circa le opzioni valutative della prova, giustificando, con percorsi razionali idonei, che non residuino dubbi in ordine alla responsabilità dell’imputato. Si è, infatti, affermato (Sez. 2, n.7035 del 9/11/2012, dep. 2013, D. B., Rv. 25402501) che «la previsione normativa della regola di giudizio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, che trova fondamento nel principio costituzionale della presunzione di innocenza, non ha introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova, ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell’imputato» (Sez.2, n.7035 del 09/11/2012, dep.2013, D. B., Rv. 25402501; Sez.l, n.20371 del 11/05/2006, G., Rv. 1234/1101; Sez.2, n.19575 del 21/04/2006, S., Rv. 23378501).
1.3. La codificazione di tale principio ha assunto, nella giurisprudenza della Corte, particolare rilievo nel giudizio di legittimità circa la motivazione della sentenza di appello che abbia riformato la sentenza di assoluzione in primo grado (Sez. 6, n.1266 del 10/10/2012, dep. 2013, A., Rv. 25402401; Sez. 2, n.11883 del 8/11/2012, dep. 2013, B., Rv. 25472501; Sez.6, n.8705 del 24/01/2013, F., Rv. 25411301), anche in relazione ai principi affermati in materia dalla CEDU (Corte EDU 5/07/2011, D. c. Moldavia, parr. 32 e 33), imponendo, in tale ipotesi, particolare rigore metodologico ed argomentativo al giudice di secondo grado.
1.4. Il giudice di appello potrà, dunque, pervenire a differente esito decisorio purché sulla base di elementi istruttori trascurati dal giudice di primo grado, in particolare mettendo in rilievo di quali elementi decisivi quest’ultimo non abbia tenuto adeguato conto, ovvero rinnovando l’istruttoria ove ritenga di attribuire rilievo ad una prova dichiarativa trascurata dal primo giudice o di non condividere la valutazione della prova operata in primo grado (Sez. U, n.27620 del 28/04/2016, D., Rv. 26748701).
2. Esaminando la sentenza impugnata alla luce dei principi esposti, deve osservarsi come la riforma del giudizio sia stata una chiara conseguenza dell’accertamento del particolare materiale del pannello consegnato al lavoratore, da cui è dipeso il giudizio circa la necessità di uno specifico addestramento del lavoratore sulla tecnologia del taglio ed in merito all’inadeguatezza del macchinario, se utilizzato con il predetto materiale, in ragione dello spazio venutosi a creare sotto la protezione della macchina, tale da consentire al lavoratore di infilarvi le dita.
2.1. Ma, in relazione a tale accertamento, la motivazione presenta un vulnus nella diversa valutazione degli esiti della testimonianza della persona offesa e della consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero che la Corte di Appello ha operato per ritenere che l’imputato avesse omesso di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore. In particolare, l’accertamento di natura tecnica era stato trascurato dal giudice di primo grado, mentre la scelta di attribuire rilievo alle valutazioni espresse dal consulente del pubblico ministero, in uno alla diversa rilevanza ascritta alla deposizione del lavoratore, ha consentito al giudice di appello di ritenere fugato ogni dubbio circa la sussistenza del nesso causale tra la violazione della normativa antinfortunistica ascrivibile all’imputato e l’evento, evidenziando la decisività di tale elaborato nell’economia della pronuncia di secondo grado (si richiama sul punto Sez. U, n.27620 del 28/04/2016, D. in motivazione: «Appaiono parimenti “decisive” quelle prove dichiarative che, ritenute di scarso o nullo valore probatorio dal primo giudice, siano, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti, da sole o insieme ad altri elementi di prova, al fini dell’esito di condanna»).
2.2. Posto che la rivisitazione delle risultanze istruttorie, e segnatamente della testimonianza della persona offesa alla luce degli esiti della consulenza tecnica, non è stata preceduta dal nuovo esame della persona offesa e del consulente, il Collegio ritiene che tale incedere risulti, in particolare, frontalmente lesivo del seguente principio: «Il giudice di appello, per riformare in peius una sentenza assolutoria, non può basarsi sulla mera rivalutazione delle perizie e delle consulenze in atti, ma deve procedere al riascolto degli autori dei predetti elaborati già sentiti nel dibattimento di primo grado, altrimenti determinandosi una violazione del principio del giusto processo ai sensi dell’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza D. c. Moldavia del 5 luglio 2011 della Corte europea dei diritti dell’uomo» (Sez. 4, n. 6366 del 06/12/2016, dep.2017, M., Rv. 26903501; Sez. 2, n. 34843 del 01/07/2015, S., Rv. 26454201).
3. Per le ragioni sopra esposte, la sentenza deve essere annullata con rinvio alla Corte di Appello di Trieste affinchè, attenendosi al principio sopra richiamato, proceda a nuovo giudizio.
In ossequio a regole di giudizio ripetutamente affermate dalla Corte di Cassazione in tema di correlazione tra accusa e sentenza, nel valutare le prove il giudice del rinvio non dovrà trascurare di porre a confronto il decorso causale che ha originato l’evento concreto con la regola di diligenza violata secondo l’accusa; e di controllare se in tale evento si sia concretizzato il pericolo in considerazione del quale il comportamento dell’agente è stato qualificato come contrario a diligenza.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di Appello di Trieste.
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