CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 15411 depositata il 19 maggio 2020
Reati tributari – Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti – Responsabilità – Amministratore delegato
Fatto e diritto
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Treviso, in data 31.3.2015, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato R. M., alle pene, principale ed accessorie, ritenute di giustizia, in relazione ai reati tributari e fallimentari ascrittigli, in qualità di amministratore delegato e di amministratore unico delle società “V. spa” e “C.M.R. srl”, dichiarate fallite dal tribunale di Treviso, rispettivamente, in data 30.4.2013 e 13.4.2012, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’imputato in ordine ai reati di cui al capo A) dell’imputazione, perché estinti per prescrizione, ed, unificati i reati di cui ai capi n. 1) e B) nell’unica fattispecie ex artt. 81, cpv., 110, c.p., 2, d. Igs. n. 74 del 2000, rideterminava l’entità del trattamento sanzionatorio in anni tre di reclusione, con contestuale applicazione delle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni tre e dell’interdizione perpetua dall’ufficio di componente della commissione tributaria, confermando nel resto la sentenza impugnata.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando: 1) violazione di legge, in quanto, ad avviso del ricorrente, la corte territoriale è incorsa in un evidente errore nel ritenere il R. responsabile, a titolo di concorso ed in qualità di extraneus, nel reato proprio di cui all’art. 2, d.lgs. n. 74 del 2000 (“Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”), posto che il contributo posto in essere dall’imputato si è limitato alla fase di ricezione della fattura e della sua contabilizzazione, che integra, ai sensi dell’art. 6 del medesimo testo normativo, una fattispecie di tentativo non punibile, rimanendo egli estraneo alla successiva fase del deposito, vale a dire della presentazione per via telematica della dichiarazione fraudolenta, necessaria per l’integrazione del reato di cui si discute; 2) violazione di legge e vizio della motivazione, in ordine al riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6, c.p., erroneamente negato dalla corte territoriale, in quanto, da un lato, a differenza di quanto affermato dal giudice di appello, i reati tributari non sono reati contro il patrimonio o che offendono direttamente il patrimonio, per i quali la concessione della suddetta attenuante non è configurabile, dall’altro, sempre contrariamente all’assunto del giudice di secondo grado, le indicazioni fornite dall’imputato a titolo collaborativo non sono successive all’inizio delle indagini, essendo contenute in uno scritto spedito da Padova il 4.9.2012, prima dell’interrogatorio cui ha fatto riferimento la corte territoriale per escludere la spontaneità del ravvedimento, che non viene certo meno, rileva il ricorrente, per il fatto che l’imputato sia stato invitato a rendere chiarimenti dalla polizia giudiziaria in una fase del tutto prodromica delle indagini, trattandosi di una situazione che non influisce con forza cogente sulle determinazioni del medesimo soggetto; 3) violazione di legge con riferimento alla disciplina del reato continuato, posto che la corte territoriale ha individuato come reato più grave, ai fini della determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio, quello di bancarotta da reato societario, relativo al fallimento della “V. spa”, in difetto di elementi, ed in particolare dell’entità del danno arrecato, da cui desumere la gravità del suddetto reato, a differenza degli altri delitti di bancarotta per distrazione di cui ai capo I) e G) dell’imputazione, punibili con la medesima pena edittale, per i quali è possibile formulare un giudizio sulla gravità, essendo stati quantificati i danni arrecati dalla loro consumazione; 4) vizio di motivazione in punto di trattamento sanzionatorio, in quanto la corte territoriale, nel determinare l’entità della pena, ha fatto riferimento solo alle modalità dell’azione e alla gravità del danno, ma non anche al parametro della capacità a delinquere del reo, del pari richiesto dall’art. 133, c.p., in relazione al quale la difesa aveva sottolineato una pluralità di elementi concreti, valutabili in favore del reo, non considerati dalla corte veneziana; 5) mancanza di motivazione in ordine alla entità degli aumenti di pena operati sulla pena-base prevista per il reato più grave, che la corte territoriale ha effettuato in maniera identica, sotto il profilo quantitativo, pur in relazione a reati di diversa gravità.
3. Il ricorso non può essere accolto per le seguenti ragioni.
4. Infondata appare la prima doglianza, che va circoscritta alle sole fattispecie di reato fiscale di cui ai capi n. 1) e B), relative a fraudolenti dichiarazioni fiscali per gli anni 2009, 2010 e 2011, riguardanti la società poi fallita “V. spa”.
Ed invero, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, con costante insegnamento, è configurabile il concorso nel reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74 del 2000 di colui che – pur essendo estraneo e non rivestendo cariche nella società a cui si riferisce la dichiarazione fraudolenta – abbia, in qualsivoglia modo, partecipato a creare il meccanismo fraudolento che ha consentito all’amministratore della società, sottoscrittore della dichiarazione fraudolenta, di avvalersi della documentazione fiscale fittizia (cfr. Cass., Sez. 3, n. 14815 del 30/11/2016 Ud; rv. 269650; Cass., Sez. F., n. 35729 del 1.8.2013, rv. 256579).
Pertanto, premesso che i delitti di dichiarazione fraudolenta previsti dagli artt. 2 e 3, D.Lgs. n. 74 del 2000, si consumano nel momento della presentazione della dichiarazione fiscale nella quale sono effettivamente inseriti o esposti elementi contabili fittizi (cfr. Cass., sez. 3, n. 52752 del 20.5.2014, rv. 262358), la circostanza che il R. non abbia partecipato alla fase del deposito della dichiarazione infedele, non esclude la sua responsabilità per i singoli reati di cui si discute, avendo egli concorso, come diffusamente dimostrato dalla corte territoriale, senza che sul punto il ricorrente abbia articolato specifici motivi di ricorso, “nella ideazione e realizzazione della operazione che ha consentito a “V. spa” di acquisire documentazione fiscale (le fatture delle ditte cartiere e le fatture delle società di leasing truffate) utilizzata per far risultare elementi passivi fittizi e quindi conseguire beneficio fiscale” (cfr. pp. 9 e ss. della sentenza impugnata).
5. Del pari infondato risulta il secondo motivo di ricorso.
La corte territoriale ha rigettato la richiesta di riconoscimento della circostanza attenuante di cui al disposto dell’art. 62, n. 6), c.p., formulata dall’imputato con riferimento sia ai reati fallimentari, che ai reati fiscali, sul presupposto, del tutto corretto, che l’imputato non solo non agì in seguito ad un’iniziativa spontanea, frutto di ravvedimento personale, ma solo in conseguenza delle richieste minacciose provenienti dalla famiglia V., dopo che le indagini di polizia erano iniziate (osservazione affatto manifestamente illogica o contraddittoria, alla quale il ricorrente oppone mere considerazioni di merito). Ma anche che la condotta del R. era finalizzata al recupero di beni patrimoniali, onde ridurre il danno cagionato ai creditori delle due imprese fallite.
Essendo tale lo scopo del R., non può invocarsi in suo favore la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6), c.p., estranea al profilo risarcitorio dei danni patrimoniali derivanti dal reato. Infatti, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo un costante e condivisibile orientamento, la circostanza attenuante dell’attivo ravvedimento di cui all’art. 62, comma primo, n. 6, seconda parte, cod. pen. – che contempla l’ipotesi dell’essersi, prima del giudizio e al di fuori del caso preveduto dall’ultimo capoverso dell’art. 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato – si riferisce a conseguenze del reato che non consistano in un danno patrimoniale o non patrimoniale, economicamente risarcibile, ai sensi dell’art. 185 cod. pen., e, pertanto, non è applicabile ai reati che, come la bancarotta per distrazione, offendano il patrimonio (cfr. Cass, Sez. 5, n. 33188 del 08/04/2019, rv. 276774).
6. Il terzo motivo deve, invece, ritenersi inammissibile perché, essendo i reati fallimentari unificati sotto il vincolo della continuazione dalla corte territoriale, puniti, come ammesso dallo stesso ricorrente, sulla base della stessa pena edittale, non si comprende quale sia l’interesse di quest’ultimo ad ottenere una determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio, che parta, come reato base, da un reato fallimentare, diverso da quello individuato dal giudice di appello come reato-base, sulla base di una diversa valutazione ,fondata sulla gravità in concreto della condotta posta in essere, alla luce dell’entità delle distrazioni addebitate al R..
Come è noto, infatti, in tema di impugnazione trova applicazione la regola generale di cui all’art. 568, comma quarto, cod. proc. pen., secondo cui per proporre ricorso il soggetto legittimato deve essere portatore di un interesse concreto ed attuale, che deve persistere fino al momento della decisione e che va apprezzato con riferimento all’idoneità dell’esito finale del giudizio ad eliminare la situazione giuridica denunciata come illegittima o pregiudizievole per la parte (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, n. 4974 del 17/01/2017, rv. 268990).
Orbene, nel caso in esame, il ricorrente non ha indicato quale sarebbe il suo interesse concreto all’accoglimento del motivo di ricorso ed in che termini tale esito sarebbe in grado di rimuovere un qualsivoglia pregiudizio in suo danno, che egli nemmeno indica, se non appellandosi ad una generica esigenza di applicare correttamente la previsione dell’art. 81, co. 2, c.p. Ma, come si è detto, ciò non è sufficiente per legittimare l’impugnazione sul punto, perché, come più volte ribadito dalla Suprema Corte, in tema di ricorso per cassazione, ai fini della sussistenza del necessario interesse ad impugnare, non è sufficiente la mera pretesa preordinata all’astratta osservanza della legge e alla correttezza giuridica della decisione, essendo invece necessario che sia comunque dedotto un pregiudizio concreto e suscettibile di essere eliminato dalla riforma o dall’annullamento della decisione impugnata (cfr. , ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 30547 del 06/03/2019, rv. 276274), non dedotto dal R..
La corte territoriale, in ogni caso, ha specificamente ed esaurientemente motivato sul punto, condividendo la valutazione operata dal giudice di primo grado nel considerare più grave il reato di cui al capo I), alla luce della “gravità del fatti, desumibile dalla ampiezza delle falsità inserite nel bilancio societario e dalla entità delle sofferenze che hanno portato al fallimento” (cfr. p. 22 della sentenza impugnata).
7. Inammissibile appare anche il quarto motivo di ricorso, che, in realtà, si pone come una censura sul merito del trattamento sanzionatorio, non scrutinabile in questa sede di legittimità.
Ai fini della dosimetria della pena, infatti, il giudice non è tenuto a considerare tutti gli elementi previsti dall’art. 133, c.p., potendo limitarsi ad indicare solo quelli da lui ritenuti rilevanti ai fini del suddetto giudizio (cfr. Cass., Sez. 3, n. 8543 del 7.7.1992, rv. 191522; Cass., sez. 6, n. 35346 del 12.6.2008, rv. 241189).
Sul punto, peraltro, la motivazione è stata particolarmente articolata, in quanto la corte territoriale ha fatto buon governo dei criteri enunciati dall’art. 133, c.p.
Il giudice di secondo grado, in particolare, ha specificamente valutato, come si è detto, la gravità dei fatti e la capacità a delinquere del reo, sottolineando anche come “in reazione ai fatti di bancarotta il R. ha agito con piena consapevolezza, di concerto con altri componenti del consiglio di amministrazione e partecipando attivamente alla realizzazione della condotta criminosa” (cfr. p. 22 della sentenza impugnata).
8. Identiche considerazioni in punto di inammissibilità valgono anche per l’ultimo motivo di ricorso.
Al riguardo si osserva che, come affermato dall’orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, la determinazione della pena tra il minimo e il massimo edittali rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, qualora il giudice abbia adempiuto all’obbligo di motivazione, il quale, però, si attenua nel caso in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor di più, nel caso in cui la pena sia applicata in misura prossima al minimo, in tal caso bastando anche il richiamo a criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 c.p., tanto più se si consideri che l’applicazione del minimo edittale non è correlata a un diritto assoluto dell’imputato. (cfr. Cass., sez. 4, 25/09/2007, n. 44766, G.).
Pertanto non è nemmeno necessaria una specifica motivazione tutte le volte in cui la scelta del giudice risulta contenuta, in una fascia medio bassa rispetto alla pena edittale (cfr. Cass., sez. 4, 14/07/2010, n. 36358, T.V.; Cass., sez. 4, 05/11/2009, n. 6687, C. e altro; Cass., sez. 3, 08/10/2009, n. 42314, E.).
Tali principi in tema di motivazione sulla entità del trattamento sanzionatorio, come da tempo affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si applicano anche nell’ipotesi di quantificazione della pena in sede di applicazione della disciplina della continuazione (cfr. Cass., sez. I, 14/02/1997, n. 1059, G.).
D’altro canto, come affermato dal costante insegnamento della Suprema Corte, in tema di determinazione della pena nel reato continuato, da un lato non sussiste l’obbligo di specifica motivazione per gli aumenti di pena relativi ai reati satellite, valendo a questi fini le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base (cfr., ex plurimis, Cass., sez. II, 21.11.2014, n. 4707, rv. 262313); dall’altro l’aumento per la continuazione operato sul reato più grave (e quindi sulla pena base) può essere determinato anche in termini cumulativi, senza che sia necessario indicare specificamente l’aumento di pena correlato a ciascun reato satellite, non previsto dalla vigente normativa (cfr. Cass., sez. V, 13.1.2011, n. 7164, rv. 249710), per cui non dà luogo a nessuna nullità l’aumento di pena per i reati satelliti determinato in termini unitari e complessivi, e non distintamente, in relazione a ciascuna delle violazioni (cfr. Cass., sez. II, 21.1.2015, n. 4984, rv. 262290).
Orbene, nel caso in esame, la corte territoriale ha, in ogni caso, condiviso espressamente la motivazione del giudice di primo grado, sia con riferimento, come si è detto, alla determinazione della pena-base per il reato più grave, fissata in misura inferiore al punto medio tra minimo e massimo, sia in ordine agli aumenti di pena previsti per ciascun reato-satellite, in misura molto contenuta rispetto alla pena edittale, giustificati dalla gravità di ciascun singolo reato, desunta dai valori patrimoniali oggetto delle condotte criminose, giungendo ad un aumento di pena complessivo di anni uno mesi due di reclusione, una volta venuti meno i reati-satellite estinti per prescrizione (cfr. p. 23 della sentenza impugnata).
Sicché nessun vizio appare riscontrabile nel percorso argomentativo seguito nella determinazione degli aumenti di pena, conseguenti al riconoscimento della disciplina del reato continuato.
9. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell’interesse del R. va rigettato, con condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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