CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 15500 depositata il 9 aprile 2019
Reati tributari – Reati in dichiarazione ex art. 3 D.Lgs. n. 74 del 2000 – Responsabilità del legale rappresentante – Estraneità agli atti prodromici all’evasione delle imposte – Irrilevanza – Obblighi di vigilanza e controllo prima della presentazione della dichiarazione dei redditi
Ritenuto in fatto
1. A.V. ricorre per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale di Ravenna, ha riqualificato il fatto contestato ex articolo 3 decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 rideterminando la pena nei confronti del ricorrente in anni uno e mesi otto di reclusione, concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena e confermando nel resto.
Al ricorrente era addebitato il reato di cui all’articolo 4 d.lgs. n. 74 del 2000 perché, nella sua qualità di rappresentante legale della società A. S.r.l., al fine di evadere le imposte sui redditi, in relazione al periodo d’imposta 2009, indicava nella dichiarazione SC 2010, elementi attivi (anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi) per un ammontare inferiore a quello effettivo, con una evasione di IRES accertata pari ad euro 520.879,00 (fatto commesso in Ravenna il 30/09/2010 (data di presentazione della dichiarazione SC – Società di Capitali per l’anno d’imposta 2009).
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza il ricorrente articola due motivi di impugnazione, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità per la violazione del combinato disposto degli articoli 516, 521, 522 e 526 del codice di procedura penale (articolo 606, comma 1, lettera c), stesso codice), con conseguente nullità della sentenza impugnata.
Rileva il ricorrente che il giudice di secondo grado, pur stabilendo che il fatto ricostruito al dibattimento integrasse la violazione dell’articolo 3 del d.lgs. n. 74 del 2000 piuttosto che il contestato articolo 4 dello stesso testo, invece di agire secondo il dettato dell’articolo 521, comma, 2 del codice di procedura penale e disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero dichiarando la nullità della decisione di primo grado, ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Ravenna in violazione degli articoli 516, 521, 522 e 526 del codice di procedura penale, incorrendo così nel vizio di violazione di legge denunciato.
Infatti, il ricorrente era stato tratto a giudizio per rispondere del delitto di cui all’articolo 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 per aver indicato nella dichiarazione dei redditi per l’anno 2009 un importo degli elementi attivi inferiore a quello reale, senza che vi fosse alcun riferimento ad operazioni fraudolente che avrebbero concorso a cagionare l’evasione.
Intervenuta poi la modifica normativa, di cui al d.lgs. n. 158 del 2015, il fatto tipico, relativo al delitto originariamente contestato ossia relativo all’articolo 4 d.lgs. n. 74 del 2000, doveva ritenersi integrato dalla contemporanea presenza di elementi positivi della condotta punibile, ossia dall’indicazione nella dichiarazione di ricavi per un ammontare inferiore a quello effettivo, o dall’indicazione di costi inesistenti (non più fittizi), con conseguente superamento della soglia di punibilità, e dalla contemporanea mancanza di elementi negativi della condotta delittuosa, in presenza dei quali avrebbe trovato spazio il dettato dell’articolo 3 della medesima norma, in quanto rientranti anche essi (sia pure in negativo) nella dimensione della tipicità.
Infatti, dalla complessiva lettura della normativa di riferimento, appare come la fattispecie di cui all’articolo 4 d.lgs. n. 74 del 2000 presenti un carattere esclusivamente residuale trovando applicazione solo quando non possa dirsi configurato il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2) o quello di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (articolo 3).
La Corte d’appello ha ritenuto, a seguito della modifica normativa, non più configurabile il tipo d’illecito disegnato dall’articolo 4 d.lgs. n. 74 del 2000, ritenendo tuttavia che il fatto costituisse ugualmente reato perché la condotta commessa poteva essere sussunta nel delitto di cui all’articolo 3, sussistendone tutti i requisiti.
Se anche così fosse, il ricorrente obietta come tale comportamento abbia palesemente violato il dettato dell’articolo 521 del codice di procedura penale, introdotto per assicurare un efficace diritto di difesa all’imputato, cui deve essere correttamente prospettata l’accusa dalla quale deve compiutamente difendersi.
Aggiunge, infatti, che, tra il reato contestato e quello ritenuto in sentenza, corre una radicale differenza in tema di condotta penalmente rilevante, in quanto, per la sussistenza del delitto di cui all’articolo 3 d.lgs. n. 74 del 2000, rispetto a quanto stabilito dall’articolo 4 del medesimo testo di legge, è necessario il compimento da parte del soggetto responsabile di un quid pluris, vale a dire l’aver attuato “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente”‘,.
Osserva che se non comporta la violazione degli articoli 516 e 521 del codice di procedura penale la riqualificazione di un fatto quando la condotta necessaria per la sussistenza del reato, ritenuto in sentenza, sia interamente prevista da quella che integra il reato contestato sul rilievo che, in tal caso, può affermarsi che l’imputato abbia potuto comunque difendersi in merito a tutti i comportamenti addebitatigli, al contrario, quando il reato ritenuto in sentenza comporta una condotta ulteriore rispetto a quella prevista per il reato originariamente contestato, si ha una violazione del diritto di difesa perché, con tutta evidenza, non si consente all’imputato di difendersi su aspetti essenziali del fatto non compresi nel raggio dell’originaria contestazione.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la mancanza della motivazione (articolo 606, comma 1, lettera e), del codice di procedura penale) nella parte in cui la sentenza impugnata riconosce la sussistenza dell’elemento psicologico del reato in capo all’imputato in maniera apparente e apodittica senza rispondere alle censure mosse nei motivi di appello.
Sostiene che, benché in tutto il giudizio di primo Grado, e anche nei motivi di appello, la difesa dell’imputato abbia cercato di dimostrare come in capo al Valente fosse assente l’elemento psicologico del reato, la Corte territoriale, alla pagina 6 della sentenza di appello, si sarebbe limitata a sostenere come tale tesi fosse “manifestamente inverosimile”, senza rispondere alle precise censure sollevate con i motivi d’impugnazione alla sentenza del Tribunale di Ravenna. Invero, una più attenta lettura di tutti gli atti processuali e dei motivi di appello avrebbe permesso di evidenziare la totale assenza dell’elemento soggettivo del reato in capo al ricorrente.
Il quale premette che le operazioni finanziarie e immobiliari, i cui effetti fiscali sono poi confluiti nella dichiarazione dei redditi per l’anno 2010, fossero:
1. la svalutazione del valore della partecipazione in A. s.r.l. della R. s.r.l., per l’importo di Euro 1.685.372,00;
2. la svalutazione della partecipazione in A. s.r.l. delle quote della R.C. s.r.l., società partecipata al 100% dalla stessa A. s.r.l., per l’importo di Euro 589.213,00;
3. la sottoscrizione di un preliminare di compravendita avvenuta in data 14 maggio 2009 da parte di A. s.r.l. per l’acquisto un’unità immobiliare alberghiera denominata H.I. per il prezzo di Euro 21.000.000,00 e la successiva risoluzione del 27 novembre 2009 con il riconoscimento da parte di E. s.r.l. di una penale pari ad Euro 400.000,00 per inadempimento del promissario acquirente;
4. l’operazione di permuta di quote societarie effettuata in data 14 maggio 2009 tra la A. s.r.l. e la E. s.r.l. che aveva coinvolto altre società facenti riferimento al Sig. G.M..
Ciò posto, è pacifico, ad avviso del ricorrente, che tutte le operazioni fiscali censurate siano state compiute da soggetti diversi dall’imputato il quale, nel momento in cui le stesse erano realizzate, non rivestiva alcuna carica direttiva all’interno della società A. s.r.l.; quindi, siccome sono stati proprio gli esiti economici delle predette condotte che hanno reso “infedele” la dichiarazione dei redditi, per stabilire che l’imputato ne doveva rispondere, bisognava prima dimostrare che egli avesse in qualche modo concorso a cagionarle.
Al contrario, sia nella sentenza di primo grado che in quella di appello, i giudici di merito hanno surrettiziamente sostenuto che, siccome il Valente fosse socio della A. s.p.a., allora non poteva non sapere quello che faceva l’organo amministrativo.
La realtà era, invece, ben diversa e un’attenta lettura di tutto il materiale probatorio in atti, che il ricorrente riassume nel ricorso da pagina 5 a pagina 10, avrebbe facilmente permesso ai giudici di merito di giungere a soluzioni opposte rispetto a quelle alle quali sono invece pervenuti.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Quanto al primo motivo, la Corte d’appello, sul punto della riqualificazione del fatto, ha affermato come lo stesso ricorrente nei motivi aggiunti avesse rilevato che, dopo le modifiche al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 introdotte dal d.lgs. 5 agosto 2015, n. 158, il reato contestato di dichiarazione infedele è integrato dall’indicazione di costi “inesistenti” e non più soltanto “fittizi”.
In questo nuovo quadro normativo, la Corte felsinea, in parziale accoglimento della formulata doglianza, ha ritenuto che il fatto commesso dall’imputato non rientrasse nella nuova fattispecie di cui all’articolo 4 poiché gli elementi passivi dichiarati non erano “inesistenti” (vale a dire mai venuti ad esistenza in rerum natura) bensì solo “fittizi” poiché le somme erano state effettivamente pagate, ma con un fine e con operazioni fraudolente (come testualmente le aveva qualificate non solo il primo giudice, ma anche l’imputato nel suo gravame).
Inoltre gli elementi attivi non indicati non erano il frutto di sottofatturazioni di importi effettivamente incassati, bensì l’esito di fraudolente svalutazioni finalizzate a frodare il fisco.
Da ciò la Corte territoriale ha tratto argomento per sostenere che la condotta era ratione temporis sussumitele nel fatto di reato originariamente tipizzato nell’articolo 4 d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74 e, tuttavia, dal momento in cui tale articolo era stato modificato (22 ottobre 2015), la fattispecie contestata non era più applicabile.
Nondimeno, le condotte poste in essere dall’imputato (che, nei motivi aggiunti, il ricorrente, al pari del Tribunale, aveva definito espressamente aventi “carattere fraudolento”) avevano, ad avviso della Corte d’appello, determinato, con tutta evidenza, la presentazione di una vera e propria dichiarazione fraudolenta, integrante il delitto di cui all’articolo 3 d.lgs. n. 74 del 2000, anche considerata la nuova fattispecie incriminatrice tipizzata in tale ultima disposizione all’esito della modifica normativa.
La Corte distrettuale ha pertanto precisato che, nel caso di specie, le quattro operazioni fraudolente erano state poste deliberatamente in essere dall’imputato per frodare il fisco ed erano state realizzate con mezzi fraudolenti (diversi dall’utilizzo di fatture o documenti relativi ad operazioni inesistenti), mezzi certamente idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, tanto che solo un’accuratissima indagine congiunta della Guardia di Finanza e dell’Agenzia dell’Entrate aveva posto in luce il complesso intreccio societario e contrattuale, che aveva permesso di indicare nella dichiarazione presentata nel settembre 2010 poste che consentivano di ottenere un indebito vantaggio fiscale per oltre mezzo milione di Euro.
Sulla base di ciò, la Corte emiliana ha affermato che il fatto commesso, pur non rientrando più nell’articolo 4, continuava ad essere reato perché la condotta realizzata era, con tutta evidenza, sussumibile nel delitto di cui all’articolo 3 decreto legislativo n. 74 del 2000, sussistendo tutti i requisiti richiesti dal secondo comma di tale articolo. Infatti:
a) l’imposta evasa era superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro trentamila;
b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, era superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione (pari ad Euro 236.179,00) e, comunque, era superiore ad euro un milione e cinquecentomila, nonché l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta era superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima, sia superiore ad euro trentamila.
3. Il ricorrente obietta che, in tal modo, la Corte d’appello, in aperta violazione dei diritti della difesa, avrebbe ritenuto in sentenza un fatto diverso da quello contestato.
3.1. Sennonché, come chiaramente emerge dal testo della sentenza impugnata e dagli atti del processo che la Corte è abilitata a consultare in considerazione della natura processuale del vizio denunciato, il ricorrente, nei motivi aggiunti, aveva affermato, come ha dato puntualmente atto la Corte d’appello, che la complessa verifica fiscale e tributaria svolta dalla GDF e dall’Agenzia delle Entrate di Ravenna, che aveva preceduto il procedimento in questione, nonché l’articolata istruttoria dibattimentale celebratasi davanti al Tribunale di Ravenna, avevano chiarito come nel caso di specie non ci si trovasse in presenza di una dichiarazione infedele, non essendo stati omessi componenti positivi del reddito ovvero indicati costi inesistenti, tanto sul rilievo che le annotazioni nella stessa riportate erano state «il risultato di operazioni fraudolente, anzi per usare la stessa terminologia utilizzata dal Tribunale alla pagine 7, 9 e 10 dell’impugnata sentenza, artificiose e fraudolente, e quindi non punibili ai sensi della norma contestata», aggiungendo come tale ricostruzione fosse «corroborata dalla lettura sia dell’avviso di accertamento redatto dall’Agenzia delle Entrate di Ravenna, il quale riporta ampi stralci del PVC eseguito dalla GDF di Ravenna, che della sentenza impugnata».
Partendo dalla lettura dell’avviso di accertamento, in merito alle operazioni che avevano comportato la svalutazione in A. s.r.l. delle partecipazioni di R. s.r.l. e R.C., il ricorrente aveva evidenziato come risultasse che l’insieme delle notizie acquisite nel corso del controllo aveva indotto i verbalizzanti, con un giudizio condiviso dall’Agenzia, a ritenere «come artificiose e fraudolente (…) le svalutazioni operate a chiusura dell’esercizio 2008».
Quanto poi al pagamento della somma di Euro 400.000,00, quale caparra trattenuta in merito alla mancata sottoscrizione del contratto definitivo di compravendita per l’albergo H.I. tra la A. s.r.l. e l’A. s.r.l., che era stata recuperata a tassazione per difetto d’inerenza dall’Agenzia delle Entrate, il ricorrente, riferendosi all’avviso di accertamento, aveva sottolineato come ivi si facesse espresso riferimento alla «condotta fraudolenta posta in essere tra le parti», riferendo infine che «da ultimo, riguardo all’operazione di permuta di quote sociali avvenuta in data 14 maggio 2009, l’Agenzia delle Entrate» aveva ravvisato “la sussistenza di elementi idonei a confortare l’ipotesi di una condotta fraudolentemente antieconomica posta in essere dall’organo amministrativo di A. finalizzata a generare perdite di bilancio”.
Il ricorrente concludeva che tali considerazioni, circa il carattere fraudolento delle operazioni che avevano comportato la redazione di una dichiarazione dei redditi riguardanti l’anno 2009 trovavano successiva conferma «nel fatto che, alla pagina 9 dell’avviso di accertamento, ovvero nella parte in cui l’Ufficio ridetermina(va) la dichiarazione stessa alla luce delle indagini svolte, i “ricavi non dichiarati” sono definiti di natura “induttiva” e che quindi, non si tratta (va) di ricavi esistenti ma non dichiarati ma di ricavi occultati tramite operazioni fraudolente e quindi non rientranti nella contestazione mossa (…) alla luce della nuova normativa di settore. Alla medesima conclusione circa la non sussistenza per il delitto così come contestato, si giunge anche analizzando il carattere dei costi deducibili indicati nella dichiarazione e che sono stati ritenuti non inerenti al seguito dell’accertamento fiscale; anche in questo caso non ci si trova alla presenza di componenti negative del reddito mai venute ad esistenza ma di costi fittizi e come tali sottratti alla punibilità (…). In coerenza con quanto ricostruito anche durante l’istruttoria dibattimentale, ma in aperta violazione della normativa vigente, è lo stesso Tribunale di Ravenna che, nella sentenza impugnata, utilizza l’identica terminologia impiegata dall’Agenzia Entrate di Ravenna e definisce come “artificiose e fraudolente” le operazioni economiche riguardanti la svalutazione delle partecipazioni R. s.r.l. e R.C. s.r.L, come fraudolenta condotta posta in essere tra le parti (…) la vicenda riguardante il preliminare di compravendita e come “condotta fraudolentemente antieconomica posta in essere dall’organo amministrativo di A. s.r.l.” l’operazione attuata in merito alla permuta di azioni tra società infragruppo».
3.2. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza (come erroneamente mostra di ritenere, nel caso in esame, il ricorrente) perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619 – 01).
Questo principio di diritto è stato successivamente ribadito dalle stesse Sezioni Unite (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051 – 01) e fa leva sul fatto che l’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato, tanto sul rilievo che la nozione strutturale di “fatto” va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e dcisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sez. 1, n. 35574 del 18/06/2013, Crescioli, Rv. 257015 – 01; Sez. 4, n. 10103 del 15/01/2007, Granata, Rv. 236099 – 01).
E’ allora di tutta evidenza come una situazione di dissociazione insanabile tra fatto fondante l’accusa contestata e fatto (diverso) ritenuto in sentenza, produttivo di un vulnus irreparabile al diritto di difesa, non sia assolutamente predicabile quando sia stato lo stesso imputato a precisare gli elementi di fatto sulla base dei quali il giudice è pervenuto alla qualificazione giuridica dell’episodio della vita oggetto della contestazione.
Al ricorrente si rimprovera, come lo stesso si mostra edotto nel ricorso tant’è che proprio su tali aspetti la difesa è stata puntualmente articolata, di avere presentato una dichiarazione dei redditi indicante elementi passivi fittizi per complessivi Euro 800.599,00 derivanti da due distinte operazioni, in particolare un “finto” preliminare di compravendita all’esito del quale la A. s.r.l. versava ad altra società 400.000,00 Euro (in realtà un milione di Euro, di cui 600.000 restituiti) allo scopo di frodare il fisco ed una altrettanto “fraudolenta” cessione di quote delle azioni della S.P.A. A. al fine di evidenziare una “minusvalenza” di Euro 400.599,05; nonché elementi attivi esistenti ma non dichiarati per complessivi Euro 2.086.901,00 derivanti da due fraudolente, perché finalizzate a frodare il fisco, operazioni di svalutazione del valore delle partecipazioni delle società R. s.r.l. e R.C. s.r.l.
Nel caso specifico, dunque, non è dato riscontrare alcuna violazione del diritto di difesa, atteso che l’imputato è stato posto nella condizione di interloquire su ogni aspetto della vicenda e, anzi, egli stesso, attraverso la sua difesa tecnica, ha offerto gli elementi, desumibili dal corredo processuale ed espressamente dallo stesso ricorrente richiamati, per pervenire a una diversa qualificazione giuridica del fatto nel senso esattamente coincidente con l’addebito che gli era stato mosso.
La doglianza è pertanto priva di qualsiasi giuridico fondamento e ciò per la decisiva circostanza che gli spunti significativi per la modifica dell’imputazione erano stati offerti con i motivi aggiunti, in precedenza richiamati, da parte della stessa difesa.
3.2. La conseguente questione circa la sussunzione del fatto storico, come ricostruito e ritenuto in sentenza, nel raggio della fattispecie incriminatrice ex articolo 3 d.lgs. n. 74 del 2000, come modificato dall’articolo 3 d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, non è oggetto del motivo di ricorso ed è stata comunque correttamente scrutinata dalla Corte d’appello (v. sub § 2 del considerato in diritto), la quale ha ravvisato nella condotta dell’imputato un comportamento insidioso ed ingannatorio, idoneo ad ostacolare l’accertamento dell’imponibile ed a indurre in errore l’amministrazione finanziaria, requisiti che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto atti ad integrare la fattispecie criminosa ex articolo 3 d.lgs. n. 74 del 2000 (Sez. 3, n. 37127 del 29/03/2017, Capuano, Rv. 271300 – 01).
Si tratta, infatti, di un reato a soggettività ristretta, potendo essere realizzato solo da coloro che sono obbligati alla presentazione della dichiarazione dei redditi, e a condotta bifasica che si articola in due segmenti: 1) la dichiarazione mendace e 2) l’attività ingannatoria a sostegno del mendacio materializzato nella dichiarazione, attività ingannatoria che si risolve, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, nella realizzazione di condotte tipiche tra loro alternative [= a) compimento di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero b) ricorso a documenti falsi o c) ricorso a mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria].
Avendo la Corte d’appello ravvisato, nel caso di specie, la condotta tipica nella presentazione di una dichiarazione mendace accompagnata dal ricorso a mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, il fatto di reato, in presenza del superamento (neppure contestato) delle soglie di punibilità, è stato correttamente ritenuto con la conseguente manifesta infondatezza del motivo di ricorso in parte qua.
4. Anche il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Con accertamento di fatto, adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità, sottratto pertanto al sindacato di legittimità, la Corte distrettuale ha affermato, scrutinando le doglianze sollevate con l’atto di appello, come dal quadro probatorio emergesse non solo la piena consapevolezza del ricorrente circa la fraudolenza delle quattro descritte operazioni, ma anche la sua piena partecipazione alle stesse.
Infatti, la Corte felsinea ha osservato come le due rilevantissime svalutazioni avevano comportato per la società un indebito vantaggio fiscale di 520.879,00 euro ed analoghi vantaggi scaturivano anche dal pagamento della somma di 400.0, 00 euro relativa a un preliminare mai andato a buon fine nonché dalla minusvalenza di 400.599,05 euro, con la conseguenza che tali importanti circostanze non potevano essere estranee al patrimonio conoscitivo del ricorrente.
Il quale, per giustificare la sua inconsapevolezza, aveva dichiarato di non aver mai verificato la fondatezza di tali poste e neppure aveva chiesto chiarimenti ad altri, circostanza ritenuta, da punto di vista logico, intrinsecamente del tutto inverosimile, soprattutto alla luce del fatto che le suddette operazioni comportavano vantaggi fiscali di rilevantissimo importo.
Peraltro, quanto al preliminare di compravendita dell’Hotel H.I., la Corte d’appello ha osservato che il contratto fu stipulato, con contestuale versamento dell’importo di un milione di euro, non solo quando (14 maggio 2009) l’imputato era componente (con deleghe) del consiglio di amministrazione e socio della A. s.r.l. (quantomeno al 50% secondo la sua stessa prospettazione svolta nel gravame, nonostante non vi fosse prova alcuna del pagamento ad opera del Musca del rilevantissimo importo indicato nell’atto di compravendita di parte delle azioni A.), ma fu da lui personalmente sottoscritto, circostanza che è stata logicamente ritenuta dal giudice d’appello dimostrativa della piena consapevolezza di tutta l’operazione stimata fraudolenta per le ragioni evidenziate dal Tribunale (da pagina 7 a pagina 9 della sentenza di primo grado).
Del resto, il primo giudice aveva puntualmente evidenziato come analoga operazione (finto preliminare di compravendita con E. s.r.l.) era stata realizzata dal ricorrente quando divenne amministratore unico e socio unico (per sua stessa ammissione) della A. s.r.l., circostanza ritenuta ulteriormente dimostrativa della piena consapevolezza e partecipazione del ricorrente stesso alla precedente ed identica fraudolenta operazione.
Quanto alla svalutazione della partecipazione R. s.r.l. (pari a 1.685.372 Euro), la Corte d’appello ha affermato che la A. aveva acquistato le quote della R. il 10 giugno 2008 al prezzo di 1.753.063 euro ed a questa data amministratore della A. era il fratello dell’imputato (A.V.), che era il socio di maggioranza (67%) di tale società; inoltre l’imputato era stato il proprietario, attraverso la S. s.r.l., della R., la quale al momento della cessione era controllata al 95% dalla stessa A., ed aveva come socio al 5% ancora il fratello dell’imputato; poco più di sei mesi dopo (chiusura del bilancio al 31 dicembre 2008) la partecipazione venne svalutata quasi completamente (1.685.372,00 euro): in questi sei mesi, amministratori unici della A. erano stati il fratello (sino al 10 ottobre) e la moglie (sino al 30 dicembre) dell’imputato; dal 31 dicembre risultò membro del consiglio di amministrazione lo stesso imputato (oltre che socio quantomeno al 50%) che approvò il bilancio contenente la svalutazione (comportante un rilevantissimo vantaggio fiscale).
In questo contesto probatorio, la Corte territoriale ha osservato come la tesi difensiva – secondo la quale il ricorrente (socio di maggioranza) nulla sapesse, approvando un bilancio per la fiducia riposta nelle precedenti gestioni (da parte del fratello, della moglie e del Musca), senza leggere quanto era stato scritto dai sindaci della società, è apparso manifestamente inverosimile e contrastante con l’evidente rilievo che la svalutazione comportava per la A. s.r.l. un rilevantissimo ed indebito vantaggio fiscale, del quale il socio di maggioranza (e poi socio unico) A.V. aveva beneficiato, circostanza questa che smentiva la tesi difensiva secondo la quale il ricorrente sarebbe stato un ignaro spettatore disinteressato alle vicende sociali.
Analoghe considerazioni sono state svolte con l’identica operazione effettuata con la partecipazione della R.C. s.r.l. e con l’operazione concernente la vendita delle azioni A..
Su queste basi, la Corte d’appello ha ritenuto provata con assoluta certezza la piena partecipazione, oltre che la assoluta consapevolezza, dell’imputato alle quattro fraudolente operazioni tese a frodare il fisco e ad ottenere illeciti vantaggi fiscali.
E’ pertanto destituita di qualsiasi fondamento la censura secondo la quale la Corte d’appello non avrebbe motivato sulla sussistenza dell’elemento psicologico in capo al ricorrente.
E’ invece evidente come la doglianza miri a fornire un diverso quadro probatorio fondato su una differente e alternativa lettura degli atti processuali, connotandosi, oltre che per la manifesta infondatezza, anche per la sua portata tipicamente fattuale, in quanto il ricorrente, nel censurare la congruità della motivazione, introduce censure di merito che non possono rientrare nell’orizzonte cognitivo del giudice di legittimità, non potendosi devolvere alla Corte di cassazione doglianze con le quali, deducendosi apparentemente una violazione della legge penale o una carenza logica od argomentativa della decisione impugnata, si pretende, invece, una rivisitazione del giudizio valutativo sul materiale probatorio, operazione non consentita nel giudizio di cassazione all’interno del quale non è possibile innestare censure che implicano la soluzione di questioni fattuali, adeguatamente e logicamente risolte, come nel caso in esame, dal giudice del merito.
Ne discende che, al cospetto di una doppia conforme valutazione sulla responsabilità dell’imputato ricavabile dal convergente approdo cui sono pervenuti i Giudici del merito, l’apparato logico della decisione impugnata, come in precedenza riassunto, deve ritenersi corredato da una motivazione priva di vizi di manifesta illogicità nonché da un apparato argomentativo puntuale, esauriente e del tutto ineccepibile.
E’ solo il caso di ricordare che, quanto ai reati tributari cd. “in dichiarazione”, tra cui rientra il delitto ex articolo 3 d.lgs. n. 74 del 2000, non è necessario, ai fini dell’integrazione della relativa fattispecie incriminatrice, che il soggetto attivo abbia necessariamente compiuto gli atti prodromici all’evasione delle imposte o che ne fosse a conoscenza nel momento preciso in cui essi sono stati compiuti o che abbia concorso a compierli, ma è necessario che, unitamente alle altre note di disvalore del fatto di reato, egli ne abbia la consapevolezza al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi, perché, essendo il diretto destinatario degli obblighi di legge, incombono sull’agente, prima che la dichiarazione sia presentata, i doveri di vigilanza e di controllo, il cui mancato espletamento può comportare la responsabilità penale, anche a titolo di dolo eventuale, per la semplice accettazione del rischio che dalla condotta (presentazione della dichiarazione) possa derivare l’evasione delle imposte dirette o dell’Iva.
Come è stato in precedenza chiarito, il reato ex articolo 3 d.lgs. n. 74 del 2000 è a struttura bifasica ed implica una dichiarazione mendace nonché un’attività ingannatoria posta a sostegno del mendacio materializzato nella dichiarazione (“… avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi …”), attività ingannatoria che, nel caso in esame, si è risolta, con la compilazione e la presentazione della dichiarazione, nell’avvalersi di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria.
Ciò posto, osserva il Collegio come la motivazione della sentenza impugnata si sia assestata su una base dimostrativa dell’esistenza del dolo diretto, avendo fatto leva non solo sull’interesse dell’imputato a trarre immediato beneficio dagli atti fraudolenti compiuti per gli indebiti e rilevanti vantaggi fiscali che ne sono derivati, ma anche sulla posizione dominante rivestita dallo stesso soggetto attivo all’interno degli assetti societari, desumendo da ciò (e non certo apoditticamente come erroneamente assunto dal ricorrente) la piena consapevolezza della condotta illecita compiuta dall’agente con la mendace ed ingannatoria presentazione della dichiarazione dei redditi.
5. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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