CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 15779 depositata il 25 maggio 2020
Reati tributari – Indebito utilizzo in compensazione di crediti d’imposta inesistenti – Sequestro finalizzato alla confisca – Somme in possesso della procedura fallimentare
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza dell’11 luglio 2019, il Tribunale del Riesame di Caltanissetta confermava il decreto del 19 marzo 2019, con cui il G.I.P. presso il Tribunale di Gela aveva disposto il sequestro preventivo della somma di 3.253.566,22 euro nei confronti della società B. s.r.l., in ordine all’imputazione provvisoria di cui al capo 17, avente ad oggetto il reato di cui agli art. 110 cod. pen. e 10 quater comma 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, contestato a G.E.M.T., all’epoca legale rappresentate della società in questione, accusato, in concorso con altri 4 indagati, di avere effettuato nell’anno 2015 compensazioni indebite utilizzando crediti inesistenti per un importo pari a 3.253.566,22 euro, in modo da permettere alla B. s.r.l. di ottenere sgravi sulle cartelle esattoriali; fatto accertato in Milano il 30 giugno 2015.
2. Avverso l’ordinanza del Tribunale nisseno, la Fallimento B. s.r.l., in persona del curatore fallimentare L.G.S., tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando due motivi.
Con il primo, la difesa richiede di rimettere alle Sezioni Unite la questione relativa alla possibilità di utilizzare le modalità di presentazione previste dall’art. 582 comma 2 cod. proc. pen. anche per i ricorsi di cui all’art. 325 cod. proc. pen., osservando che prevedere che questi ultimi siano depositati presso la cancelleria che ha emesso la decisione costituisce un onere per il difensore del tutto ingiustificato e anacronistico nell’era della digitalizzazione, idoneo ad accorciare ulteriormente il termine previsto dall’art. 385, comma 1, lett. a) cod. proc. pen.
Con il secondo motivo, è stata dedotta la violazione dell’art. 12 bis del d.lgs. n. 74 del 2000, evidenziandosi che, a differenza di quanto sostenuto dal Tribunale, le somme di denaro in possesso della procedura fallimentare, soprattutto quando siano depositate in Banca, come avvenuto nel caso di specie, non possono essere qualificate come beni “intrinsecamente e oggettivamente pericolosi”, anche perché ragionevolmente destinate in larga parte al Fisco; il denaro, infatti, diventa “pericoloso” laddove sia nella disponibilità dell’autore dell’illecito che ha portato alla sua accumulazione, con le conseguenti possibili distorsioni del suo utilizzo. Viceversa, il curatore fallimentare è organo gestore di una procedura regolata dalla legge e, quale ausiliario dello Stato, opera sotto la vigilanza del giudice delegato, potendo destinare il denaro della procedura o a spese autorizzate previste dalla legge o al pagamento dei creditori ammessi, sotto il controllo giudiziario.
Peraltro, l’esame dei titoli di credito fiscale emessi contro la B. s.r.l. rendeva evidente che la situazione debitoria preesisteva all’indebita compensazione, per cui doveva ritenersi che il reato costituente il presupposto del sequestro non aveva comportato arricchimento della società, non potendosi ritenere quindi consentito stravolgere l’ordine dei privilegi stabilito dagli art. 2745 ss. e 2777 cod. civ.
In caso di fallimento, infatti, il debito preesistente rimane ex lege soggetto all’ordine dei privilegi, cui la normativa penale e processuale non può derogare. Secondo la prospettiva difensiva, dunque, la misura disposta successivamente all’apertura della procedura fallimentare non poteva colpire il conto corrente della stessa, sul quale sono in deposito somme in sé non pericolose, che nulla hanno a che fare con l’illecito, ravvisandosi diversamente un’evidente violazione di legge, che porrebbe financo problemi di compatibilità costituzionale con l’art. 3 Cost.
Se infatti la funzione della confisca fosse quella di impedire la restituzione al reo dei benefici conseguenti all’attività illecita, tale funzione non potrebbe riverberarsi certo sui creditori in buona fede, mentre, se la funzione della confisca mascherasse una sanzione, tale credito dovrebbe seguire l’ordine legale dei privilegi.
Considerato in diritto
È fondato il secondo motivo di ricorso, nei soli limiti di seguito esposti.
1. In via preliminare, deve rilevarsi che la richiesta difensiva di riunione del presente giudizio a quello avente il numero 40144/2019 N.R.G. è stata disattesa dalla Corte, posto che, come correttamente rilevato dal Procuratore generale, i ricorsi, per quanto concernenti questioni giuridiche sovrapponibili, hanno avuto tuttavia ad oggetto provvedimenti tra loro differenti ed emessi in fasi diverse.
2. Tanto premesso e iniziando dal primo motivo, occorre innanzitutto ribadire la legittimazione del curatore fallimentare a proporre l’odierna impugnazione, dovendosi richiamare in proposito la recente affermazione delle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 45936 del 26/09/2019, Rv. 277257, ricorrente curat. fall, di Mantova Petroli s.r.l. in liquidazione) che, superando un precedente orientamento delle Sezioni Unite (sentenza n. 11170 del 25/09/2014, dep. 2015, Rv. 263681, ricorrente Uniland s.p.a.), hanno stabilito il principio secondo cui il curatore fallimentare è legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e a impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale.
È stato in tal senso precisato che la legittimazione del curatore, discendente dalla titolarità del diritto alla restituzione dei beni sequestrati, deve essere riconosciuta non solo, come nel caso di specie, in relazione ai beni caduti in sequestro dopo la dichiarazione di fallimento, ma anche per quelli sequestrati prima di tale momento, giacché anch’essi facenti parte della massa attiva che entra nella disponibilità della curatela, con contestuale spossessamento del fallito, ai sensi dell’art. 42 legge fall. A ciò deve solo aggiungersi che l’odierno ricorso risulta ammissibile anche sotto il profilo della tempestività, atteso che, a fronte di un avviso di deposito dell’ordinanza impugnata notificato il 26 agosto 2019, l’impugnazione è stata ritualmente depositata nella cancelleria competente il 9 settembre 2019, dunque nel rispetto del termine di 15 giorni ex art. 585, comma 1, lett. a), cod. proc. pen..
Ciò posto, la difesa, nel precisare di aver rispettato le indicazioni ermeneutiche provenienti dalla giurisprudenza di legittimità (è citata in particolare Sez. 2, n. 3261 del 30/11/2018, dep. 2019, Rv. 274894) sollecita di rimettere alle Sezioni Unite il quesito sulla possibilità di procedere al deposito dell’impugnazione presso la cancelleria di un giudice diverso da quello che ha emesso il provvedimento cautelare gravato, senza che ciò incida sul rispetto del termine di impugnazione. Si tratta tuttavia di una richiesta evidentemente non suscettibile di essere accolta, sia perché nel caso di specie il tema non assume alcun rilievo pratico, essendo state rispettate le modalità formali di presentazione del ricorso, sia perché, in ogni caso, sui canoni interpretativi fissati dalla sentenza di legittimità richiamata dalla difesa non si registra alcun contrasto ermeneutico, essendo pacifico il principio secondo cui il ricorso per cassazione presentato nella cancelleria del giudice diverso da quello che ha emesso il provvedimento cautelare impugnato è ammissibile soltanto ove esso sia pervenuto tempestivamente anche alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, ponendosi a carico del ricorrente il rischio che l’impugnazione, presentata a un ufficio diverso da quello indicato dalla legge, sia dichiarata inammissibile per tardività, in quanto la data di presentazione rilevante ai fini della tempestività, salvi i casi espressamente previsti dagli art. 582 e 583 cod. proc. pen., è quella in cui l’atto perviene all’ufficio competente a riceverlo (in questi termini, cfr. Sez, 5, n. 42401 del 22/09/2009, Rv. 245391 e Sez. Fer., n. 35125 del 19/08/2008, Rv. 240668).
3. Passando al secondo motivo, prima di affrontare la censura difensiva, appare utile premettere che, con il decreto del 19 marzo 2019, il G.I.P. ha disposto il sequestro preventivo sino alla concorrenza della somma di euro 3.253.566,22 nei. confronti dell’impresa che, secondo la prospettazione accusatoria, ha beneficiato del risparmio di imposta scaturito dall’indebita compensazione contestata al suo legale rappresentante, e, solo in caso di incapienza e per la parte mancante, nei confronti delle persone fisiche indagate rispetto al capo 17.
Il Tribunale del Riesame ha in tal senso ribadito che nel caso di specie si verte in una ipotesi di sequestro diretto del profitto del reato nei confronti della società, tale dovendosi qualificare il risparmio di imposta conseguito dalla società B., ciò in coerenza con l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Sez. Un. n. 31617 del 26/06/2015, ricorrente Lucci, Rv. 264436), secondo cui, qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia la disponibilità deve essere qualificata come confisca diretta; tenuto conto della particolare natura del bene, quindi, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato, rilevando solo che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, ciò legittimando la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo.
Ora, il dato fattuale, invero pacifico, da cui traggono spunto le doglianze difensive, è che il sequestro è intervenuto nel marzo 2019, ovvero in epoca successiva al 31 luglio 2017, data in cui è stato dichiarato il fallimento della B. s.r.l.
Da ciò, rileva la difesa, deriverebbe l’illegittimità del vincolo cautelare, ritenendosi la peculiare natura dell’attivo fallimentare di ostacolo all’applicabilità dell’art. 12 bis del d. Igs. n. 74 del 2000, che imporrebbe di considerare la disponibilità dei beni appresi dalla procedura fallimentare come assorbente, trattandosi di un soggetto terzo, rispetto alla titolarità formale del diritto di proprietà in capo all’indagato, che tuttavia è stato privato del potere di fatto sui medesimi beni.
La tesi difensiva è invero corroborata dal richiamo all’orientamento di questa Corte (invero non isolato ed espresso chiaramente con la sentenza Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018, Rv. 273951), secondo cui, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all’art. 12 bis del d.lgs. n. 74 del 2000, non può essere appunto adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento.
Del resto, si è osservato, il vincolo apposto sui beni del fallito a seguito della apertura della procedura concorsuale, oltre a “spossessare” la società fallita dai beni che costituiscono la garanzia patrimoniale del ceto creditorio, conferisce al curatore, che insieme al Tribunale e al giudice delegato ne è l’organo, il potere di gestione di tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento e garantire la par condicio dei creditori, i quali, in virtù dell’ammissione al passivo, sono portatori di diritti alla conservazione dell’attivo, nella prospettiva della migliore soddisfazione dei loro crediti, che trovano così riconoscimento e tutela, pur convivendo fino alla vendita fallimentare con quelli di proprietà del fallito e con il vincolo concorsuale. A tali obiezioni il Tribunale del Riesame ha replicato manifestando invece adesione alla differente impostazione ermeneutica (espressa in sede di legittimità da Sez. 3 n. 23907 dell’01/03/2016, Rv. 266940, da Sez. 3, n. 28077 dell’09/02/2017, Rv. 270333 e, almeno in parte, da Sez. Un., n. 29951 del 24/07/2004, Rv. 228165, ricorrente cur. fall, in proced. a carico di Focarelli), secondo cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, del profitto dei reati tributari, prevista dall’art. 12 bis comma 1 del d.lgs. n. 74 del 2000, prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto della ammissione al concordato preventivo, attesa l’obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro, per cui il rapporto tra il vincolo imposto dall’apertura della procedura concorsuale e quello discendente dal sequestro deve essere risolto a favore della seconda misura, prevalendo sull’interesse dei creditori l’esigenza di inibire l’utilizzazione di un bene oggettivamente e intrinsecamente pericoloso, in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato.
Le finalità del fallimento non sono dunque in grado di assorbire la funzione assolta dal sequestro, tanto più che i diritti di credito dei terzi non appaiono ricompresi nell’ambito ristretto indicato dall’art. 12 bis comma 1 del d. Igs. n. 74 del 2000 (e prima ancora dall’art. 322 ter cod. pen.), essendo rappresentato l’unico limite alla confiscabilità dalla “appartenenza” del bene a persona estranea al reato.
4. Così sintetizzati i due orientamenti che si sono formati sul tema dei rapporti procedura concorsuale e sequestro penale, occorre rilevare che in realtà gli stessi convergono nel ritenere prevalente il sequestro, laddove quest’ultimo sia intervenuto precedentemente alla dichiarazione di fallimento della società, per cui il dissenso interpretativo investe essenzialmente il caso in cui, come nella vicenda in esame, la dichiarazione di fallimento sia intervenuta prima del sequestro. Ritiene tuttavia il Collegio che la sequenza temporale tra i due vincoli in realtà non sia un aspetto di per sé dirimente, e ciò proprio in considerazione del differente ambito operativo tra la procedura concorsuale e la misura cautelare reale.
Mentre infatti la prima è finalizzata a consentire la soddisfazione dei creditori dell’impresa che versi in stato di insolvenza, la seconda è volta a sottrarre alla disponibilità dell’indagato i proventi di un determinato reato, per cui il problema, in caso di sovrapposizione dei due vincoli, non è tanto quello di stabilire quale sia di esso sia stato apposto per primo, ma piuttosto quello di valutare a quale delle diverse esigenze di tutela occorre assicurare preminenza e in che termini.
Il tema, sia pure nella prospettiva dei rapporti tra procedura fallimentare e sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente operato ai sensi dell’art. 19 comma 2 d. Igs. n. 231 del 2001, è stato diffusamente esplorato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 11170 del 25/09/2014, dep. 2015, Rv. 263681, ricorrente Uniland s.p.a., che, nell’escludere la legittimazione del curatore fallimentare a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro, aveva affermato che deve essere il giudice penale, nel disporre il sequestro o la confisca, a dover valutare se eventuali diritti vantati da terzi siano o meno stati acquisiti in buona fede; e, in caso di esito positivo di tale verifica, il bene, la cui titolarità sia vantata da un terzo, non sarà sottoposto né a sequestro né a confisca. Dunque, spetta al giudice penale della cognizione la valutazione sulla titolarità o meno del diritto del terzo, oltre che in ordine alle modalità della acquisizione del diritto, essendo fatti salvi esclusivamente i diritti acquisiti in buona fede.
Peraltro, la legittimazione del curatore fallimentare a impugnare il provvedimento impositivo della cautela reale era stata esclusa anche in base all’assunto secondo cui la dichiarazione di fallimento non trasferisce alla curatela la proprietà dei beni del fallito, ma solo l’amministrazione e la disponibilità degli stessi, per cui nessun diritto reale su tali beni poteva essere riconosciuto al curatore, che ha unicamente compiti gestionali, mirati al soddisfacimento dei creditori, non esercitando il curatore neppure diritti in rappresentanza dei creditori stessi, i quali, fino alla conclusione della procedura concorsuale, vantano una mera pretesa sui beni del fallito e non hanno quindi alcun titolo per la restituzione degli stessi.
Tale impostazione, come detto, è stata superata di recente da un altro intervento delle Sezioni Unite (sentenza n. 45936 del 26/09/2019, Rv. 277257), con cui si è osservato che la legittimazione del curatore a impugnare scaturisce dalla possibilità di riconoscere in capo allo stesso, rispetto alla totalità dei beni facenti parte dell’attivo fallimentare, senza limitazioni temporali, la veste di persona “avente diritto alla restituzione dei beni”, nella sua funzione di conservazione e reintegrazione della massa attiva del fallimento ai fini del soddisfacimento delle ragioni dei creditori, a cui la procedura fallimentare è istituzionalmente destinata. Ora, il riconoscimento in capo al curatore della legittimazione all’impugnazione dei provvedimenti impositivi di cautele reali non vale tuttavia ad alterare l’assetto dei rapporti tra procedura fallimentare e sequestro penale, dovendosi cioè ribadire che la misura ablatoria reale, in virtù del suo carattere obbligatorio, da riconoscere sia alla confisca diretta che a quella per equivalente, è destinata a prevalere su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento, non potendosi attribuire alla procedura concorsuale che intervenga prima del sequestro effetti preclusivi rispetto all’operatività della cautela reale disposta nel rispetto dei requisiti di legge, e ciò a maggior ragione nell’ottica della finalità evidentemente sanzionatoria perseguita dalla confisca espressamente prevista in tema di reati tributari, quale strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato.
5. Unico limite all’operatività della confisca diretta o per equivalente, per come desumile dal tenore letterale dell’art. 12 bis del d.lgs. n. 74 del 2000, è dunque soltanto l’eventuale appartenenza del bene a persona estranea al reato. Ciò comporta, in sede di merito, la necessità di un’attenta verifica da parte del giudice penale, volta, nel solco interpretativo tracciato dalla sentenza “Uniland”, in ciò non superata dalla successiva sentenza delle Sezioni Unite n. 45936 del 2019, ad accertare l’eventuale titolarità o meno di diritti di terzi, e, in caso positivo, le modalità della acquisizione del diritto, ciò al fine di valutarne la buona fede.
In quest’ottica, il giudice penale, in sede di merito, dovrà escludere dalla sottoposizione a sequestro e/o a confisca i beni che debbono essere restituiti al danneggiato e quelli sui quali il terzo abbia acquisito diritti in buona fede. L’esigenza di tale verifica assume una particolare pregnanza proprio nell’ambito delle procedure concorsuali, dovendosi cioè in questo ambito scrutinare con particolare rigore, soprattutto in presenza di un attivo fallimentare, l’esistenza della somma oggetto della cautelare reale e la possibile coesistenza, ove dedotta dal curatore, di diritti di proprietà concernenti gli stessi beni sottoposti a sequestro. Se è vero infatti che il sequestro penale è destinato a prevalere sugli interessi dei creditori all’integrale salvaguardia dell’attivo fallimentare, è tuttavia altrettanto innegabile che, sul piano pratico, è indispensabile circoscrivere compiutamente l’entità del profitto confiscabile, consentendo di soddisfare le preminenti ragioni di tutela penale, senza però arrecare pregiudizio alle concorrenti pretese creditorie, e tanto soprattutto laddove l’attivo fallimentare sia costituito da somme di denaro. In tema di reati tributari, poi, resta ferma l’esigenza di valutare anche se l’Erario abbia già proceduto al recupero delle somme non versate dal contribuente, ciò al fine di evitare un’indebita locupletazione da parte del Fisco, tenuto conto che, ai sensi del comma 2 del citato art. 12 bis, la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’Erario anche in presenza di sequestro.
6. Orbene, tale verifica, implicante evidentemente valutazioni di merito, non può ritenersi adeguatamente compiuta nel caso di specie.
Ed invero nell’ordinanza impugnata non risulta specificato se il sequestro abbia avuto esecuzione e, in caso affermativo, in che misura rispetto all’attivo fallimentare, non essendo chiaro poi se l’Erario (o insinuandosi al passivo o comunque in altra sede) abbia già provveduto a recuperare o meno le somme indebitamente non versate dalla B. s.r.l., anche se in maniera parziale.
In definitiva, per quanto debba ritenersi corretta la valutazione del Tribunale circa i rapporti tra sequestro penale e procedura concorsuale, tuttavia risulta carente nel caso di specie l’accertamento circa taluni essenziali aspetti operativi, come la consistenza dell’attivo fallimentare, l’esecuzione o meno della misura e l’eventuale e preventivo soddisfacimento del credito erariale rispetto all’importo suscettibile di confisca, non risultando altresì specificato se e in che termini siano state dedotte dal curatore eventuali pretese creditorie da soggetti in buona fede.
Tale lacuna motivazionale impone pertanto l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio al Tribunale del Riesame di Caltanissetta per nuovo esame, da compiere alla stregua delle coordinate interpretative in precedenza richiamate.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Caltanissetta.
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