CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 16366 depositata il 15 aprile 2019
Attività di dottore commercialista – Configurazione del reato di esercizio abusivo della professione – Accesso abusivo al sistema informatico dell’anagrafe tributaria – Responsabilità del prestanome – Reato di concorso nei reati
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello Di Milano confermava la responsabilità della I. per i reati di esercizio abusivo della professione e per quello di truffa, veniva confermata anche la responsabilità del Prestanome per il reato di concorso nel reato di esercizio abusivo della professione e per quello di ingresso abusivo nell’Anagrafe Tributaria, sistema informatico protetto.
2. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore della I. che deduceva:
2.1. violazione di legge: la notifica del rinvio dell’udienza al difensore della ricorrente disposta all’udienza del 12 ottobre 2017 veniva effettuata senza il rispetto del termine previsto dall’art. 601 cod. proc. pen.;
2.2. violazione dell’art. 525 cod. proc. pen: dal verbale dell’udienza del 18 gennaio 2018 risultava un collegio diverso da quello indicato nell’intestazione della sentenza che, peraltro indicava come relatore il Presidente, mentre la sentenza risultava sottoscritta sia dall’estensore, che dal Presidente;
2.3. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’accertamento di responsabilità per il reato previsto dall’art. 348 cod. pen.: le condotte poste in essere dalla I. non risulterebbero di competenza del “commercialista”, ma dell’ “esperto contabile”; si deduceva inoltre che il vizio non poteva ritenersi sanato facendo ricorso a quanto prescritto dall’art. 3 lett. q) del d. Igs n. 139 del 2005 nella parte in cui, nella sezione dedicata ai commercialisti, venivano descritte anche le attività degli esperti contabili, dato che tale norma verrebbe in rilievo solo ove unitamente alle attività di esperto contabile, fossero contestate anche le attività tipiche del commercialista.
2.4. Vizio di motivazione: si deduceva che la motivazione sarebbe carente, in quanto basata sul mero richiamo di stralci delle dichiarazioni testimoniali; si deduceva inoltre la sua contraddittorietà nella parte in cui, da un lato, si rilevava che la I. aveva svolto attività riconducibili alla professione di esperto contabile e, dall’altro, si riconosceva la sua responsabilità per illecito svolgimento della professione di “commercialista”; si deduceva, inoltre, che non sarebbero stati presi in considerazione gli argomenti difensivi proposti con la prima impugnazione: in particolare non sarebbe stato considerato che la ricorrente aveva avuto una abilitazione Entratel nonostante avesse dichiarato di non essere iscritta all’albo dei commercialisti;
2.5. vizio di motivazione in relazione al riconoscimento dell’elemento soggettivo del reato di esercizio abusivo della professione: la ricorrente aveva sottoscritto un contratto di collaborazione con il Caf che era stato risolto a causa del difetto di iscrizione ad albi professionali (come richiesto dal decreto legislativo n. 175 del 2014); tale condotta sarebbe tuttavia riferita ad un momento in cui la complessità normativa non avrebbe reso intellegibili le mansioni legittimamente espletabili, con conseguente mancata integrazione dell’elemento soggettivo del reato;
2.6. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’accertamento della responsabilità per il reato di truffa: non vi sarebbe la prova dei raggiri, dato che la ricorrente, regolarmente munita di abilitazione Entratel fino al 2014, era abilitata a presentare le dichiarazioni dei redditi fino a tale data;
2.7. vizio di correlazione tra accusa e sentenza: sarebbe stati individuato come raggiro il fatto che la I. si sarebbe presentata come “commercialista”, laddove la stessa si sarebbe limitata a svolgere funzioni riconducibili alla professione di esperto contabile;
2.8. violazione di legge e vizio di motivazione: non sarebbe stato identificato il danno conseguente alla contestata truffa tenuto conto del fatto che le dichiarazioni fiscali erano state comunque presentate e che tale prestazione doveva comunque essere retribuita;
2.9. violazione di legge: in relazione alla consumazione delle truffe relative alla fatture n. 6 e 25 dell’anno 2009 doveva considerarsi decorso il termine di prescrizione;
2.10. violazione di legge: la sospensione condizionale era stata condizionata al pagamento di una provvisionale in ragione del danno provocato a clienti indicati come “numerosi” nonostante vi fosse stata la costituzione di solo tre parti civili.
3. Ricorreva per cassazione anche il difensore del Prestanome che deduceva:
3.1. violazione dell’art. 525 cod. proc. pen: dal verbale dell’udienza del 18 gennaio risultava indicato un collegio diverso da quello certificato nell’intestazione della sentenza che, peraltro, indicava come relatore il Presidente, laddove la sentenza risultava sottoscritta sia dall’estensore che dal Presidente.
3.2. Violazione di legge: la competenza territoriale in relazione al reato previsto dall’art. 615 ter cod. pen. doveva essere individuata in relazione al luogo “fisico” in cui si verificava l’accesso ai dati, ovvero il server dell’Agenzia delle Entrate di Roma, nulla rilevando che tali informazioni venissero apprese da postazione remota, ovvero a Milano;
3.3. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al riconoscimento della responsabilità concorsuale nel reato previsto dall’art. 348 cod. pen. contestato alla I.: questa avrebbe svolto attività riconducibili alla professione di esperto contabile e non di commercialista e, comunque, non sarebbe stato provato il contributo concorsuale del ricorrente; in particolare si deduceva che consentire alla I. di visionare i fascicoli per potere impostare l’opposizione era una attività ipotizzata, ma non provata, e che su tale ipotesi non poteva fondarsi il riconoscimento della responsabilità concorsuale.
3.4. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna nel casellario giudiziale spedito su richiesta di privati: la motivazione in ordine al diniego del beneficio fondata solo sul riconoscimento della gravità dei fatti non terrebbe in considerazione l’incensuratezza del ricorrente, il suo ruolo subordinato e le sue condizioni psicofisiche.
Considerato in diritto
1. Sono infondati sia il secondo motivo di ricorso proposto nell’interesse della I., che il primo motivo proposto nell’interesse del Prestanome, diretti entrambi a contestare la violazione dell’art. 525 cod. proc. pen. in relazione al difetto di corrispondenza tra la composizione del collegio emergente dalla sentenza e quella rilevabile dal verbale di udienza.
Il collegio sul punto condivide e ribadisce la giurisprudenza secondo cui l’indicazione nell’intestazione della sentenza di un componente del collegio giudicante diverso da quello che ha preso effettivamente parte alla deliberazione e che risulta dal verbale di udienza è emendabile con il rimedio della correzione dell’errore materiale (Sez. 5, n. 2809 del 12/11/2014 – dep. 21/01/2015, Ronchese, Rv. 262587; Sez. 2, n. 32991 del 24/06/2011 – dep. 02/09/2011, V., Rv. 251350; Sez. 2, n. 18570 del 23/01/2009 – dep. 05/05/2009, Iannuzzi, Rv. 244442; contra, isolata Sez. 5, n. 47164 del 04/11/2009 – dep. 11/12/2009, Ruggieri, Rv. 245400); si ritiene inoltre che non è affetta da nullità, ma da mera irregolarità determinata da errore materiale, la sentenza collegiale nella quale non vi sia corrispondenza tra il nominativo del giudice estensore indicato nel frontespizio e quello del relatore che sottoscrive la sentenza (Sez. 2, n. 8273 del 17/01/2018 – dep. 21/02/2018, Casale, Rv. 272271)
Nel caso in esame l’errore rilevato, in coerenza con le indicate e condivise linee ermeneutiche, non integra pertanto alcuna causa di nullità della sentenza.
2. Per il resto il ricorso proposto nell’interesse della I. deve essere rigettato.
2.1. E’ manifestamente infondato il motivo che deduce il mancato rispetto del termine indicato dall’art. 601 cod. porc. pen. in relazione all’udienza disposta successivamente alla udienza di comparizione, dato che il termine in questione è relativo solo alla “prima udienza” e non alle successive.
Si ribadisce infatti che il termine minimo di venti giorni che deve intercorrere tra la notifica dell’avviso al difensore ed il giudizio di appello va osservato solo con riguardo alla prima udienza, poiché per quelle successive, cui il procedimento venga eventualmente differito per impedimento delle parti, non è previsto alcun termine dilatorio essendo rimessa alla discrezionalità del giudice l’individuazione della data utile ad assicurare un congruo intervallo tra le udienze (Sez. 3, n. 40443 del 17/01/2018 – dep. 12/09/2018, Gaudino, Rv. 273813; Sez. 3, n. 37935 del 19/07/2012 – dep. 01/10/2012, L., Rv. 253580).
2.2. Sono infondati anche il terzo, il quarto ed il quinto motivo di ricorso proposti nell’interesse della I. che contestano sia sotto il profilo oggettivo, che sotto quello soggettivo, la legittimità dell’accertamento di responsabilità in relazione all’art. 348 cod. pen.
Si deduceva infatti che nel capo di imputazione veniva indicata come professione abusivamente svolta quella di “commercialista”, mentre dalle motivazioni delle sentenze di merito emergeva che la I. aveva svolto solo l’attività di “esperto contabile”; si aggiungeva inoltre che la Corte di appello, pur rilevando che la I. aveva svolto le mansioni tipiche dell'”esperto contabile”, affermava contraddittoriamente che la stessa aveva svolto la attività del “commercialista”.
2.2.1. In materia si registra un autorevole intervento delle Sezioni unite che hanno affermato che le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti, non integrano il reato di esercizio abusivo delle professioni di dottore commercialista o di ragioniere e perito commerciale – quali disciplinate, rispettivamente, dai dd.PP.RR. nn. 1067 e 1068 del 1953 – anche se svolte da chi non sia iscritto ai relativi albi professionali, in modo continuativo, organizzato e retribuito, tale da creare, in assenza di indicazioni diverse, le apparenze di una tale iscrizione. La Corte ha tuttavia precisato che ad opposta conclusione, in riferimento alla professione di esperto contabile, deve invece pervenirsi se le condotte in questione siano poste in essere, con le caratteristiche suddette, nel vigore del nuovo D.Lgs. 28 giugno 2005, n. 139). (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011 – dep. 23/03/2012, Cani, Rv. 25182001) Nel corpo della sentenza si legge che il D.Lgs. 28 giugno 2005, n. 139 «emanato in attuazione della delega conferita al Governo con la L. 24 febbraio 2005, n. 34, art. 2, ha sostituito i D.P.R. n.1067 del 1953, e D.P.R. n. 1068 del 1953, istituendo l’Albo unificato dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, e, oltre a una elencazione di attività comune alle due categorie (riproducente quella già relativa ai commercialisti secondo il D.P.R. n. 1067 del 1953), ha previsto un lungo elenco di altre attività di riconosciuta competenza tecnica dei soli iscritti alla Sezione A (Commercialisti) e un elenco di attività di riconosciuta competenza tecnica degli iscritti alla Sezione B (Esperti contabili) dell’Albo, fra le quali sono state incluse le seguenti: “a) tenuta e redazione dei libri contabili, fiscali e del lavoro, controllo della documentazione contabile, revisione e certificazione contabile di associazioni, persone fisiche o giuridiche diverse dalle società di capitali; b) elaborazione e predisposizione delle dichiarazioni tributarle e cura degli ulteriori adempimenti tributari”. Pur non recando più la legge delega n. 39 del 2005, la previsione, già presente nella legge delega 28 dicembre 1952, n. 3060, secondo la quale (criterio direttivo sub a) “la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva”, e pur essendosi, nel D.Lgs. n. 139 del 2005, riformulata la clausola di salvezza per i soggetti non iscritti all’Albo oggetto dei decreto in un modo che sembra riferirsi solo ai professionisti iscritti in altri Albi (“Sono fatte salve le prerogative attualmente attribuite dalla legge ai professionisti iscritti in altri albi”), non si ravvisano ragioni formali (in relazione alle espressioni usate) o sostanziali (in relazione alla natura della professione di esperto contabile) per ritenere che l’inserimento nell’elenco comune agli iscritti alle due Sezioni e nell’elenco separato relativo agli iscritti alla Sezione B comporti ora l’attribuzione in via esclusiva delle relative attività. Conferma decisiva di tale conclusione discende dalla constatazione che l’unico accenno, presente nella nuova legge delega, ricollegabile in qualche modo a una possibile logica di competenza esclusiva (non monopolistica), la sussistenza e i limiti della cui effettiva realizzazione restano ovviamente da verificare, riguarda gli iscritti alla sezione A e si rinviene in particolare nella lett. d) dell’art. 3, laddove si prevede che “È consentita l’attribuzione di nuove competenze agli iscritti nella sezione dell’Albo unico riservata ai laureati specialistici, che presentino profili di interesse pubblico generale, nel rispetto del principio della libertà di concorrenza e fatte salve le prerogative attualmente attribuite dalla legge a professionisti iscritti ad altri albi. Sono fatte salve, altresì, le attività di natura privatistica già consentite dalla legge agli iscritti a registri, ruoli ed elenchi speciali tenuti dalla pubblica amministrazione”. La specifica inclusione delle attività di tenuta e redazione dei libri contabili, fiscali e del lavoro, e di elaborazione e predisposizione delle dichiarazioni tributarie e cura degli ulteriori adempimenti tributari, nell’elenco di quelle riconosciute di competenza tecnica degli iscritti alla sezione B consente però ora senz’altro di ritenere, alla stregua delle conclusioni sopra assunte, che lo svolgimento di esse, se effettuato da soggetto non abilitato con modalità tali da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse dallo stesso provenienti, le apparenze dell’attività professionale svolta da esperto contabile regolarmente abilitato, è punibile a norma dell’art. 348 cod. pen.» (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011 – dep. 23/03/2012, Cani, Rv. 251819, § 8).
2.2.2. Dal compendio motivazionale integrato emergente dalle due sentenze di merito si rileva che la I. ha svolto attività pacificamente riferibile alla professione protetta dell’”esperto contabile”, circostanza non contestata neanche dal ricorrente.
Il fatto che tale attività sia stata impropriamente riferita, in alcune parti della sentenza impugnata, alla professione del “commercialista” non incide sulla legittimità della sentenza impugnata.
Il collegio rileva infatti che nel capo di imputazione pur contestandosi l’esercizio abusivo di una attività indicata impropriamente come quella del “commercialista”, si indica tuttavia come elemento decisivo della condotta illecita la mancata iscrizione all’ “Ordine dei commercialisti e degli esperti contabili” istituito dalla Legge 24 febbraio del 2005 n. 34: dunque il capo di imputazione fa esplicito e specifico riferimento anche alla professione protetta dell’esperto contabile, il che consente di ritenere l’accusa sufficientemente determinata.
Le sentenze di merito hanno inoltre accertato puntualmente lo svolgimento illecito di attività “protette”, svolte senza abilitazione ed iscrizione al relativo albo, rilevando oltre ogni ragionevole dubbio l’illiceità della condotta della ricorrente. Segnatamente la Corte di appello ha rilevato che la I. aveva svolto attività di consulenza tributaria, redatto le dichiarazioni fiscali ed effettuato i relativi pagamenti, occupandosi anche della ricezione delle cartelle esattoriali (pag. 12 della sentenza impugnata). Venivano dunque specificamente rilevate, come effettivamente svolte, attività professionali “protette” inquadrabili nella professione dell’esperto contabili e poste in essere successivamente all’entrata in vigore della legge n. 34 del 2005.
Rispetto a tale accertamento, effettuato nel pieno rispetto del diritto di difesa, tenuto conto dell’espresso richiamo nel capo di imputazione alla mancata iscrizione nell’albo unico delle professioni di commercialista ed esperto contabile, l’evocazione episodica della professione di “commercialista” piuttosto che di quella dell'”esperto contabile” si configura come un riferimento atecnico che non vizia l’accertamento di responsabilità, sia in ragione del fatto che, nel linguaggio corrente, chi svolge le attività inquadrabili nella professione dell’esperto contabile viene atecnicamente indicato come “commercialista”, sia in ragione del fatto che la Corte di appello mostra piena consapevolezza dell’atecnicismo censurato virgolettando la parola “commercialista” (pag. 12 della sentenza impugnata) e facendo riferimento preciso al fatto che la ricorrente assumeva piuttosto l’incarico di “consulente fiscale” attività tipica dell’esperto contabile (pag. 14 della sentenza impugnata).
Si ritiene pertanto che il capo di imputazione nella misura in cui contesta la mancata iscrizione nell’albo previsto dalla legge n. 34 del 2005 determini con sufficiente chiarezza la contestazione e che dal compendio motivazionale integrato delle due sentenze di merito emerga, altrettanto chiaramente, che la ricorrente aveva svolto con continuità attività professionale “protetta” senza essere iscritta al relativo albo.
La rilevata correlazione tra accusa e sentenza non risulta incisa dal riferimento atecnico ed episodico alla professione di “commercialista”.
2.2.3. Le censure che investono la tecnica relazione della sentenza nella parte in cui questa riporta stralci delle dichiarazioni testimoniali è manifestamente infondata in quanto generica.
La motivazione della sentenza impugnata risulta infatti contestata in modo aspecifico, in quanto il ricorrente si limita a dedurre la insufficienza della riproduzione di stralci delle testimonianze rispetto all’obiettivo di consentire una interpretazione integrale delle stesse, così prospettando una generico travisamento delle prove dichiarative: si tratta di una doglianza che, da un lato, incorre nella violazione del principio di autosufficienza del ricorso, dato che non risulta corroborata dall’allegazione integrale delle testimonianze contestate; e, dall’altro, si profila come generica dato che non risultano specificamente indicate discrasie o omissioni decisive tra le prove raccolte e quelle valutate.
2.2.4. Rispetto alle valutazioni circa la legittimità dell’accertamento di responsabilità in relazione alla svolgimento abusivo di una professione protetta ed alla irrilevanza del riferimento alla professione di commercialista risultano infondate anche le doglianze relative alla mancata valutazione delle allegazioni difensive che miravano a dimostrare che la I. non aveva mai dichiarato di svolgere la professione di commercialista (ultima parte del quarto motivo di ricorso).
Il collegio sul punto condivide il consolidato orientamento della Corte di cassazione secondo cui in sede di legittimità, non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013 Rv. 256340). In tema di giudizio di appello, il giudice non è infatti tenuto a prendere in considerazione ogni argomentazione proposta dalle parti, essendo sufficiente che egli indichi le ragioni che sorreggono la decisione adottata, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo (Sez. 5, sent. n. 7588 del 06/05/1999, dep. 11/06/1999, Rv. 213630).
2.2.5. Sono del pari infondate le doglianze che contestano la legittimità del riconoscimento dell’elemento soggettivo in relazione alla complessità e non decifrabilità della normativa di settore.
In materia sono ancora valide le autorevoli indicazioni fornite nel 1996 dalle Sezioni unite che hanno chiarito che a seguito della sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’illecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità. Per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994 – dep. 18/07/1994, P.G. in proc. Calzetta, Rv. 197885). Tale orientamento è ulteriormente stato specificato con riguardo ai maggiori oneri di informazione che incombono su chi svolge una attività professionale a contenuto tecnico; si è infatti affermato che la valutazione dell’inevitabilità dell’errore di diritto, rilevante ai fini dell’esclusione della colpevolezza, deve tenere conto tanto dei fattori esterni che possono aver determinato nell’agente l’ignoranza della rilevanza penale del suo comportamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del medesimo (Sez. 6, n. 43646 del 22/06/2011 – dep. 24/11/2011, S., Rv. 251045; Sez. 3, n. 8410 del 25/10/2017 – dep. 21/02/2018, P.M. in proc. Venturi, Rv. 272572).
Nel caso di specie dalle sentenze conformi di merito emergeva che la I., pur non essendo formalmente abilitata alla professione di esperto contabile, aveva le capacità e le competenze per comprendere pienamente la illiceità della sua condotta, a ciò si aggiunge che la persistenza e reiterazione delle condotte contestate risulta incompatibile con l’esclusione dell’elemento soggettivo.
2.3. Sono infondati anche i motivi (sesto, settimo ed ottavo) che contestano la legittimità dell’accertamento di responsabilità in ordine al reato di truffa e che deducono che dalla motivazione della sentenza impugnata non si ricaverebbe né la prova dei raggiri né quella del danno, entrambi essenziali per integrare una condotta sussumibile nella fattispecie prevista dall’art. 640 cod. pen.
Con specifico riguardo alla identificazione del danno nella truffa contrattuale il collegio ribadisce che la sussistenza dell’ingiusto profitto e del correlativo danno non sono esclusi dal fatto che il raggirato abbia corrisposto il prezzo del servizio fornito quando risulti che esso sia stato acquistato per effetto di raggiri (Sez. 2, n. 14801 del 04/03/2003 – dep. 28/03/2003, De Francesco, Rv. 224759; Sez. 2, n. 12027 del 23/09/1997 – dep. 23/12/1997, Marrosu, Rv. 210456).
Nel caso in esame, contrariamente a quanto dedotto, dal compendio motivazionale integrato emergente dalle due sentenze conformi di merito si ricava il puntuale accertamento di tutti gli elementi costitutivi del reato contestato.
Segnatamente: emergeva con chiarezza la condotta artificiosa della ricorrente, che si presentava come “commercialista”, termine atecnico per indicare una competenza, invero non certificata, nella gestione di adempimenti contabili e fiscali; fidandosi di tale asserita competenza le persone offese le affidavano l’incarico di gestire la loro posizione fiscale, retribuendola e consentendole così di lucrare un profitto ingiusto cui corrispondeva un pari danno degli offesi, cui si aggiungevano gli ulteriori danni correlati agli errori nella gestione delle pratiche tributarie (pag. 12 della sentenza impugnata e pagg. 18 e 19 della sentenza di primo grado).
2.4. Il nono motivo di ricorso che invoca il riconoscimento dell’estinzione del decorso del termine di prescrizione in relazione al pagamento di due fatture risalenti all’anno 2009 è manifestamente infondato in quanto non si confronta con la consolidata e condivisa giurisprudenza secondo cui il ricorrente che invochi nel giudizio di cassazione la prescrizione del reato, assumendo per la prima volta in questa sede che la data di consumazione del reato è antecedente rispetto a quella contestata, ha l’onere di indicare gli elementi di riscontro alle sue affermazioni, indicando gli atti ai quali occorre fare riferimento, essendo precluso in sede di legittimità qualsiasi accertamento di merito (Sez. 5, n. 46481 del 20/06/2014 – dep. 11/11/2014, Martinelli e altri, Rv. 261525; Sez. 3, n. 796 del 29/11/2005 – dep. 12/01/2006, Rossi ed altro, Rv. 233322).
Nel caso in esame il ricorrente, al fine del riconoscimento parziale della prescrizione, proponeva per la prima volta in sede di legittimità la rivalutazione del dies a quo del reato contestato, seppure limitatamente a due specifiche prestazioni, senza allegare alcun elemento di prova che consenta al giudice di legittimità l’accertamento immediato della data di consumazione del reato contestato, anche tenuto conto del fatto che resta escluso dal perimetro che circoscrive la cognizione di legittimità ogni approfondito accertamento di merito, seppur refluente sulla valutazione del decorso del termine di prescrizione.
A ciò si aggiunge che la condotta truffaldina risulta contestata in modo unitario, ovvero non frazionato, attraverso la contestazione di un reato a consumazione prolungata. L’invocato frazionamento della condotta contestata richiede, all’evidenza, un approfondito accertamento di merito non proponibile per la prima volta in sede di legittimità.
2.5. L’ultimo motivo che denuncia l’illogicità della motivazione della sentenza nella parte in cui condiziona l’operatività della sospensione condizionale al pagamento della provvisionale è manifestamente infondato.
La conforme scelta dei giudici dei due gradi di merito è stata giustificata attraverso la valutazione negativa del persistente comportamento illecito tenuto dalla I. (pag. 15 della sentenza impugnata e pag. 26 e 27 della sentenza di primo grado). A ciò si aggiunge che non assume alcun rilievo in relazione alla valutazione della gravità delle condotte contestate la circostanza che solo alcuni dei numerosi offesi abbiano deciso di costituirsi parte civile.
Si tratta di una motivazione priva di vizi logici e coerente con le emergenze processuali che non si presta ad alcuna censura in questa sede.
3. Il ricorso proposto nell’interesse del Prestanome è infondato.
3.1. Il secondo motivo di ricorso che contesta la legittimità della competenza della Corte di appello ambrosiana individuata in relazione alla postazione remota dalla quale si accedeva all’Anagrafe tributaria e non in relazione al luogo in cui è fisicamente situato il server, è manifestamente infondato in quanto non tiene conto della sentenza delle Sezioni unite che ha affermato che il luogo di consumazione del delitto di cui all’art. 615-ter cod. pen. coincide con quello in cui si trova l’utente che, tramite elaboratore elettronico o altro dispositivo per il trattamento automatico dei dati, digitando la “parola chiave” o altrimenti eseguendo la procedura di autenticazione, supera le misure di sicurezza apposte dal titolare per selezionare gli accessi e per tutelare la banca-dati memorizzata all’interno del sistema centrale ovvero vi si mantiene eccedendo i limiti dell’autorizzazione ricevuta. La Corte ha specificato che il sistema telematico per il trattamento dei dati condivisi tra più postazioni è unitario e, per la sua capacità di rendere disponibili le informazioni in condizioni di parità a tutti gli utenti abilitati, assume rilevanza il luogo di ubicazione della postazione remota dalla quale avviene l’accesso e non invece il luogo in cui si trova l’elaboratore centrale (Sez. U, n. 17325 del 26/03/2015 – dep. 24/04/2015, Confi, comp. in proc. Rocco, Rv. 263020).
Si tratta di giurisprudenza autorevole, condivisa e consolidata, che non risulta espressamente confutata, il che rende la doglianza proposta inammissibile.
3.2. Il terzo motivo di ricorso che deduce l’illegittimità dell’accertamento della responsabilità concorsuale del ricorrente con riguardo al reato di esercizio abusivo di professione protetta da parte della I. è infondato.
Contrariamente a quanto dedotto , il concorso del Prestanome nell’attività illecita della I. non risulta fondato su valutazioni ipotetiche, ma sulla rilevazione di plurimi accessi abusivi nel sistema informatico protetto della Anagrafe tributaria (sessanta accessi), non giustificati da esigenze di servizio, ma ritenuti funzionali a favorire l’attività illecita della coimputata, che raccoglieva attraverso tali interrogazioni abusive di notizie riservate utili per la sua attività (pag. 13 della sentenza impugnata); a ciò si aggiunge che la sentenza di primo grado rilevava anche attività concorsuali ulteriori rispetto all’accesso la sistema informatico protetto (pagg. 12 e 13 della sentenza del Tribunale).
3.3. Infine è manifestamente infondata la censura rivolta nei confronti della motivazione offerta a sostegno del diniego del beneficio della non menzione della condanna nel casellario.
In materia il collegio ribadisce che il beneficio della non menzione della condanna di cui all’art. 175 cod. pen. è fondato sul principio deH”‘emenda”, e tende a favorire il processo di recupero morale e sociale, sicché la sua concessione è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, e non è necessariamente conseguenziale a quella della sospensione condizionale della pena, fermo restando tuttavia l’obbligo del giudice di merito di indicare le ragioni della mancata concessione sulla base degli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 34380 del 14/07/2011 – dep. 20/09/2011, Allegra, Rv. 251509; Sez. 2, n. 6949 del 12/03/1998 – dep. 10/06/1998, Pennisi S, Rv. 211100)
Nel caso di specie la doglianza proposta si risolve nella richiesta di rivalutazione delle prove e non indica fratture logiche manifeste e decisive della motivazione, né discrasie fondamentali tra le prove raccolte e quelle valutate.
La Corte di merito, con valutazione di merito, che non si presta ad alcuna censura in quanto rispetta gli standard probatori individuati dalla Cassazione, riteneva non concedibile il beneficio, facendo legittimamente richiamo alla gravità dei fatti emergente dalla precedente valutazione della responsabilità per i reati contesti, (pag. 15 della sentenza impugnata).
4. Ai sensi dell’articolo 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta i ricorsi, la parti private che lo hanno proposto devono essere condannate al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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