Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 16414 depositata il 19 aprile 2024

bancarotta fraudolente documentale – dolo specifico

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte d’appello di Caltanissetta, in parziale riforma della condanna pronunciata in primo grado, riteneva C.P., nella sua qualità di amministratore di fatto della G.I. Group s.r.l. (dichiarata fallita l’8 aprile 2014), responsabile, in concorso con F.F., amministratore di diritto della predetta società, dei reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale (per aver sottratto la complessiva somma di euro 23.000 dai conti correnti societari) e di bancarotta fraudolenta documentale (per aver sottratto o distrutto tutta la documentazione contabile allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, impedendo così la ricostruzione del patrimonio e del volume d’affari della società), assolvendoli dalla concorrente imputazione di bancarotta preferenziale perché il fatto non costituisce reato.

2. Propone ricorso per cassazione il C.P., articolando cinque motivi d’impugnazione, tutti formulati sotto i profili della violazione di legge e del connesso vizio di motivazione, ed ulteriormente argomentati attraverso la memoria depositata il 14 febbraio 2024.

2.1. Il primo, in particolare, attiene alle ritenute funzioni gestorie e censura la decisione della Corte di Appello, nella parte in cui è stata fondata la prova della qualità di amministratore di fatto della società fallita alla luce di argomenti logici e fattuali privi di autonoma forma inferenziale e del tutto compatibili con le funzioni svolte dal C.P. all’interno della società In primo luogo, la circostanza, riferita dal teste Oscar Breda, della sottoscrizione del contratto di sub-appalto da parte dell’imputato, valorizzata dalla Corte territoriale, da un canto, senza dar conto delle ulteriori dichiarazioni in cui lo stesso teste aveva riferito che anche per la sub-appaltante “B.U.”, per la “G.S.” e per la “R.”, i contratti erano stati sottoscritti da soggetti diversi dai rispettivi amministratori e, dall’altro, senza esplicitare le ragioni per le quali la sottoscrizione del contratto da parte dell’imputato, per conto di “G.I. Group”, costituirebbe prova della qualifica di amministratore di fatto, mentre la stessa valenza e il medesimo significato non rivestirebbero le altre parallele sottoscrizioni. In secondo luogo, la presenza del C.P. al momento della apposizione dei sigilli nella veste di “incaricato della società”; circostanza desunta dalle dichiarazioni del teste Minardi, il quale, tuttavia, aveva dichiarato che il C.P. era intervenuto, non nella qualità di “incaricato della società” (fallita), ma di responsabile di altra società, la “C.P. Group”, della quale era amministratore e legale rappresentante, avente sede nel medesimo stabile sito in Gela in via V. n.125.

2.2. Il secondo attiene alla sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e, in particolare, alla portata e alla natura distrattiva delle due disposizioni di bonifico, ritenute tali senza esplicitare le ragioni per le quali le stesse sarebbero state idonee in concreto a pregiudicare la garanzia dei creditori, nonostante fossero irrilevanti sotto il profilo quantitativo e, comunque, effettuate in un periodo di normale operatività e regolare funzionamento dell’impresa.

Peraltro, la sentenza impugnata avrebbe fatto discendere la prova della portata distrattiva fraudolenta, sulla scorta della circostanza che la principale società committente, la “E. spa”, si trovasse in liquidazione volontaria al momento della sottoscrizione dell’accordo tra “R.” e “G.I. Group” avvenuta il 18 dicembre 2012, senza tenere conto che la funzione propria dello stato di liquidazione di un’azienda è quella di pagare i creditori e, all’esito, ripartire l’eventuale attivo, pur permanendo lo stato di esercizio. Peraltro, si continua, la Corte non avrebbe motivato in alcun modo sulle ulteriori ragioni di credito vantate dalla società poi fallita nei riguardi di altri partners commerciali, quale ad esempio la “G.S.”, debitrice della somma di euro 30.000.

2.3. Il terzo e il quarto motivo attengono alla bancarotta documentale e deducono:

– il terzo, che la Corte territoriale si sarebbe limitata a un richiamo per relationem a quanto dedotto in ordine alla qualifica di amministratore di fatto, senza esplicitare le ragioni per le quali la prova dell’assenza di qualsivoglia ruolo in capo all’imputato nella tenuta della documentazione contabile e nei rapporti con il consulente aziendale in relazione a tale aspetto e la parallela prova della sussistenza invece di tale ruolo e di tali rapporti in capo all’amministratore di diritto, F.F., sarebbero irrilevanti ai fini della riconducibilità e riferibilità del reato contestato all’odierno ricorrente;

– il quarto, l’insussistenza dell’elemento soggettivo. La Corte territoriale, sostiene la difesa, non avrebbe indicato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente il dolo specifico e, segnatamente, quali sarebbero le operazioni di diminuzione dell’attivo o di incremento del passivo da ricollegare in chiave teleologica alla incompleta o carente tenuta delle scritture contabili della società.

2.4. Il quinto motivo, in ultimo, attiene all’utilizzabilità delle dichiarazioni (de relato) rese dal teste Oscar Breda (sulle quali la Corte avrebbe fondato l’accertamento delle ritenute funzioni gestorie in capo al ricorrente) senza procedere all’esame dei testi di riferimento, in violazione del disposto di cui all’art. 195 del codice di procedura penale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile. Appare opportuno premettere che, sotto il profilo della processuale, la prova della ritenuta funzione gestoria, esercitata in fatto da parte di un soggetto non formalmente investito di tale carica, si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico di tale soggetto in qualunque settore gestionale dell’attività economica, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare (Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Rv. 256534; Sez. 5, n. 8479 del 28/11/2016, dep. 2017, Rv. 269101). Accertamento che, se sostenuto da motivazione congrua e logica, è insindacabile in sede di legittimità, in quanto oggetto di un apprezzamento di fatto riservato ai giudici di merito n (Sez. 5, n. 22413 del 14/04/2003, rv. 224948; Sez. 1, 12/05/2006, n. 18464, Rv. 234254).

Ciò considerato, i giudici di merito, con motivazione articolata, esauriente ed immune da vizi, hanno individuato una pluralità di indici, esplicitati dalle fonti probatorie, di assoluto valore sintomatico della qualifica di “amministratore di fatto” rivestita dal ricorrente.

In particolare,

– l’ubicazione della sede sociale (presso un immobile nel quale aveva sede altra società riconducibile all’imputato);

– la presenza, al momento dell’apposizione dei sigilli da parte del curatore fallimentare, del solo C.P., che è intervenuto ed ha firmato l’atto quale “incaricato” della società;

– le dichiarazioni rese dal consulente del lavoro della società e dai titolari delle altre imprese che avevano intrattenuto rapporti commerciali con la società poi fallita (il C.P. si presentava come referente o titolare ed era colui che stabiliva le condizioni contrattuali, firmava i contratti, intratteneva i successivi rapporti gestori, curava i rapporti con i fornitori e consegnava loro gli assegni, assumeva il personale e forniva garanzia di copertura delle esposizioni debitorie);

– le dichiarazioni rese dagli operai, ex dipendenti della società, i quali hanno riferito di essere stati assunti dal C.P. che si presentava ai loro occhi come il “titolare” dell’azienda;

– le dichiarazioni del teste G., che ha affermato di conoscere il F.F. (l’amministratore di diritto) come persona che eseguiva semplicemente lavori di pulizia nei condomini.

Ebbene, a fronte di queste analitiche argomentazioni, le deduzioni volte a contestare la valutazione offerte dalla corte territoriale (peraltro mera riproduzione di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi), dietro la parvenza di una prospettata violazione di legge e di un asserito difetto motivazionale, invocano, di fatto, una nuova ed alternativa lettura delle medesime emergenze istruttorie, già esaminate dai giudici di merito, sollecitandone una valutazione diversa e più favorevole al ricorrente. Dimenticando, tuttavia, che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione non involge né la ricostruzione dei fatti, né il relativo apprezzamento del giudice di merito, ma è limitato alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti: l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento stesso (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 2012, Rv. 251760).

D’altronde, il ricorrente si limita a criticare la valenza probatoria del singolo elemento, isolandolo dal complesso argomentativo all’interno del quale è inserito, senza considerare, però, che ogni singolo fatto deve essere valutato non in modo parcellizzato, ma nella sua unitaria sistemazione all’interno del generale contesto probatorio (Sez. 2, n.33578 del 20/05/2010, Rv. 248128).

In ogni caso, analizzando partitamente le singole censure:

– le evidenziate circostanze appaiono oggettivamente significative dello svolgimento dei tipici compiti riservati all’amministratore della società, in quanto rappresentativi di funzioni gestorie (intese come potere di azione con riferimento a tutti gli atti che siano funzionali all’attuazione dell’oggetto sociale) e di rappresentanza esterna (in sé ontologicamente incompatibili con il ruolo di mero dipendente e, quindi, in quanto tale, soggetto al potere organizzativo e di controllo dello stesso amministratore);

– la circostanza addotta dalla difesa (secondo cui l’unico soggetto legittimato ad operare sui conti correnti della società fosse soltanto il F.F.) appare, francamente, irrilevante atteso, per come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, da un canto la non necessaria esclusività delle funzioni medesime e, dall’altro, la mera apparenza formale del dato, che ben può essere esercitato a fronte di direttive e disposizioni che provengono da altri soggetti effettivamente titolari del potere decisionale;

– la circostanza per cui i contratti erano stati sottoscritti, anche per la controparte contrattuale, da soggetti diversi dai rispettivi amministratori è ugualmente irrilevante, in quanto significativa, al massimo, sotto il profilo indiziario, di eventuali funzioni gestorie attribuite anche a detti soggetti;

l’asserito travisamento delle dichiarazioni testimoniali sulle quali si fonda la decisione è preclusa non solo dall’omessa valutazione di rilevanza del dato probatorio asseritamente travisato all’interno del complessivo impianto argomentativo, ma anche dall’omessa produzione o specifica indicazione degli atti processuali su cui fa leva (Sez. 5, n. 21914 del 16/03/2023, Castaldo, Rv. 284517) e dall’esistenza di una convergente valutazione, sul punto, di entrambi i giudici di merito (Sez. 6, n. 21015 del 17/05/2021, Africano, Rv. 281665).

2. Il secondo motivo di censura è, invece, infondato.

Il principio evocato dal ricorrente trova il suo logico presupposto nella ratio dello stesso reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale (diretto a tutelare l’integrità del patrimonio nella sua peculiare funzione di garanzia dei creditori) e nella sua natura di pericolo concreto, la cui offensività è contraddistinta dall’effettiva possibilità che, ove per qualsiasi ragione si dia luogo ad una procedura concorsuale, l’esito della stessa venga condizionato da atti distrattivi che abbiano comunque ridotto il patrimonio disponibile.

Ciò considerato, ove vi sia uno stretto rapporto cronologico tra l’atto dispositivo che diminuisce la garanzia dei creditori rispetto alla successiva procedura concorsuale, la manifestazione dei presupposti storici di questa (nella forma della crisi di impresa o in quella della insolvenza o del dissesto) rende particolarmente agevole la ricostruzione della fattispecie normativa con riferimento al caso concreto, poiché diviene del tutto evidente la natura non solo pericolosa ma anche concretamente depauperativa dell’azione e la rimproverabilità soggettiva del suo autore che, della determinazione del pericolo, non può protestare un’imputazione a titolo di responsabilità oggettiva (Sez. 5, n. 533 del 14/10/2016, dep. 2017, Rv. 269019).

Il problema ermeneutico può nascere, piuttosto, quando quel rapporto cronologico non vi sia. In questi casi, occorre tener presente che “l’imprenditore può dare dinamicamente a singoli propri beni destinazioni che non necessariamente collidono ed anzi possono coesistere col principio di responsabilità di cui all’art. 2740 cc, essendo egli semmai tenuto alla conservazione del valore del patrimonio nel suo complesso. Egli è anzi abilitato a fare spese personali o per la famiglia la cui entità non deve essere neppure assiomaticamente minima se la condizione economica glielo consente ( arg. ex art. 217 comma 1 n. 1 I. fall.); non è perseguibile neppure a titolo di bancarotta semplice se, ancora quando le sue condizioni sono favorevoli, impiega una parte contenuta del suo patrimonio in operazioni imprudenti; né il singolo suo creditore potrebbe attivare i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale (artt.2900 e 2901 cc) se non ricorresse, quale effetto del suo comportamento quale debitore, una lesione al patrimonio capace di mettere in dubbio la realizzazione coattiva del credito” (Sez. 5, n. 533 del 14/10/2016, dep. 2017, Rv. 269019).

Cosicché il pericolo non può che essere correlato alla idoneità dell’atto di depauperamento a creare un vulnus all’integrità della garanzia dei creditori in caso di apertura di procedura concorsuale, con un’analisi che deve riguardare in primo luogo l’elemento oggettivo, per investire poi in modo omogeneo l’elemento soggettivo e che certamente deve poggiare su criteri di valutazione ex ante, in relazione alle caratteristiche complessive dell’atto stesso e della situazione finanziaria della società (ibidem).

Quindi, effettivamente, la decisione di merito deve dar conto della connotazione del fatto in termini di pericolo concreto e della riconoscibilità del dolo generico sulla base di una puntuale analisi della fattispecie concreta in tutte le sue peculiarità, ricercando possibili (positivi o negativi) “indici di fraudolenza” necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei suoi creditori, e dall’altro, alla proiezione soggettiva di tale concreta messa in pericolo. Indici rinvenibili, ad esempio, nella disamina del fatto distrattivo o dissipativo alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’impresa e della congiuntura economica in cui la condotta pericolosa per le ragioni del ceto creditorio si è realizzata; nel contesto in cui l’impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell’imprenditore o dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte nei fatti depauperativi; nella “distanza” (e, segnatamente, nell’irriducibile estraneità) del fatto generatore di uno squilibrio tra attività e passività rispetto a qualsiasi canone di ragionevolezza imprenditoriale (Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Sgaramella, Rv. 270763, in motivazione).

Ciò considerato

anche un bene avente un valore irrisorio od esiguo, ove distaccato dal patrimonio sociale, senza riceverne alcun utile o corrispettivo, determina pur sempre un depauperamento del patrimonio sociale, rilevante ai fini del reato di bancarotta patrimoniale. E, sotto tale profilo, la consistenza economica del bene (che, comunque, va valutata in sé, nel suo valore assoluto), deve, semmai essere rapportata non già alle dimensioni dell’impresa, ma all’incidenza (della relativa sottrazione) sugli interessi dei creditori, rispetto ai quali, la distrazione di 23.000 euro non può, oggettivamente, ritenersi irrilevante;

– la Corte territoriale ha dato atto non solo delle chiare cointeressenze del ricorrente con i destinatari dei bonifici, ma anche dell’assoluta estraneità dell’atto rispetto alle funzioni proprie della società e delle particolari condizioni in cui versava la società (nei suoi rapporti con il più importante contraente). Tanto dà conto dell’infondatezza dell’assunto difensivo.

3. Fondato, invece, è il quarto motivo di censura, con conseguente assorbimento del terzo. Va premesso che il reato di bancarotta fraudolenta documentale si può manifestare nelle sue due alternative forme descritte (entrambe) al n. 2 dell’art. 216 l. fall.: l’occultamento delle scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, e la fraudolenta tenuta di tali scritture, che, invece, integra un’ipotesi di reato a dolo generico, che presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi (cfr. Sez. 5, n. 18634 del 1/2/2017, Autunno, Rv. 269904; Sez. 5, n. 26379 del 5/3/2019, Inverardi, Rv. 276650).

Al ricorrente è contestato (ed è stato concordemente ritenuto da entrambi i giudici del merito) il reato di bancarotta fraudolenta documentale specifica, caratterizzato, per come si è detto, sotto il profilo soggettivo, dal dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori (o dallo specifico intento di procurarsi un ingiusto profitto).

Ciò considerato, in linea generale, lo scopo di recare danno ai creditori impedendo la ricostruzione dei fatti gestionali può essere desunto dalla complessiva ricostruzione della vicenda e dalle circostanze del fatto che ne caratterizzano la valenza fraudolenta colorando di specificità l’elemento soggettivo, che, pertanto, può essere ricostruito sull’attitudine del dato a evidenziare la finalizzazione del comportamento omissivo all’occultamento delle vicende gestionali (Sez. 5, n. 10968 del 31/01/2023, Di Pietra, Rv. 284304).

Ebbene, da un canto, la Corte territoriale non ha in alcun modo motivato in ordine alla pur ritenuta fraudolenza dell’intento, ma ne ha anche prospettato la sussistenza in termini di dolo generico, ipotizzando che la volontarietà dell’omessa tenuta delle scritture contabili fosse elemento sufficiente per dimostrare la “consapevolezza” di rendere impossibile o significativamente difficoltosa la ricostruzione delle vicende societarie.

Tanto, all’evidenza, è un dato intrinsecamente insufficiente, in quanto circostanza priva di efficacia inferenziale rispetto alla sussistenza di uno specifico intento fraudolento. Ritenere che il dolo specifico possa essere logicamente inferito dalla semplice sottrazione (o dall’omessa consegna) di parte delle scritture contabili equivarrebbe a sostenere che, ogni qualvolta l’amministratore non consegna le scritture contabili al curatore, egli persegue sicuramente il fine di celare condotte distrattive e di danneggiare i creditori.

Tanto dà conto della fondatezza della censura sollevata con il quarto motivo, il cui accoglimento assorbe in sé la valutazione del terzo.

4. Il quinto motivo, in ultimo, è indeducibile in quanto non risulta assolta la c.d. prova di resistenza richiesta, a pena di inammissibilità, allorquando si contesti l’utilizzabilità di prove a carico (ex plurimis Sez. 2, Sentenza n. 7986 del 18/11/2016, Rv. 269218)

5. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata, limitatamente al reato di bancarotta fraudolenta documentale con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d’appello di Caltanissetta.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla bancarotta fraudolenta documentale e rinvia per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte d’appello di Caltanissetta. Rigetta nel resto il ricorso.