CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 168 depositata il 7 gennaio 2020
Reati tributari – Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte – Misura interdittiva – Divieto per un anno di esercitare attività imprenditoriali
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 1/4/2019, il Tribunale del riesame di Messina respingeva gli appelli proposti da V.L. e B.L. avverso il provvedimento del 29/1/2019 con il quale il Giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale aveva applicato ad entrambi la misura interdittiva del divieto – per un anno – di esercitare attività imprenditoriali; tale misura si riferiva alla contestazione di cui all’art. 11, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74, loro ascritta.
2. Propongono congiunto ricorso per cassazione i due indagati, a mezzo dei propri difensori, deducendo i seguenti motivi:
– travisamento della prova e contraddittorietà della motivazione in ordine al reato ipotizzato. Il Tribunale del riesame avrebbe inserito le vicende della “C.A. s.r.l.” – nella titolarità fattuale e giuridica dei ricorrenti – in un presunto meccanismo fraudolento ordito dai coindagati A.L.C. e B.P., ma tale conclusione risulterebbe palesemente errata e frutto del travisamento delle prove; la società, infatti, non sarebbe mai stata in decozione, né posta in liquidazione o cancellata, né l’attivo della stessa sarebbe mai stato trasferito ad altra, sana o di nuova costituzione. In sintesi, l’ente non sarebbe stato “svuotato”, come invece indicato in rubrica; e come peraltro confermato dagli atti di scissione imputati ai ricorrenti, la cui lettura operata dal Collegio risulterebbe errata sotto molteplici profili. Il Tribunale, ancora, avrebbe ritenuto che la società e la ” C.A. s.r.l.” avessero il medesimo oggetto, ma ciò non troverebbe alcun riscontro investigativo, emergendo piuttosto che la seconda avrebbe trattato soltanto il mercato delle mandorle australiane, peraltro con un importate fatturato. Del pari, non risponderebbe al vero che la prima avrebbe traslato il proprio fatturato all’altra, così come errata – e contraria alla documentazione in atti – sarebbe l’affermazione per cui la prima avrebbe ceduto quasi tutti i dipendenti alla seconda, trattandosi, invece, di una mera ridistribuzione delle risorse umane esistenti. Nei medesimi termini, poi, manifestamente illogica sarebbe l’interpretazione dei canoni locatizi relativi ad un contratto tra “C.A.” e “B.I. s.r.l.”, cresciuti nel corso degli anni solo in ragione dei lavori di ristrutturazione – previsti nel negozio – che la conduttrice avrebbe eseguito, sì da accrescerne di molto il valore. In nessuna considerazione, infine sul punto, sarebbero stati tenuti i procedimenti penali in corso nei confronti di funzionari di istituti di credito, rinviati a giudizio per truffa contrattuale ed usura a danno di V.L., della omonima ditta individuale e delle società allo stesso facenti capo;
– manifesta illogicità della motivazione. L’ordinanza risulterebbe viziata anche con riguardo al richiamo a società diverse da “C.A.” e “B.I. s.r.l.”, che – estranee all’imputazione – non potrebbero rientrare nello “schema” illecito ipotizzato. Irrilevante, ancora, sarebbe il riferimento ad azioni revocatorie azionate da istituti di credito – avverso gli atti di disposizione – su immobili dei coniugi L.-L., così come, per contro, illogico emergerebbe lo scarso significato attribuito dal Collegio alla fideiussione prestata, in favore della “C.A.”, dai soci personalmente e dalla “B.I.”.
Dal che, peraltro, risulterebbe chiara l’assenza del dolo del reato contestato;
– lo stesso profilo soggettivo, di seguito, è negato anche in ragione del contesto temporale degli atti in esame, ben precedenti tanto all’attività di verifica effettuata a carico della società, quanto al sorgere di talune situazioni debitorie.
In tale ambito, peraltro, l’ordinanza avrebbe preso in esame non solo le imposte sui redditi o sul valore aggiunto (le sole indicate nell’art. 11 in rubrica), ma anche altri debiti che i ricorrenti avrebbero inteso non pagare, con evidente vizio di motivazione;
– nei medesimi termini, ancora, si lamenta l’erronea applicazione dell’art. 76, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 602 del 1973, atteso che la portata degli atti di scissione imputati non sarebbe stata valutata nel complesso degli elementi attivi della società, come invece dovuto. L’attento esame di questi, invero, avrebbe evidenziato una consistenza patrimoniale in capo all’ente ben superiore al credito vantato dall’Erario, sì che nessun pericolo concreto per le ragioni dello stesso si sarebbe mai verificato. E fermo restando, da ultimo, che, in ogni caso, l’ammontare del debito in esame (circa 110 mila euro) non avrebbe consentito di procedere all’esecuzione forzata mediante espropriazione immobiliare, sì da emergere ulteriormente l’assenza dei presupposti – oggettivi e soggettivi – della fattispecie contestata.
Considerato in diritto
3. I ricorsi risultano manifestamente infondati.
Osserva innanzitutto il Collegio che, per consolidato indirizzo di questa Corte, in tema di misure cautelari personali il ricorso per cassazione che deduca insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, o assenza delle esigenze cautelari, è ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice di merito (tra le molte, Sez. 2, n. 31553 del 17/5/22017, Paviglianiti, Rv. 270628; Sez. 4, n. 18795 del 2/3/2017, Di Iasi, Rv. 269884); in tale contesto, alla Corte Suprema spetta soltanto il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il Giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato e di controllare la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (per tutte, Sez. 4, n. 26992 del 29/5/2013, Tiana, Rv. 255460).
Tanto premesso in termini generali, ritiene la Corte che il Tribunale del riesame abbia fatto buon governo di questo principio, confermando la misura cautelare con più che solido percorso argomentativo, con congrua lettura di oggettive risultanze investigative ed in difetto di manifesta illogicità o di violazione di legge, come invece a più riprese denunciato. E con la precisazione che i ricorsi – in molti passaggi – invocano di fatto una difforme valutazione delle stesse emergenze economico-patrimoniali già sottoposte al Tribunale della cautela, così sollecitando alla Corte di legittimità una completa verifica di merito in ordine ad un ampio compendio documentale (diffusamente allegato); quel che, tuttavia, non è consentito, attesi i rigorosi termini nei quali questo giudizio si deve sviluppare.
4. Orbene, nel corpo dell’ampia ordinanza qui impugnata, il Tribunale ha preso le mosse dal sistema illecito – in questa fase cautelare non contestato – che risulta esser stato posto in essere dal commercialista P. e dell’avvocato L.C., ed in forza del quale gli stessi – sollecitati da imprenditori in difficoltà – indicavano come sottrarre i beni degli enti a possibili azioni esecutive, trasferendoli ad altre società, sane o di nuova costituzione, sovente intestate a prestanomi; lo stesso schema illecito, di seguito, prevedeva che il soggetto gravato da debiti e così “svuotato” – e spesso in decozione – venisse cancellato, all’insaputa dei creditori, e che le eventuali azioni di recupero (o istanze di fallimento) da questi azionate fossero arginate – quantomeno al momento – con l’avvio di cause per anatocismo, con presentazione di istanze di rateizzazione dei debiti tributari (che, comunque, si intendeva non pagare) o con la trascrizione di domande giudiziali per il riconoscimento di diritti reali fittizi su immobili esposti al rischio di pignoramenti o sequestri.
5. In questo contesto – ha evidenziato quindi il Tribunale della cautela – si erano inseriti anche i ricorrenti L., i quali – sempre con il necessario ausilio tecnico del P. – dal 2011 in poi avevano compiuto numerose operazioni di cessione di ramo di azienda, nonché di trasferimento di immobili e di danaro, riguardanti varie società delle quali – formalmente o di fatto – risultavano legali rappresentanti o amministratori (C. A. s.r.I., B.I.s.r.I., C.A. C.. s.r.I., U. s.r.l., I. Immobiliare s.r.l.); operazioni che il Tribunale ha congruamente ritenuto espressione proprio dell’art. 11, d. Igs. n. 74 del 2000 contestato, ed a ciò finalizzate, al riguardo valorizzando plurimi e significativi elementi.
6. In particolare, si è evidenziato che già nel settembre 2010 V. L. e la moglie avevano trasferito alla “C. A. s.r.l.”, formalmente amministrata dal figlio B., vari immobili riferibili alla “L. V. s.r.l.” (in liquidazione dal 23/6/2014) ed alla “M. s.r.l.” (dichiarata fallita il 10/1/2014); di lì a poco (il 23/2/2011), gli stessi beni, unitamente ad altri ceduti da B.L. nel 2009, erano stati trasferiti – mediante scissione di ramo d’azienda – alla “B.I. s.r.l.” (risultata la “cassaforte” di famiglia), società di nuova costituzione. Ancora, il Tribunale ha sottolineato che la tesi difensiva a sostegno di tali trasferimenti (ribadita anche in questa sede) non era incompatibile con il dolo specifico dell’art. 11 in esame, atteso che – anche a voler ritenere che la “L. V. s.r.l.” e la “M. s.r.l.” volessero sfuggire ad indebite pretese di istituti di credito (i cui funzionari risulterebbero a giudizio innanzi al Tribunale di Reggio Calabria per condotte fraudolente ed usurarie) – emergevano comunque evidenti debiti anche verso l’Erario. In particolare, la prima, negli anni 2007-2013, aveva accumulato debiti tributari, per imposte dirette ed IVA, per 957.000,00 euro, di cui oltre 850.000,00 riferibili al periodo 2007-2010; del pari, la moglie di V. L. aveva maturato un’iscrizione a ruolo, per il 2012, pari a quasi 130 mila euro. Quel che rilevava, in particolare, con riguardo al rapporto tra il sorgere delle pretese tributarie e le condotte contestate, in tal modo ben evidenziato dall’ordinanza impugnata, contrariamente a quanto si legge nei ricorsi.
Dal che la conclusione, non manifestamente illogica in questa fase di cautela, secondo la quale “i trasferimenti immobiliari L./L./ C.A. negli anni 2009-2010 e C.A./ B.I. nel 2011 erano all’evidenza preordinati ad impedire l’aggressione del patrimonio dei coniugi a fronte di rilevanti pendenze debitorie con l’Erario e/o con gli istituti di credito (e dunque non soltanto nei confronti di questi, diversamente da quanto sostenuto nei ricorsi, n.d.e.), anche diversi (…) da quelli coinvolti nelle manovre illecite oggetto di accertamento processuale innanzi all’autorità giudiziaria calabrese”.
7. Di seguito, il Tribunale ha esaminato l’atto 22/3/2013, con il quale “C.A. s.r.l.”, rappresentata da B. L., aveva ceduto il ramo d’azienda attinente alla gestione del patrimonio (stavolta) mobiliare ancora alla “B.I. s.r.l.”; nell’occasione, l’attivo patrimoniale trasferito era rappresentato dalle quote della controllata “I. Immobiliare s:r.l.”, del valore di 1.600.000,00 euro, cedute in uno con passività per 1.566.000,00 euro e, dunque, con un saldo netto di soli 34.000,00 euro.
8. A significare ancora l’unico fine illecito sotteso all’ampio disegno realizzato, l’ordinanza ha poi richiamato anche la “C.A. C. s.r.l.”, costituita il 7/4/2014 ed apparentemente mero doppione dell’altra; orbene, per quanto estranea alla contestazione, la società è stata congruamente ritenuta ulteriore strumento per svuotare la “C.A. s.r.l.”, quel che peraltro sarebbe confermato anche dal fatto che la nuova società aveva nel tempo assorbito 11 dipendenti della prima, rimasta nel 2016 con un solo addetto. E senza poter in questa sede valutare gli elementi in fatto offerti dai ricorrenti, palesemente inammissibili perché non verificabili, ossia che: a) il nuovo ente avrebbe avuto ad oggetto un settore diverso dello stesso mercato delle mandorle (quello australiano) e che avrebbe ottenuto un fatturato significativo; b) il passaggio dei dipendenti si sarebbe esaurito in “una semplice redistribuzione delle risorse umane esistenti all’interno di altre società del gruppo, in modo che il settore dedicato alla lavorazione delle mandorle australiane potesse decollare grazie all’opera ivi prestata da personale ormai fidelizzato e competente”.
9. Di particolare rilievo nell’ottica in esame, poi, il Tribunale ha valorizzato i trasferimenti di danaro dalla “C.A. s.r.l.” alla “B.I. s.r.l.”.
In particolare, se tra il 2013 ed il 2015 questi avevano riguardato somme tra i 30.000,00 ed i 36.000,00 euro, nel 2016 avevano raggiunto la soglia di 129.500,00 euro. Quel che, in particolare, aveva riguardato canoni relativi a due contratti di locazione, i cui importi – dal 2013 in poi – erano addirittura decuplicati, passando da 3.000,00 euro annui, oltre IVA, a 30.000,00 euro annui, sempre oltre IVA, “sebbene un simile incremento esponenziale non fosse previsto nell’unico contratto esibito in sede di gravame (contratto registrato”). E senza che, dunque, si possa qui esaminare la giustificazione in fatto offerta dai ricorrenti sul punto, individuata nei lavori di ristrutturazione che la conduttrice avrebbe eseguito sui beni, con conseguente incremento del loro valore, così come autorizzato nel contratto.
10. In forza di tutto quanto precede, il Tribunale ha quindi concluso per i gravi indizi di colpevolezza del delitto di cui all’art. 11, d. Igs. n. 74 del 2000, con dolo specifico, evidenziato dal fatto che i L. “si cimentavano in plurimi trasferimenti e in cessioni di quote, che avevano come unico scopo quello di rendere inattaccabili i cespiti patrimoniali, impedendone l’aggressione dei creditori, tra cui i cd. creditori involontari (il Fisco), costretti a cimentarsi in complesse revocatorie.” Quel che, peraltro, aveva trovato diretto riscontro – come ancora riportato nell’ordinanza impugnata – in quanto accertato successivamente ai trasferimenti citati, ossia: a) la già richiamata costituzione della “C.A. C. s.r.l.”, cui era stata spostata la produzione dell’altra, “destinata ad essere accantonata”; b) l’immotivato (“mutate esigenze aziendali”) trasferimento della sede di quest’ultima dalla Calabria a Roma, nel 2016, presso gli uffici di una società riferibile al consulente P., con mutamento del foro competente per eventuali azioni giudiziarie; c) l’ulteriore trasferimento, nell’estate del 2016, che V. L. e P. avevano operato – ancora verso “B.I. s.r.l.” – con riguardo ai beni strumentali per la produzione della frutta secca, che continuavano però ad essere utilizzati dalla prima con un contratto di locazione; d) i colloqui intercettati tra gli stessi soggetti, a partire dal giugno 2016, che avevano visto il primo insistere per la chiusura della “C.A. s.r.l.”, attinta da verifica fiscale – conclusa nel maggio 2016 – con accertamento di condotte evasive per diverse centinaia di migliaia di euro; e) la successiva intenzione (ancora) di V.L. e P. di spostare ulteriormente la produzione su una nuova società – la “U. s.r.l. – appena costituita.
11. Quanto precede, peraltro, avvalorato dalle numerose conversazioni intercettate – tra gli indagati appena citati, non contestate nei ricorsi – dalle quali emerge chiara non solo la strategia sottesa all’intero complesso delle operazioni (trasferire tutto in “B.I. s.r.l.”, la “cassaforte” di famiglia), ma anche la volontà di non pagare comunque i debiti tributari, pur a fronte di istanze di rateizzazione presentate per bloccare le procedure esecutive.
12. Dal che, all’evidenza, una più che articolata motivazione del Tribunale, che ha rappresentato – in modo del tutto logico e non censurabile – non soltanto i gravi indizi di colpevolezza in ordine al profilo oggettivo del reato in rubrica, ma anche il dolo specifico che ne sostiene la contestazione. In ciò, peraltro, facendo corretta applicazione del principio, di costante affermazione giurisprudenziale, secondo il quale il delitto previsto dall’art. 11 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è reato di pericolo, integrato dal compimento di atti simulati o fraudolenti volti a occultare i propri o altrui beni, idonei – secondo un giudizio “ex ante” che valuti la sufficienza della consistenza patrimoniale del contribuente rispetto alla pretesa dell’Erario – a pregiudicare l’attività recuperatoria dell’amministrazione finanziaria (per tutte, Sez. 3, n. 46975 del 24/5/2018, F., Rv. 274066; Sez. 3, n. 15133 del 17/11/2017, Stassi, Rv. 272505).
12. A tutto quanto richiamato si aggiunga poi che, contrariamente all’assunto dei ricorsi, il Tribunale ha preso in esame anche i profili in fatto sollevati dagli indagati, e pur a questi ha offerto una motivazione che sfugge alle censure proposte.
In particolare, con riguardo alla consistenza patrimoniale che la “C.A.. s.r.l.” avrebbe comunque mantenuto, pur a fronte degli atti di dismissione menzionati, l’ordinanza ha sottolineato che “negli anni 2013-2016 il valore dei ricavi per ogni esercizio fosse eguagliato dai costi di produzione con utili netti assai contenuti rispetto al volume d’affari (…), mentre i crediti e le disponibilità liquide in quasi tutte le annualità risultano inferiori ai debiti iscritti in bilancio.”
Ancora non censurabile, poi, la motivazione quanto alla fideiussione che “B.I. s.r.l.”, B. L. e sua sorella M.D. avevano offerto a garanzia delle esposizioni bancarie della “C.A. s.r.l.”, nel dicembre 2016. In particolare, il Tribunale ha rappresentato che – come da intercettazioni telefoniche tra L. padre e P. – il rilascio della garanzia “era dettato dall’esigenza di ottenere un trasferimento di fidi bancari”, con riguardo al quale l’istituto di credito aveva preteso anche un documento che spiegasse l’interesse di “B.I. s.r.l.” a fare da garante.
13. Da ultimo, quanto alla dedotta violazione dell’art. 76, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, basti qui osservare che la stessa si evidenzia comunque manifestamente infondata, non risultando l’esecuzione forzata, mediante espropriazione immobiliare, l’unica procedura esperibile dall’Amministrazione ed in mancanza della quale, dunque, il reato contestato non potrebbe mai esser integrato.
14. I ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
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