Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 1871 depositata il 17 gennaio 2018

LAVORO – RAPPORTO DI LAVORO – SICUREZZA SUL LAVORO – INFORTUNIO SUL LAVORO – CADUTA DALLA SCALA – RESPONSABILITA’ DI UN DATORE DI LAVORO E DI UN PREPOSTO – INIDONEA ATTREZZATURA E OMESSA VIGILANZA

FATTO 

1. La Corte d’appello di Torino, con sentenza del 4.10.2016, confermava la responsabilità degli imputati B.D. e S.A. per il reato di lesioni colpose derivate dalla violazione della normativa in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro in danno di L.I.C., dipendente della ditta “B.D. Impianti”. In parziale riforma della sentenza del Tribunale di Torino, concesse al S.A. le circostanze attenuanti generiche in rapporto di prevalenza rispetto alle aggravanti contestate, LA Corte territoriale rideterminava la pena inflitta al predetto imputato in quella di mesi uno giorni dieci di reclusione, confermava la pena inflitta a B.D., determinata in mesi due di reclusione dal giudice di primo grado, condannava gli imputati al pagamento delle spese di costituzione in giudizio della parte civile, liquidate in euro 1200,00, confermava la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi in separato giudizio.

2. Era contestato agli imputati di avere, nelle rispettive qualità di datore di lavoro e di preposto dell’azienda sopra indicata, cagionato lesioni personali gravi a L.I.C., che precipitava da una scala, da un’altezza di circa due metri, mentre era intento a smontare plafoniere sotto il soffitto di un padiglione. Si configuravano a carico dei ricorrenti, profili di colpa generica, consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonché, di colpa specifica, consistita nella violazione degli artt. 71, comma 4, lett. a), punto 2; 113 co. 5 e 7; 19, co. 1, lett. a), d.lgs. 81/2008. In particolare, era addebitato al B.D. di avere disposto o comunque consentito al dipendente di effettuare la operazione di rimozione delle plafoniere, mediante utilizzo di una scala a pioli metallica, priva degli originari dispositivi antiscivolo (che erano stati sostituiti con sacchetti di plastica arrotolati), in condizioni tali da non garantire il livello di sicurezza e stabilità originari della scala ed in assenza di altro lavoratore che trattenesse la scala. Al S.A., in qualità di preposto del datore di lavoro, era addebitata una omessa vigilanza sull’operato del lavoratore. Egli non avrebbe impedito l’uso di tale attrezzatura, inidonea ad assicurare i livelli di sicurezza e stabilità richiesti ai fini della tutela della salute e della sicurezza del dipendente.

3. Proponevano ricorso per cassazione gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori.

La difesa di B.D., con il primo motivo, deduceva vizi motivazionali sotto il profilo della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, con particolare riferimento ai verbali di trascrizione delle udienze dibattimentali; erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 41, 43 e 590 cod. penale.

Osservava il ricorrente, che la scala non era nella disponibilità dei dipendenti e che non vi sarebbe la prova, agli atti, che la scala fosse di proprietà della ditta. Gli elementi raccolti all’esito della istruttoria avevano fatto emergere che i dipendenti avevano nella loro disponibilità un trabattello, il quale, per potere essere utilizzato, doveva essere montato. Il L.I.C., secondo la testimonianza offerta dall’operaio P., salì sulla scala dopo che il P. si era allontanato per recuperare il trabattello e montarlo. Tra loro, non era intercorso alcun accordo circa il fatto che uno sarebbe salito sulla scala e l’altro l’avrebbe tenuta alla base. La lettura degli atti offerta dai giudici della cognizione, quindi, sarebbe erronea. Essa determinerebbe un vizio di interpretazione della legge penale che coinvolgerebbe l’idoneità del nesso causale.

L’infortunio sarebbe stato conseguenza di un gesto imprevedìbile del giovane, il quale avrebbe deciso di salire sulla scala quando il lavoratore anziano si allontanò, tentando di effettuare una lavorazione impossibile per l’altezza da raggiungere. Tutti i profili di colpa enunciati in sentenza a carico del datore di lavoro, sarebbero assenti. Il B.D. aveva fornito al dipendente i dispositivi individuali; aveva impartito l’opportuna formazione e, tramite l’organizzazione esistente sul luogo, aveva fatto in modo che il giovane non fosse esposto a pericolo. L’operaio apprendista si sarebbe determinato autonomamente a salire sulla scala. Tale deliberazione dovrebbe ritenersi causa sopravvenuta, idonea ad interrompere il nesso teleologoco rispetto alla condotta contestata, con conseguente esonero della responsabilità del datore di lavoro.

Con il secondo motivo, si deduceva la erronea applicazione della legge penale e delle altre norme giuridiche di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale con riferimento all’art. 62-bis cod. penale. Si censurava il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza rispetto alle contestate aggravanti, evidenziandosi che la motivazione di diniego espressa dalla Corte territoriale sarebbe insufficiente ed incongrua. Il giudice non avrebbe considerato che la precedente condanna riportata dal ricorrente sarebbe lontana nel tempo ed avrebbe avuto ad oggetto una vicenda di detenzione di droghe leggere; il B.D. non era presente all’atto dell’infortunio ed i vari apprendisti esistenti sul cantiere erano stati affidati a personale esperto. In ragione di ciò, la Corte territoriale avrebbe dovuto riconoscere le circostanze attenuanti generiche in rapporto di prevalenza rispetto alle contestate aggravanti.

Per S.A., con il primo motivo, la difesa lamentava vizi di violazione di legge e di motivazione in relazione all’art. 40, cod. penale. Chiedeva l’annullamento della sentenza per non avere, i giudici di merito, adeguatamente valutato l’esistenza del nesso causale tra l’azione posta in essere dall’imputato e l’evento. Non sarebbe stato compiuto alcun giudizio di “controfattualità” ed i giudici di merito sarebbero pervenuti al giudizio di colpevolezza del ricorrente, sulla base della mera posizione di garanzia del S.A. ovvero del collegamento causale tra il ruolo ricoperto dal ricorrente di “preposto” (contestato dall’imputato) e l’evento della caduta del lavoratore dalla scala.

Affermava la difesa che, se l’evento si fosse verificato per ragioni estranee alla violazione del precetto normativo o della regola cautelare, a causa di un uso improprio e non autorizzato della scala, l’inadeguatezza dello strumento usato non avrebbe avuto nessuna rilevanza ai fini del giudizio di responsabilità del ricorrente.

Gli elementi raccolti nel corso della istruttoria avrebbero dovuto condurre i giudici di merito ad adottare una decisione diversa: poiché nessuno aveva mai ordinato al L.I.C. di fare il lavoro da solo e di salire sulla scala, l’infortunio non potrebbe essere messo in relazione con azioni od omissioni dirette del datore di lavoro e del suo preposto.

Con il secondo motivo, la difesa adduceva erronea applicazione di legge in relazione all’art. 27, comma 2, Cost. e carenza di motivazione in ordine all’aspetto riguardante la posizione di preposto attribuita al S.A., assumendo che non sarebbe risultato provato il ruolo di preposto in capo al ricorrente, attesa la mancanza di documenti In atti, idonei a dimostrare tale qualifica. Dagli atti risulterebbe che S.A. era semplicemente un operaio più esperto ed il suo coinvolgimento nel giudizio sarebbe dipeso, unicamente, dalle dichiarazioni del coimputato B.D.. La mancanza di prove in ordine a tale ruolo, farebbe venire meno la possibilità di addossare al ricorrente la responsabilità dell’evento.

DIRITTO

1. I motivi di doglianza proposti da entrambi i ricorrenti risultano infondati e, pertanto, i ricorsi devono essere rigettati.

2. La responsabilità degli imputati è stata riconosciuta sul rilievo del mancato rispetto dell’obbligo di dotazione al lavoratore, di attrezzature idonee al fine di garantire la salute e la sicurezza del dipendente, essendo l’operaio caduto, durante lo svolgimento del compito che gli era stato assegnato, poiché aveva fatto uso di una scala che non garantiva un piano d’appoggio stabile. Tale scala era infatti priva degli originari dispositivi antiscivolo, sostituiti da sacchetti in plastica.

Al S.A., in qualità di preposto, era addebitato, altresì, di non avere adeguatamente vigilato sull’attività del lavoratore, omettendo di impedire che questi adoperasse la suddetta attrezzatura.

L’impianto motivazionale della sentenza della Corte territoriale, che ha confermato la responsabilità degli imputati, contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti, appare assolutamente immune da censure, sia sotto il profilo motivazionale, sia sotto il profilo della corretta applicazione della legge.

Invero, le argomentazioni poste a sostegno del decisum, risultano essere puntuali, coerenti, prive di discrasie logiche e del tutto idonee a rendere intelligibile l’iter logico-giuridico attraverso il quale il giudice di appello, in uno con il giudice di primo grado, è pervenuto alla decisione adottata.

Non può non rilevarsi, come le doglianze difensive proposte in questa sede, siano già state, in larga parte, esaminate dai giudici di merito, i quali hanno fornito, in proposito, risposte che, oltre ad apparire coerenti rispetto ai principi consolidati espressi dalla Corte regolatrice in materia, risultano aderenti ad una interpretazione corretta delle norme contestate.

Con riferimento alla posizione del B.D., deve ricordarsi come il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, sia esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente possa essere definito abnorme, dovendosi ritenere tale, il comportamento imprudente o negligente del lavoratore che sia stato posto in essere da quest’ultimo del tutto autonomamente, in un ambito estraneo alle mansioni che gli sono state affidate e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità.

Le argomentazioni contenute nelle sentenze di merito, in base alle quali non è sostenibile che la condotta del lavoratore potesse essere da sola idonea ad interrompere il nesso causale con l’evento verificatosi, è conforme ai principi più volte affermati dalla Corte di legittimità in proposito.

E’ orientamento costante di questa Corte, in materia di infortuni sul lavoro, quello in base al quale la condotta colposa del lavoratore infortunato non possa assurgere a causa sopravvenuta, da sola sufficiente a produrre l’evento, quando sia comunque riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta: in tal senso il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità e dell’esorbitanza, rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive di organizzazione ricevute (così ex muitis, Sez. 4, n. 21587 del 23/03/2007, Rv. 236721).

Pertanto, può definirsi abnorme soltanto la condotta del lavoratore che si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e sia assolutamente estranea al processo produttivo o alle mansioni che gli siano state affidate (così, Sez. 4, n. 38850 del 23/06/2005, Rv. 232420).

A ciò deve aggiungersi che la condotta imprudente o negligente del lavoratore, in presenza di evidenti criticità del sistema di sicurezza approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna efficacia esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza. Ciò in quanto, tali disposizioni, secondo orientamento conforme della giurisprudenza di questa Corte, sono dirette a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua colpa, dovendo, il datore di lavoro, prevedere ed evitare prassi di lavoro non corrette e foriere di eventuali pericoli, (così, ex muitis Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Rv. 269255; Sez. 4 n. 22813 del 21/4/2015 Rv. 263497; Sez. 4, n. 38877del 29/09/2005, Rv. 232421).

Orbene, risulta evidente, dai principi richiamati, come non sia possibile inquadrare nell’ambito delle condotte connotate da abnormità ed esorbitanza, il comportamento serbato dal lavoratore infortunato, non essendosi questo realizzato in un ambito avulso dai compiti che gli erano stati assegnati e non potendosi sostenere che si trattasse di una condotta assolutamente eccentrica ed imprevedibile, come evidenziato in maniera appropriata dai giudici di merito.

Peraltro, come ha correttamente osservato la Corte territoriale, la condizione di apprendista del lavoratore, avrebbe dovuto indurre il datore di lavoro ad essere particolarmente attento e zelante nel mettere a disposizione del giovane le attrezzature idonee per eseguire in tutta sicurezza il lavoro e nel renderlo edotto dei relativi rischi.

Le argomentazioni svolte dal ricorrente circa la mancanza di prove dell’appartenenza della scala alla ditta “B.D.” appaiono destituite di fondamento. La persona offesa e l’operaio P. hanno entrambi affermato che la scala in questione faceva parte dell’attrezzatura di cui disponevano per effettuare il lavoro che stavano svolgendo. Pertanto, nessuna iniziativa autonoma, imprevedibile ed abnorme è stata assunta dal dipendente infortunato e nessuna causa sopravvenuta, suscettibile di interrompere il nesso causale, può essere individuata dall’analisi dei fatti.

Quanto alle doglianze riguardanti il trattamento sanzionatorio, con particolare riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche in misura prevalente alle contestate aggravanti, occorre rilevare come la motivazione offerta dalla Corte territoriale, sia sostenuta da idonee argomentazioni, avendo la stessa valorizzato l’assenza di elementi positivi di valutazione ed avendo, nel contempo, rimarcato la gravità della condotta addebitata al B.D. e la sua negativa personalità, essendo egli gravato da altro precedente penale.

Tale motivazione non è in alcun modo viziata, essendo del tutto congrua, logica e non contraddittoria.

Sul punto, appare utile richiamare i consolidati principi espressi da questa Corte, in base ai quali, la concessione o meno delle attenuanti generiche deriva da un giudizio di fatto, rientrante nella discrezionalità del giudice di merito e sottratto al sindacato di legittimità se assistito da adeguata motivazione (ex multis Sez. 6, n. 36382 del 04/07/2003, Rv. 227142). Sotto altro profilo, il dovere motivazionale del diniego delle circostanze attenuanti generiche, può essere sufficientemente adempiuto, facendo riferimento ad elementi ritenuti decisivi o comunque rilevanti, potendo rimanere tutti gli altri elementi disattesi o superati da tale valutazione (Sez.3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899). Si è invero affermato che il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso, può essere sufficiente in tal senso (Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Rv. 249163).

3. In ordine alle doglianze espresse dalla difesa del S.A., occorre rilevare come la sua posizione di garanzia, nell’ambito del rapporto con l’operaio infortunato, risulti acciarata, da quanto si legge in sentenza, sulla base dell’organigramma dell’azienda.

La Corte territoriale ha poi evidenziato che il teste P. V., che lavorava in coppia con l’infortunato, ha ammesso, sia pure a, seguito di contestazione, che all’epoca dell’infortunio fu il S.A. a dare loro indicazioni sull’uso della scala di cui si tratta, per effettuare il lavoro.

Ogni considerazione della difesa del ricorrente, tesa a sovvertire tale presupposto, implica una incidenza del giudizio della Corte su elementi fattuali che non possono formare oggetto di valutazione in questa sede.

Ad ogni modo, la tesi alternativa proposta dal ricorrente, secondo cui il S.A. non rivestiva la qualità di preposto, ma era un semplice lavoratore maggiormente esperto, è priva di qualunque appiglio probatorio e trova smentita nelle dichiarazioni del teste richiamate dal giudice d’appello e nella situazione risultante dall’organigramma dell’azienda.

Orbene, in qualità di preposto, il S.A. aveva l’obbligo preciso di vigilare sull’uso di attrezzature conformi in materia di sicurezza. Tale non poteva essere ritenuta, in maniera evidente, la scala adoperata dall’operaio che, come risulta dalla emergenze processuali, era sprovvista dei dispositivi antiscivolo ed era comunque inidonea a consentire il tipo di attività che il predetto era chiamato a svolgere.

Per quel che riguarda il nesso causale, valgono le medesime considerazioni svolte sopra, esaminando la posizione del B.D..

La tesi sostenuta dalla difesa, con specifico riferimento al cd. giudizio controfattuale, secondo cui l’evento, scaturito da una iniziativa autonoma ed imprevedibile del lavoratore, si sarebbe egualmente verificato, pure ammettendo il comportamento omesso dal S.A., è smentita dalle risultanze processuali. I giudici di merito, attraverso una precisa ricostruzione della dinamica del fatto e delle norme di cautela violate, hanno implicitamente ritenuto che dovesse escludersi la possibilità che l’evento avrebbe potuto verficarsi egualmente, ove fossero state poste in essere tutte le norme precauzionali violate.

Tale assunto, è condivisibile. Tenuto conto delle circostanze del fatto e degli obblighi di protezione gravanti sui ricorrenti, risulta connotata da alto grado di probabilità logica l’ipotesi che, ove il lavoratore fosse stato munito di apposita attrezzatura in grado di garantirgli la necessaria stabilità o se, in mancanza di tale attrezzatura, il S.A., esercitando i suoi doveri di vigilanza, avesse impedito al lavoratore di adoperare la scala in questione, l’infortunio non si sarebbe realizzato.

4. Al rigetto dei ricorsi segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e la condanna, in solido, alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile per il giudizio di legittimità, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali; li condanna inoltre a rimborsare alla parte civile L.I.C., in solido, le spese sostenute per questo giudizio di legittimità che liquida in complessivi euro 2.500,00 oltre accessori come per legge.