CORTE di CASSAZIONE, sezione penale, Sentenza n. 19964 depositata l’ 11 maggio 2023
Lavoro – Informazione sui rischi connessi alla prestazione d’opera – Dispositivi di protezione individuale – Culpa in eligendo del committente dei lavori – Violazione delle disposizioni antinfortunistiche – Applicazione delle disposizioni prevenzionali anche a soggetti estranei al rapporto di lavoro occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo – Colpa specifica – Inammissibilità
Fatto
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha parzialmente riformato la sentenza emessa il 23/1/2017 dal GUP presso il Tribunale di Reggio Calabria nei confronti di A.A., imputato del reato previsto dall’art. 589 c.p., comma 2, (capo A), nonchè delle fattispecie previste dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, art. 18, comma 1, lett. d), e), i), art. 36, commi 1 e 2, art. 37, comma 1, e art. 55, comma 5, lett. c) e d), (capo B), rideterminando la pena, in relazione alla prima contestazione, in anni due e mesi quattro di reclusione e dichiarando estinte per intervenuta prescrizione le fattispecie contravvenzionali contestate al capo 13).
Era contestato all’imputato di avere, quale titolare della ditta “Impianti Elettrici di A.A.”, cui era stato affidato il lavoro di rimozione di un albero caduto sopra un palo dell’illuminazione pubblica e quale datore di lavoro di B.B. – impiegato irregolarmente – cagionato la morte di quest’ultimo per colpa generica, nonchè per colpa specifica, in relazione alle violazioni contestate al capo B) e, quindi, per avere omesso colposamente di informarlo adeguatamente circa i rischi connessi alla prestazione d’opera, di formarlo e di addestrarlo, di fornirgli l’elmetto e altri dispositivi di protezione individuale, di farlo allontanare durante le fasi del taglio dell’area oggetto di intervento, omettendo comunque di delimitarla.
La Corte territoriale, nel condividere le argomentazioni del Giudice di primo grado, ha pregiudizialmente rilevato che non sussisteva alcuna contestazione in punto di ricostruzione dell’evento, risultando accertato che, nel giorno indicato, il A.A. si era recato nella frazione (…) per rimuovere un albero caduto sui cavi elettrici dell’impianto di illuminazione pubblica e che, nel corso dell’esecuzione dell’intervento, il tronco era precipitato causando la caduta di un palo dell’illuminazione, a propria volta investendo la persona offesa e cagionandone la morte.
Ha quindi ritenuto provato il necessario nesso eziologico tra la condotta dell’imputato e l’evento; condotta, a propria volta, connotata da elementi di colpa generica (per l’effetto della mancata adozione di accorgimenti idonei a delimitare l’area di cantiere) e dalla mancata adozione delle necessarie profilassi antinfortunistiche previste dal T.U. in materia di sicurezza sul lavoro nei confronti del B.B.; a tale proposito la Corte ha ritenuto che – al di là della previa sussistenza di un rapporto di lavoro formale o di fatto – era da ritenersi provato che la vittima stesse partecipando attivamente all’intervento, ragione che giustificava comunque il necessario adempimento delle prescrizioni poste alla base della contestazione dei citati profili di colpa specifica.
2. Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione A.A., tramite il proprio difensore, articolando tre motivi di impugnazione – il cui contenuto viene qui riassunto ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p..
Con il primo motivo di impugnazione ha dedotto la violazione di legge in relazione all’art. 589 c.p., comma 2, anche in riferimento all’art. 7 della CEDU. Ha dedotto che, sulla base degli elementi emersi nei gradi di merito, era ravvisabile nei confronti dell’imputato la sola violazione delle regole ordinarie di prudenza e diligenza e perizia come riferite all’attività compiuta su strada e in relazione al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, mentre i dati probatori non avrebbero confortato la sussistenza della fattispecie contestata; ha rilevato che l’elemento probatorio citato dai giudici di merito (ovvero la testimonianza di C.C.) non era sufficiente a desumere la sussistenza di un rapporto lavorativo tra l’imputato e la persona offesa e che non era stata presa in adeguata considerazione la consulenza tecnica di parte depositata nel primo grado di giudizio; ha quindi dedotto che, sulla base degli elementi probatori acquisiti, il B.B. doveva essere qualificato semplicemente come un “curioso della strada”, che doveva essere tenuto lontano con un transennamento sulla base di una diversa tipologia di cautele rispetto a quelle la cui omissione era stata contestata; ha quindi ritenuto che, nella specie, dovesse applicarsi la diversa fattispecie prevista dall’art. 589-bis c.p., comma 1.
Con il secondo motivo di impugnazione ha dedotto la violazione di legge penale sostanziale in riferimento all’art. 62-bis c.p.; ha rilevato che la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche era stata fondata su un dato, ovvero la mancata collaborazione dell’imputato, da ritenere meramente assertivo e congetturale senza tenere adeguato conto di altri elementi quali la giovane età e l’incensuratezza.
Con il terzo motivo di impugnazione ha dedotto la violazione di legge penale sostanziale in riferimento all’art. 133 c.p., per essere stata applicata una pena pari alla metà del massimo senza adeguata violazione a supporto della scelta sanzionatoria, anche in considerazione del concorso di colpa in capo al Comune appaltante.
3. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta nella quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
4. Il ricorrente ha successivamente fatto pervenire memoria scritta contenente la formulazione di motivi nuovi ai sensi dell’art. 585 c.p.p., comma 4.
Con il primo motivo nuovo ha dedotto la violazione di legge penale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all’art. 589 c.p., comma 2, e all’art. 7 della CEDU; ha dedotto che la Corte aveva omesso di considerare il ruolo della stazione appaltante, nei cui confronti erano sicuramente ravvisabili profili di colpa per avere affidato l’intervento a soggetto privo dei necessari requisiti di idoneità; ha dedotto che la Corte avrebbe reso una motivazione illogica atteso che, dapprima, aveva assunto con certezza la presenza di un rapporto di lavoro tra l’imputato e il B.B. per poi motivare la sussistenza di una condotta imprudente inquadrandola nell’ambito di accorgimenti – ovvero la delimitazione dell’area e la segnalazione dell’esecuzione dei lavori – che non avrebbero evitato l’evento morte.
Con il secondo motivo nuovo ha dedotto la violazione di legge penale ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione all’art. 589 c.p., comma 2, ritenendo che – qualora si fosse accertato che il B.B. non era dipendente dall’imputato, come pure adombrato nella stessa motivazione – non sarebbe stata raffigurabile la contestata aggravante ad effetto speciale e che, pertanto, l’evento doveva essere qualificato come perfezionato in sola occasione dello svolgimento di attività lavorativa e non con violazione delle disposizioni antinfortunistiche; circostanza che, se correttamente valutata, avrebbe reso necessaria l’applicazione della diversa fattispecie prevista dall’art. 589-bis c.p., ribadendo altresì la richiesta di concessione delle attenuanti generiche anche in considerazione della presenza di un concorso di colpa in capo alla vittima.
Diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Va pregiudizialmente dichiarato inammissibile il primo motivo aggiunto proposto dall’imputato, in cui è stata dedotta la violazione di legge sostanziale derivante dalla omessa considerazione, da parte della Corte d’appello, della sussistenza di una responsabilità – asseritamente esclusiva – in ordine all’evento in capo al Comune di San Roberto, quale committente dei lavori in questione, derivante dall’aver conferito l’appalto a soggetto inadeguato e con conseguente sussistenza di un profilo di culpa in eligendo.
Si tratta di motivo di ricorso che non supera il vaglio di ammissibilità in quanto la questione non è stata devoluta con l’atto di appello; conseguentemente, il giudice non era tenuto a fornire motivazione in merito.
Difatti, dalla lettura dell’art. 606 c.p.p., comma 3, e art. 609 c.p.p., comma 2, in combinato disposto con l’art. 609 c.p.p., comma 1, che limita la cognizione di questa Corte ai motivi di ricorso consentiti, si evince l’inammissibilità delle censure che non siano state, pur potendolo essere, sottoposte al giudice di appello, la cui pronuncia sarà inevitabilmente carente con riguardo ad esse (Sez. 5, n. 28514 del 23/04/2013, G.G., Rv. 255577; Sez.2, n. 40240 del 22/11/2006, R., Rv.235504; Sez.1, n. 2176 del 20/12/1993, dep. 1994, E., Rv. 196414).
3. Con il primo motivo di impugnazione – nonchè con le considerazioni ulteriormente ribadite e specificate nel secondo motivo aggiunto – il ricorrente ha dedotto l’inapplicabilità alla fattispecie concreta in esame delle disposizioni in materia di prevenzione sugli infortuni sul lavoro, contestando la valutazione della Corte territoriale in punto di sussistenza di un rapporto di dipendenza tra la vittima e l’imputato; sottolineando come la motivazione del giudice di secondo grado dovesse ritenersi perplessa avendo ritenuto che “B.B., a prescindere dal fatto se fosse un dipendente o meno del A.A., non era uno spettatore casuale”, in tale modo orientando la propria decisione verso la sussistenza di un solo profilo di colpa generica e omettendo quindi, di fatto, dal prendere posizione sull’effettiva sussistenza di un rapporto lavorativo, con le relative conseguenze in punto di applicabilità della fattispecie prevista dall’art. 589 c.p., comma 2.
Il motivo è inammissibile; dovendosi richiamare sul punto il principio in base al quale, in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, il necessario onere di confronto con la motivazione della sentenza impugnata impone al ricorrente, a pena di inammissibilità, di non limitare il proprio esame alla sola parte del provvedimento specificamente riferita alla questione posta, ma di considerare anche le argomentazioni contenute in altre parti comunque rilevanti rispetto al giudizio devoluto sul tema (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, L., Rv. 259425; Sez. 3, n. 3953 del 26/10/2021, dep. 2022, B., Rv. 282949); ricordano altresì che deve considerarsi inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione che si limiti alla critica di una sola delle diverse rationes decidendi poste a fondamento della decisione, ove queste siano autonome ed autosufficienti (Sez. 3, n. 2754 del 06/12/2017, dep.2018, B., Rv. 272448).
Difatti, il relativo motivo di ricorso omette del tutto di confrontarsi con la specifica argomentazione contenuta nella motivazione della sentenza di appello; nella parte in cui la stessa ha univocamente ritenuto sussistenti dei profili di colpa specifica – consistenti nella violazione delle disposizioni antinfortunistiche elencate nel capo B) dell’imputazione – evidenziando come, prescindendo dalla questione relativa alla sussistenza di un previo rapporto di lavoro (comunque non formalizzato), tra l’imputato e il B.B., la presenza dei profili di colpa medesimi derivasse dal fatto che la relativa normativa speciale deve considerarsi applicabile non soltanto ai lavoratori subordinati ma anche a tutti gli estranei che, anche occasionalmente, si trovano a essere presenti nel medesimo ambiente lavorativo.
Sul punto, la Corte ha fatto coerente applicazione del principio in base al quale le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell’interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’impresa; conseguendone che, in caso di lesioni e di omicidio colposi, perchè possa ravvisarsi l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 c.p..
Conseguendone che, in tale evenienza, quindi, dovrà ravvisarsi l’aggravante di cui all’art. 589 c.p., comma 2, e art. 590 c.p., comma 3, nonchè il requisito della perseguibilità d’ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex art. 590 c.p., u.c., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all’attività ed all’ambiente di lavoro, purchè la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell’infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante e purchè, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi (Sez. 4, n. 14775 del 11/4/2016, G., in motivazione; conf. già Sez. 4, n. 43168 del 17/06/2014, C., Rv. 260947).
Con tali considerazioni – implicitamente ritenute dalla Corte territoriali come assorbenti rispetto alla valutazione in ordine all’effettiva sussistenza di un rapporto di lavoro tra l’imputato e la vittima – i suddetti motivi di ricorso hanno del tutto omesso il necessario raffronto critico, incorrendo quindi nel relativo vizio di inammissibilità.
4. Con il secondo motivo di ricorso, la difesa dell’imputato ha censurato la sentenza impugnata in punto di mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche; ritenendo che la Corte sarebbe incorsa in un sostanziale vizio di contraddittorietà, basando la negazione medesima sulla mancata ammissione da parte dell’imputato – di una circostanza ritenuta non compiutamente accertata, ovvero quella della natura del rapporto di lavoro intercorrente con la vittima.
Il motivo è inammissibile poichè, anche in relazione a tale profilo, la difesa ha omesso di confrontarsi criticamente con le ragioni poste dalla Corte alla base del diniego delle attenuanti previste dall’art. 62-bis c.p..
Avendo la Corte motivato il diniego medesimo sulla base della valutazione complessiva del comportamento processuale dell’imputato in punto di ricostruzione del fatto – ritenuta confliggente con il complesso delle emergenze istruttorie – nonchè sulla base della carenza di elementi positivi idonei a giustificare la concessione delle attenuanti; ricordando che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis c.p., disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, G., Rv. 283489).
5. Con il terzo motivo di ricorso, l’imputato ha censurato la sentenza gravata in punto di commisurazione concreta della pena, ritenendola come tale da violare i parametri dettati dall’art. 133 c.p..
Il motivo è inammissibile data la sua evidente genericità – con conseguente aspecificità estrinseca – in punto di censura in ordine all’esercizio dei poteri discrezionali inerenti alla dosimetria della pena; i quali costituiscono esercizio di un potere valutativo riservato al giudice di merito, ove congruamente motivato anche alla stregua di alcuni soli dei parametri previsti dall’art. 133 c.p. senza che occorra un’analitica esposizione dei criteri adoperati (Sez. 2, n. 10985 del 9/3/1988, P., Rv. 179693; Sez.5, n. 33114 del 8/10/2020, M., RV. 279838, in motivazione).
Nel caso di specie, il ricorrente ha omesso di confrontarsi in modo effettivo con le argomentazioni spiegate dalla Corte territoriale che – anche sulla base della non spiccata capacità a delinquere dell’imputato e con riferimento agli elementi posti alla base del diniego delle circostanze attenuanti generiche – ha comunque ritenuto di commisurare la sanzione in misura non distante dal minimo edittale.
6. Alla declaratoria d’inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, il ricorrente va condannato al pagamento di una somma che si stima equo determinare in Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
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