Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 222 depositata l’ 8 gennaio 2020
reati tributari – dichiarazione fraudolente – fatture false
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’impugnata sentenza, la Corte di appello di Roma confermava la decisione resa dal Tribunale di Roma e appellata dall’imputato, che, riconosciute le circostanze cui all’art. 62 -bis cod. pen., aveva condannato C.A. alla pena ritenuta di giustizia, condizionalmente sospesa, per il delitto di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, per avere, nella sua qualità di legale rappresentante della E. società cooperativa a r.l., al fine di evadere le imposte, indicato nella dichiarazione dei redditi (modello unico SC2011) inerente il periodo di imposta 2010 (e nella dichiarazione integrativa presentata il 19/09/2012) elementi passivi fittivi, avvalendosi di fatture per operazioni in parte inesistenti (55 emesse dalla Z. società cooperativa a r.l., 60 emesse dalla A. società cooperativa a r.I.), per complessivi 1.777.424,17 euro di imponibile, e 355.484,84 euro di iva; veniva altresì confermata la confisca per equivalente pari all’importo dell’iva evasa.
2. Avverso l’indicata sentenza, l’imputato, per mezzo del difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
2.1. Con il primo motivo si eccepisce la violazione dell’art. 601, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 2 d.Igs. n. 74 del 2000 e 14 disp. prel. cod. civ. Assume il ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe esaminato e valutato il contenuto delle 115 fatture di cui all’imputazione, avendo esclusivamente utilizzato, come parametri per il giudizio, il contenuto dei contratti sottoscritti da E. con Z. e A. il 04/01/2010, così finendo per applicare analogicamente l’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000.
2.2. Con il secondo motivo si eccepisce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 533 cod. proc. pen., 111 Cost. e 6 CEDU. Ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe considerato inesistente una parte delle operazioni sulla base di mere presunzioni tributarie, che al più integrano dei meri indizi, ritenendo che spettasse all’imputato l’onere di provare l’esistenza di tali operazioni. Il fatto che la cooperativa E. non abbia pagato alcune fatture e che, ciò nonostante, l’A. e la Z. abbiano continuato ad emettere fatture nei suoi confronti si spiegherebbe con l’esistenza di rapporti di parentela che legavano gli amministratori delle società in questione. Tantomeno potrebbe considerarsi prova della responsabilità dell’imputato l’assenza di documentazione di natura extra contabile attestante l’esecuzione delle prestazioni relative ai contratti conclusi, gravando in capo all’accusa l’onere di provare la falsità delle fatture e, di conseguenza, l’inesistenza delle operazioni.
2.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe esaminato specifiche questioni dedotte con l’appello, quali: l’esatto ammontare dell’imposta evasa, anche considerando che E. aveva aderito all’accertamento; l’asserito squilibrio dei costi per lavoro dipendente e per i servizi sostenuti dalle società Z. ed A., che erano cooperative di ex detenuti; l’utilizzo di presunzioni tributarie, inammissibile in sede penale; il contenimento della pena nel minimo edittale.
2.4. Con il quarto motivo si censura la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. in relazione all’esatto ammontare dell’imposta evasa. La motivazione, sostiene il ricorrente, sarebbe illogica, laddove dapprima afferma che le fatture, per gli importi di cui al capo di imputazione, sarebbero state emesse a fronte di operazioni inesistenti, salvo poi ritenere che gli importi delle prestazioni non eseguite siano maggiori di quelli sopra indicati, peraltro sulla base della deposizione del teste R., il quale ha reso dichiarazioni contraddittorie e poco “chiare sul punto; ciò che si riverbera sia sull’ammontare della confisca, sia sulla determinazione del trattamento sanzionatorio ex art. 133 cod. pen.
2.5. Con il quinto motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. con riferimento all’art. 322-ter cod. pen. Il ricorrente censura la sentenza impugnata con riguardo alla disposta confisca, non avendo la Corte territoriale tenuto conto, nell’individuazione dell’ammontare dell’imposta evasa, né delle deduzioni e delle detrazioni, che non sono state prese in considerazione dal processo verbale di contestazione e dagli operanti, né dal fatto che E. ha raggiunto un accordo con l’erario, versando una serie di rate, con conseguente violazione del principio di proporzionalità e duplicazione della sanzione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile perché reitera le medesime doglianze già dedotte in entrambi i gradi del giudizio di merito e che sono state sempre state disattese con motivazione adeguata, immune da vizi logici e aderente alle emergenze processuali, con la quale il ricorrente omette un effettivo confronto critico.
2. I primi quattro motivi, intimamente connessi e perciò esaminabili congiuntamente, sono manifestamente infondati.
3. Diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, il giudizio di penale responsabilità non si fonda né esclusivamente sul contenuto dei contratti sottoscritti da E. con Z. e A. il 04/01/2010, e neppure su mere presunzioni tributarie, ma su una serie di elementi di fatto concordanti e convergenti, attestanti la falsità delle fatture in esame, emesse a fronte di prestazioni non eseguite e di pagamenti non effettuati, pur trattandosi di servizi per i quali l’emissione della fattura è obbligatoria solo al momento del pagamento della fattura o di eventuali acconti.
4. Invero, premesso che il numero delle fatture e gli importi corrispondenti indicati nel capo d’imputazione non sono oggetto di contestazione – né lo sono stati nei precedenti gradi di giudizio – la Corte territoriale, quanto alla fittizietà delle fatture emesse da Z., ha valorizzato: a) il fatto che nel 2010 la società abbia avuto fra i quattro e gli otto dipendenti, per un costo complessivo per lavoro dipendente di circa 70 mila euro, e costi esclusivamente per servizi di circa 14 mila euro, a fronte di fatture emesse, relative al contratto di somministrazione di servizi per l’E., per un importo complessivo di 1.577.425 euro; b) la circostanza che, per la maggior parte delle fatture, era indicata una modalità di pagamento (“rimessa diretta”) diversa da quelle contrattualmente pattuita (pagamento a cadenza bimestrale entro il 30 del mese); c) il fatto che la operativa E., a fronte dell’indicato importo delle fatture emesse dalla operativa Z., abbia pagato solamente l’importo complessivo di 350.495,99 euro e, ciononostante, la Z. non intraprese alcuna azione per recuperare il credito e, anzi, continuò ad emettere fatture, pur non ricevendo quanto richiesto; d) la circostanza che le due società non abbiano esibito alcuna documentazione extracontabile relativi ai servizi asseritamente svolto dalla Z. in esecuzione de contratto, né vi sono elementi che attestino la presenza dei dipendenti della Z. sul luogo di svolgimento delle prestazioni; e) la circostanza che la Z. ha esposto, in sede di dichiarazione IVA annuale relativa all’anno 2010, un debito di 245.431 euro non versato e un volume d’affari di 1.234.469 euro, quindi inferiore a quanto fatturato nei contri dell’E.; f) il fatto che la Z. era amministrata da F. C., fratello dell’imputato, e aveva la sede legale adiacente a quella della sede legale di E..
5. Analoghi elementi sono stati ravvisati in relazione alle fatture emesse dalla cooperativa A., avendo la Corte territoriale evidenziato: a) il fatto che nel 2010 la cooperativa aveva avuto alla proprie dipendenze nove lavoratori e aveva emesso nei confronti di E., per l’esecuzione del contratto di prestazione di servizi del 04/01/2010, fatture per un importo complessivo di 987.000 euro, di cui 822.500 euro per imponibile; b) la circostanza che la società era amministrativa da P.C., moglie dell’imputato, ed aveva la sede legale presso il medesimo indirizzo della E., tanto che, all’atto della verifica fiscale avvenuta nel maggio 2014, la P.C. aveva ricevuto i funzionari presso la cooperativa E.; c) dalla contabilità della A. risultavano sostenuti costi per servizi pari a 19 mila euro, per lavoro dipendente pari a quasi 70 mila euro e per materia prime per 966 euro, a fronte di fatture emesse, relative al contratto di somministrazione di servizi per l’E., per un importo complessivo di 987.000 euro; d) la E., a fronte dell’indicato importo, aveva pagato la somma di 20 mila euro, e, anche in tal caso, la A. non solo non adì le vie legali per il recupero del credito, ma proseguì ad emettere fatture nei confronti dell’E.; e) la circostanza che le due società non abbiano esibito alcuna documentazione extracontabile relativi ai servizi asseritamente svolti dall’A. in esecuzione del contratto, né sono stati accertati elementi che attestassero la presenza dei dipendenti dell’A. sul luogo di svolgimento delle prestazioni; f) il fatto che, in sede di dichiarazione Iva annuale relativa all’anno 2010, l’A. espose un debito di 162.698 euro non versato.
6. Orbene, con motivazione non manifestamente illogica, la Corte territoriale ha correttamente valutato gli elementi poc’anzi indicati, evidenziando, in primo luogo, la circostanza che le fatture risultano essere emesse anche per pagamenti non effettuati dall’E., pur trattandosi di servizi per i quali la fattura va obbligatoriamente emessa solo al momento del pagamento della stessa o di acconti; inoltre, la Corte ha parimenti valorizzato il fatto che, nonostante il mancato pagamento delle fatture, le due cooperative abbiano continuato ad emettere fatture nei confronti della E., senza porre in essere azioni dirette alla riscossione dei crediti, e considerando che tali crediti costituivano la quasi totalità delle entrate delle società fatturanti. Tale condotta è stata perciò correttamente ritenuta non solo sintomatica dell’inesistenza delle pretese creditorie, in quanto corrispondenti a servizi non eseguiti, ma anche del tutto illogica, perché entrambe le cooperative non avevano mai versato l’iva corrispondente alle fatture emesse nell’anno 2010 e, dunque, avrebbero dovuto agire per la riscossione dei crediti per onorare i propri debiti fiscali, se le operazioni sottostanti fossero state effettivamente svolte.
La Corte d’appello, inoltre, ha parimenti dato risalto alla manifesta sproporzione non solo tra il numero di dipendenti delle due cooperative (Z. aveva avuto alle proprie dipendenze dai i quattro e gli otto lavoratori, A. nove) e quelle di E. (che in quello stesso periodo impiegava circa 130 dipendenti) – di talché appare del tutto illogica la scelta di affidare ad A. la gestione amministrativa del personale di E., ma anche tra la forza lavoro di Z. e di A. e le prestazioni asseritamente effettuate, non avendo le due cooperative prestatrici di servizi la capacità di produrre i rispettivi fatturati annui per i lavori figurativamente affidati dalla E..
La Corte territoriale ha escluso, con motivazione esente da illogicità manifeste, che tale sproporzione sia spiegabile con l’impiego, da parte delle due cooperative sociali, nella misura di almeno il 30%, di persone appartenenti a categorie svantaggiate (nella specie, ex detenuti), e quindi assunte a costi inferiori, logicamente spiegando che il risparmio di costi (calcolato, appunto, sul 30% del personale) è del 30-40% rispetto al costo di un altro lavoratore, sicché, stante il numero molto esiguo di lavoratori impiegati (meno di una decina complessivamente), parimenti esiguo è il risparmio di spesa, che quindi non spiega la manifesta sproporzione tra il costo per il personale sostenuto dalla due cooperative e il rispettivo fatturato.
La Corte territoriale, inoltre, ha evidenziato come nel 2010 la Z. abbia dichiarato di non avere sostenuto costi per prodotti o materiale, indicando il valore zero alla voce beni strumentali, mentre l’A. abbia dichiarato costi per materia prime per soli 996 euro: una circostanza, questa, che non spiega con quali mezzi le cooperative avrebbe potuto effettuare i lavori rispettivamente loro affidati dalla E. per importo significativi (1.577.425 euro in un caso, 987.000 euro nell’altro).
A conclusiva conferma della fittizietà delle fatture, la Corte d’appello ha indicato sia la circostanza che nessuna delle tre cooperative abbia esibito documentazione extra-contabile che suffragasse l’effettiva esecuzione delle prestazioni relative ai contratti in esame e la presenza dei dipendenti delle due cooperative nei luoghi di lavori pattuiti, sia i collegamenti personali fra gli amministratori delle tre cooperative (il fratello dell’imputato era amministratore di Z. ed ex presidente del consiglio di amministrazione di E., mentre la moglie dell’imputato era amministratrice di A. e, al momento della verifica fiscale, delegata a ricevere gli accertatori per conto di E.).
In conclusione, il censurato percorso argomentativo è privo di illogicità e aderente alle risultanze processuale, sicché supera il vaglio di legittimità.
7. Quanto alla determinazione dell’imposta, la Corte d’appello ha correttamente osservato che gli importi indicati nell’imputazione sono già depurati, rispetto agli importi fatturati dalla Z. e dalla A. verso la E., delle somme corrisposte a fronte dell’emissione di fatture e che sono state sottratte dall’imponibile complessivo; gli importi così calcolati corrispondono perciò alle fatturazioni da consideransi non veritiere, perché relative a prestazioni non effettuate, e alla conseguente iva evasa.
8. Con riguardo al trattamento sanzionatorio, la Corte d’appello, con apprezzamento fattuale esente da illogicità manifeste, ha confermato la pena inflitta in primo grado, pari a un anno e tre mesi di reclusione – assumendo, come pena base, quella di un anno e nove mesi di reclusione: ben al di sotto della pena mediana prevista dall’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, poi ridotta per le generiche – in considerazione della gravità del fatto, desumibile dall’entità dell’imposta evasa in un solo anno e dal numero di fatture illecitamente utilizzate.
9. Manifestamente infondato è anche il quindi motivo.
9.1. La Corte territoriale, infatti, ha confermato la confisca per equivalente di euro 355.484,84 euro, somma che, come si è sopra anticipato, corrisponde all’entità dell’imposta effettivamente evasa, essendo stata calcolata sull’imponibile da cui era stata decurtate le somme effettivamente versate quale pagamento di alcune fatture.
9.2. L’argomentazione secondo cui, successivamente, la E. ha raggiunto un accordo di adesione con l’amministrazione finanziaria, versando “parecchie rate”, è dedotta in maniera generica, non essendo provato né l’accordo, né l’avvenuto pagamento di una o più rate, né il relativo ammontare, fermo restando che il ricorrente potrà adire il giudice dell’esecuzione per ottenere una riduzione della confisca, comprovando l’effettivo pagamento del debito tributario.
10. Infine, manifestamente infondata è l’eccezione di intervenuta prescrizione del reato, sollevata dal difensore all’odierna udienza.
Invero, il ricorrente non tiene conto dall’art. 17, comma 1-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, introdotto dall’art. 36 vicies semel, lett. I) d.l. 13/08/2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla l. 14/09/2011, n. 148, e in vigore dal 17/09/2011 (e quindi prima della data di presentazione della dichiarazione, avvenuta il 29/09/2011), che ha elevato di un terzo il termine di prescrizione per il reato ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, con la conseguenza che la prescrizione, pari a dieci anni, maturerà il 29/09/2021.
11. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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