Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 23191 depositata il 30 luglio 2020
reati tributari – sequestro per equivalente – profitto del reato
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’impugnata sentenza, la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima città con la quale, all’esito del giudizio abbreviato condizionato, K.C. era stata condanna in relazione al reato di cui all’art. 10- ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, per l’omesso versamento di Iva per € 506.634,00, dovuta in base alla dichiarazione annuale della società B.I. srl, di cui era legale rappresentante, per il periodo di imposta del 2012, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo all’anno successivo, in Pesaro il 27/12/2012. Con la medesima sentenza era stata disposta la confisca per equivalente della somma di € 506.634,00, pari all’imposta evasa.
2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso l’imputata, a mezzo del difensore di fiducia, e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
2.1. Con il primo motivo denuncia il vizio di motivazione in relazione all’affermazione della responsabilità penale in presenza di crisi economica e esimente riconducibile all’assenza di dolo. La corte territoriale non avrebbe considerato che nel corso del giudizio era stato dimostrato che la crisi di liquidità che aveva colpito la società di cui l’imputata era, all’epoca dei fatti, amministratore unico, era dipesa dalla crisi della società madre estera e dall’insolvenza del socio di maggioranza assoluta che non aveva reso possibile la ricapitalizzazione e il finanziamento della società italiana, tant’è che l’imputata presto atto di ciò, aveva rassegnato le dimissioni in data 27/06/2013 e chiesto in proprio il fallimento. L’imputata non deteneva quote della società, sicchè a lei non competeva la ricapitalizzazione della società, aveva poi compiuto ogni strada utile e preso atto della situazione e della circostanza che il socio di maggioranza non interveniva a ripianare i debiti si era determinata a richiedere il fallimento. Erano sussistenti tutti i presupposti per escludere il dolo del reato, secondo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità.
2.2. Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge in relazione alla disposta confisca per equivalente della somma di € 506.634,00, ai sensi dell’art. 12 bis d.lgs 10 marzo 2000, n. 74. A differenza della confisca diretta, la confisca per equivalente, come affermato da una recedente pronuncia di legittimità (n. 6348/2019), ha un diverso perimetro applicativo poiché assolve ad una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica modificata in favore del reo dalla commissione del reato e, di conseguenza, occorre la dimostrazione che l’autore del reato abbia personalmente tratto dei vantaggi che hanno determinato un miglioramento economico in suo favore. Nel caso in esame, alcun vantaggio economico avrebbe tratto l’imputata dalla condotta illecita, sicchè erroneamente sarebbe stata disposta la confisca per equivalente, confisca applicata retroattivamente giacchè introdotta dall’art. 10 del d.l. 24 settembre 2015, n. 158 entrato in vigore dopo il fatto commesso.
2.3. Con il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod.proc.pen. in relazione al diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in presenza di elementi quali l’incensuratezza, il comportamento processuale (richiesta riti alternativi e richiesta di fallimento in proprio).
3. Il Procuratore Generale ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. Il ricorso, che riproduce le medesime censure già devolute ai giudici dell’impugnazione e da quei giudici disattese con motivazione congrua e corrette in diritto, è inammissibile.
5. Il primo motivo di ricorso è meramente ripetitivo delle stesse questioni già devolute in appello, con riguardo alla rilevanza della situazione di crisi economica e finanziaria ai fini di esclusione dell’elemento soggettivo del reato, puntualmente esaminate e disattese dal giudice dell’impugnazione con motivazione del tutto coerente e adeguata.
La sentenza impugnata, in risposta alle censure difensive con le quali l’imputata allegava la non imputabilità della crisi economica, essendo questa dalle inadempienze della casa madre, e l’impossibilità di porre rimedio alla crisi di liquidità, ha evidenziato che la ricorrente non aveva compiutamente assolto all’onere probatorio richiesto, secondo i parametri della giurisprudenza di legittimità per escludere la rilevanza penale dell’omissione sotto il profilo dell’assenza di dolo.
Ferma la non imputabilità della crisi economica, dipesa dalla insolvenza della casa madre, è rimasto indimostrato che la ricorrente avesse messo in atto tutti le misure, anche sfavorevoli al proprio patrimonio per farvi fronte. Mentre con riguardo al profilo della prosecuzione dell’attività sociale che aveva confermato, secondo il provvedimento impugnato, la non impossibilità di adempiere pur parzialmente alle obbligazioni tributarie, il ricorso è diretto a rivalutazione del merito non consentita.
La corte territoriale ha, poi del tutto correttamente, ritenuto che il dolo del reato non era escluso giacchè l’imputata aveva omesso l’accantonamento delle somme ricevute e che dovevano essere accantonate in vista dell’adempimento dell’obbligazione tributaria.
La Corte d’appello ha fatto corretta applicazione dello ius receptum di questa Corte e lo ha argomentato in modo congruo e privo di illogicità.
Deve rammentarsi che all’imputata è contestato l’omesso versamento dell’iva; il tributo da versare (l’iva) è costituito da una somma che il contribuente ha comunque ricevuto dalla controparte dell’operazione commerciale, e che avrebbe dovuto accantonare in vista della scadenza del debito erariale. È ben vero che non vi è norma giuridica che imponga di accantonare la somma ricevuta e da versare, e che il reato sussiste allorchè, entro il termine per il pagamento dell’acconto per l’anno di imposta successivo, non vengono versate le somme dovute in base alla dichiarazione Iva per l’anno di imposta di riferimento. Ma certamente la scelta di accantonare la somma, che il contribuente ha ricevuto in controparte dell’operazione commerciale, costituisce scelta prudenziale, nel senso che onera il contribuente del rischio del mancato versamento alla scadenza del termine per l’adempimento dell’obbligazione tributaria, termine che, riferito all’anno di imposta successivo, costituisce il momento consumativo del reato, rispetto al quale sussistono gli elementi soggettivi e oggettivi.
6. Il secondo motivo di ricorso è parimenti inammissibile per manifesta infodatezza.
Va, anzitutto, rilevato che la confisca per equivalente del profitto del reato, pari a € 506.634,00, è stata disposta ai sensi dell’art. 1 comma 243 della legge n. 244 del 2007, che ha previsto l’applicazione, ai reati previsti dal d.lgs n. 74 del 2000, dell’art. 322 ter c.p. “in quanto applicabile e che, secondo la giurisprudenza pacifica, l’integrale rinvio alle “disposizioni di cui all’articolo 322-ter del codice penale”, contenuto nell’art. 1, comma 143, della legge n. 244 del 2007, consente di affermare che, con riferimento ai reati tributari, trova applicazione non solo il primo ma anche il secondo comma della norma codicistica, con la conseguenza che deve essere disposta la confisca del “profitto del reato” (Sez. 3, n. 55482 del 20/07/2017, Manzo, Rv. 271987 – 01; Sez. 3, n. 23108 del 23/04/2013, Nacci, Rv. 255446 – 01; Sez. 3, n. 35807 del 07/07/2010, Bellonzi, Rv. 248618 – 01).
Sulla nozione di “profitto” la Corte di Cassazione ha affermato che questo è riferibile all’ammontare dell’imposta evasa, in quanto quest’ultima costituisce un indubbio vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, come tale, riconducibile alla nozione di “profitto” del reato in questione. Il profitto è costituito dal risparmio economico da cui consegue l’effettiva sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale Sez. Un., n. 18374 del 31/01/2013, Rv. 255036, ric. Adami).
Ciò posto, l’applicazione della disposizione di cui all’art. 322 ter cod.pen. per effetto della legge 244/2007, deve trovare applicazione con riferimento ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore e, dunque, con riferimento all’omissione di versamento IVA relativa all’anno di imposta 2012 pari a € 506.634,00.
Nessuna applicazione retroattiva dell’art. 12 bis del d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, inserito dall’art. 10, comma 1, del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, è sussistente perché tale disposizione, in continuità con la disciplina precedente, prevede che «Nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per uno dei delitti previsti dal presente decreto, è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto». Dunque l’art. 1 comma 243 ha trovato autonoma collocazione nell’art. 12 bis del d.lgs 10 marzo 2000, n. 74.
7. L’ulteriore profilo di censura in merito alla confisca per equivalente del profitto del reato è inammissibile.
La confisca c.d. per equivalente, diversamente dall’istituto tradizionale della confisca disciplinato, quale misura di sicurezza, dall’art. 240 cod. pen., trova il suo fondamento e limite nel vantaggio tratto dal reato e prescinde dalla pericolosità derivante dalla res, in quanto non è commisurata né alla colpevolezza dell’autore del reato, né alla gravità della condotta, avendo essa come obiettivo quello di impedire al colpevole di garantirsi le utilità ottenute attraverso la sua condotta criminosa .
Ne consegue che, nonostante la definizione codicistica dell’istituto come misura di sicurezza patrimoniale, l’effettiva ratio della confisca per equivalente consiste in un ampliamento oggettivo delle cose confiscabili per finalità prevalentemente sanzionatore “scopo di questo istituto è quello di superare le angustie della confisca “tradizionale”, rispetto alla quale si pone in un rapporto di onnicomprensiva- sussidiarietà, per la sua attitudine a costituire un rimedio alle difficoltà di apprensione dei beni coinvolti nella vicenda criminale, cioè a supplire agli ostacoli connessi alla individuazione del bene in cui si incorpora il profitto e di consentire la confisca anche nel caso in cui l’apprensione del prezzo o del profitto derivante dal reato non sia più possibile in conseguenza dell’avvenuta cessione a terzi oppure a causa di forme di occultamento o, semplicemente, perché i beni sono stati consumati. In questi casi la confisca per equivalente consente di aggredire ugualmente il profitto illecito perché si riferisce al valore illecitamente acquisito. È evidente, quindi, come il nesso eziologico tra i beni oggetto di confisca e il fatto-reato dimostri una tendenza ad allentarsi fino a scomparire, in quanto il provvedimento ablatorio colpisce i beni indipendentemente dal loro collegamento, diretto o mediato, con il reato (Sez. 6, n. 18799 del 06/12/2012, Attianese, Rv. 255164 – 01).
In altri termini, la misura è parametrata al profitto o al prezzo del reato soltanto sotto un profilo quantitativo, sì che l’ablazione va a colpire una parte del patrimonio che, in sè, non ha alcun collegamento con il reato, nè alcun rapporto di pertinenzialità con esso (per tutte, Sez. 3, n. 20887 del 15/4/2015, Aumenta, Rv. 263408); è l’imputato che viene ad essere direttamente colpito nelle sue disponibilità economiche, non la cosa in quanto derivante dal reato, dal che il carattere sanzionatorio, comune – “nè più, nè meno” (Sez. U, Lucci, cit.) – alla pena applicata con la sentenza di condanna e non è richiesta la prova del vantaggio patrimoniale in capo all’imputato il quale è colpito dalla confisca per equivalente. Proprio le Sezioni Unite Lucci hanno infatti evidenziato, con riguardo alla confisca per equivalente, la funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è pertanto connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la finalità principale delle misure di sicurezza, essendo in definitiva la confisca di valore parametrata al profitto o al prezzo dell’illecito solo da un punto di vista “quantitativo”, per cui la stessa non può che essere disposta solo all’esito di un giudizio di condanna, dovendosi appunto declinare la funzione della misura in chiave marcatamente sanzionatoria
Ciò comporta che ove non sia possibile l’apprensione in via diretta del profitto del reato, come nel caso di società beneficiaria del vantaggio economico derivante dal reato commesso dal suo legale rappresentante, si deve dar corso alla confisca di valore che non richiede il nesso di pertinenzialità tra la cosa e il reato e non richiede, come sostiene la difesa, che si sia verificato un incremento patrimoniale dell’autore del reato. Una volta che si sono materializzati i presupposti di legge della confisca obbligatoria del profitto del reato tributario per equivalente, non è richiesta la dimostrazione né la ricerca del vantaggio in capo all’autore del reato tributario commesso nell’esclusivo vantaggio dell’ente che ne ha beneficiato.
8. La sentenza impugnata ha giustamente osservato che l’ablazione della somma di denaro pari a € 506.634,00, a titolo di confisca per equivalente, non richiede un giudizio prognostico di pericolosità nel caso in cui non risulti possibile l’apprensione del profitto diretto del reato, in questo caso del profitto del reato nelle casse sociali, apprensione non resa possibile, nel caso in esame, in ragione dell’intervenuto fallimento della società nel cui interesse è stato commesso il reato, da cui l’applicazione della confisca per equivalente nei confronti dell’imputata autore del reato commesso nell’interesse della società di cui era legale rappresentante.
Correttamente in presenza dei presupposti è stata confermata la confisca per equivalente disposta nei confronti dell’autore del reato non essendo richiesta la prova del “vantaggio” in capo a chi ha commesso il reato. Il postulato ermeneutico sostenuto dalla ricorrente secondo cui per l’applicazione della confisca equivalente occorre la prova che l’autore del reato abbia tratto dei vantaggi non trova fondamento nell’istituto della confisca ex art. 12 bis, cit..
9. Infine, manifestamente infondato è il terzo motivo di ricorso con cui la ricorrente censura il diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, diniego fondato sull’assenza di elementi positivi per riconoscerle. Il ricorso, sul punto, non si confronta non avendo indicato, al di là dello stato di incensuratezza, che non è di per ciò solo invocabile per il riconoscimento, e l’avere presentato istanza in proprio di fallimento che parimenti è elemento neutro, quali elementi di segno positivo avrebbero dovuto essere considerati.
10. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e la ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che la ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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