Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 23619 depositata il 7 agosto 2020
reati tributari – Omesso versamento IVA – omesso versamento delle ritenute certificate
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 16 luglio 2019, la Corte d’appello di Milano, decidendo il gravame proposto da R.F., ha confermato la sentenza con cui il medesimo, all’esito del giudizio abbreviato, è stato condannato alle pene di legge per il reato continuato di cui all’art. 10 -ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 per aver omesso, in qualità di legale rappresentante della N.C.i Srl, il versamento dell’IVA per importi superiori alla soglia di punibilità in relazione agli anni d’imposta 2012 e 2013.
2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, con il primo motivo, il vizio di omessa motivazione in ordine all’eccepito difetto di legittimazione passiva con riferimento al reato di cui al capo B). Si lamenta che l’imputato sia stato ritenuto responsabile dei reati di cui ai capi A) e D) benché fosse risultato che della gestione ed amministrazione della società si occupasse l’amministratore delegato C.F., a cui era riconducibile la decisione di non versare i contributi INPS, in ragione della ripartizione delle mansioni interne dei ruoli societari.
3. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 43 cod. pen. per essere stati ritenuti sussistenti gli elementi materiale e psicologico del delitto contestato, benché fosse stata data prova che il mancato pagamento dell’IVA fosse dipeso dalla crisi economico-finanziaria della società, non imputabile agli amministratori, bensì alle banche (che avevano improvvisamente ridotto l’accesso al credito) ed alla F.I., che aveva improvvisamente bloccato la fatturazione, vale a dire a eventi imponderabili, imprevisti ed imprevedibili che erroneamente non erano stati valorizzati quale causa di forza maggiore. La società aveva peraltro optato per il pagamento dei dipendenti, creditori privilegiati, facendo poi spontaneo ricorso alle procedure concorsuali del concordato preventivo, prima, e poi del fallimento, richiesto in proprio, ciò che ulteriormente escludeva l’elemento soggettivo.
4. Con il terzo motivo di ricorso si lamentano la violazione dell’art. 133 cod. pen. ed il vizio di motivazione per non essere stata ridotta ai minimi edittali la pena inflitta, benché i precedenti penali, escluso il reato estinto, si riducessero a reati omissivi di carattere fiscale oggetto di sentenza di patteggiamento e senza considerare gli elementi favorevoli addotti dall’appellante.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
1.1. La doglianza è innanzitutto generica – e scarsamente comprensibile – nella parte in cui riferisce il vizio di omessa motivazione all’eccepito “difetto di legittimazione passiva” rispetto al reato di cui capo B), vale a dire l’omesso versamento delle ritenute certificate, dal quale l’imputato era stato tuttavia prosciolto già in primo grado, per mancato superamento delle soglie di punibilità. Del pari incomprensibile è il riferimento al fatto che l’imputato, quale presidente del consiglio di amministrazione della società, si era diviso i compiti con l’amministratore delegato, a cui era riconducibile la decisione di non versare i contributi INPS (l’addebito, invero, non riguarda l’omesso versamento dei contributi previdenziali).
1.2. In secondo luogo, la doglianza è comunque manifestamente infondata, poiché la sentenza impugnata – pagg. 4 e 5 – attesta la corretta imputazione dell’addebito all’odierno ricorrente, presidente del CdA e legale rappresentante della N.C.i Srl, che proprio in tale veste aveva presentato le dichiarazioni fiscali relative agli di imposta 2012 e 2013, riportanti i debiti IVA poi non pagati (circa 793.000 Euro nel primo anno e circa 288.000 l’anno successivo). Si legge, ancora, nel provvedimento impugnato che nessuna delega all’adempimento degli obblighi tributari era stata rilasciata all’amministratore delegato C.F., che svolgeva funzioni gestionali e commerciali, come da lui dichiarato quale testimone nell’esame a cui era stato condizionato il giudizio abbreviato, senza che il ricorrente abbia sul punto specificamente allegato e dimostrato il travisamento della prova. La motivazione circa l’attribuzione all’imputato della penale responsabilità per gli addebiti ascritti, dunque, è certamente sussistente e non manifestamente illogica, oltre che conforme al consolidato – e ovvio – principio di diritto secondo cui, nelle società, soggetto attivo dei reati di omesso versamento di ritenute certificate e dell’IVA è il legale rappresentante in carica al momento della scadenza del termine previsto dagli artt. 10 -bis e 10 -ter d.lgs. n. 74 del 2000 (cfr., quanto alla prima delle fattispecie di reato citate, Sez. 3, n. 2741 del 10/10/2017, dep. 2018, Turina, Rv. 272027).
2. Il secondo motivo di ricorso è del pari inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
Il ricorrente, di fatti, si limita a riproporre le argomentazioni difensive rassegnate dapprima al giudice di primo grado – che le aveva motivatamente disattese – e poi riproposte in sede di gravame, del pari ritenuto infondato dalla Corte d’appello con argomentazioni giuridicamente corrette e non illogiche.
2.1. In diritto, va ricordato che -, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l’elemento soggettivo del reato di omesso versamento di IVA, previsto dall’art. 10 -ter del d.lgs. n. 74 del 2000, è il dolo generico (Sez. 3, n. 3098 del 05/11/2015, dep. 2016, Vanni, Rv. 265939), configurabile anche nella forma del dolo eventuale (Sez. 3, n. 34927 del 24/06/2015, Alfieri, Rv. 264882), integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, a nulla rilevando i motivi della scelta dell’agente di non versare il tributo (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263127) e l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352/2015 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128).
Nella sentenza da ultimo citata questa Corte ha escluso che potesse attribuirsi rilievo scriminante alla mancanza della provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria per effetto di una scelta di politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità, sul rilievo che «la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente». Questa Suprema Corte, in particolare, «ha sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822). 5.20. Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856). 5.21. Ne consegue che: a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l’inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico» (Sez. 3, n. 8352/2015, Schirosi).
In particolare, nel reato di omesso versamento di Iva, ai fini dell’esclusione della colpevolezza è irrilevante la crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo (Sez. 3, n. 2614 del 06/11/2013, dep. 2014, Rv. 258595), anche attingendo al patrimonio personale (Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, dep. 2014, Mercutello, Rv. 258055; Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015, in motivazione). Né la mancata riscossione di crediti costituisce circostanza idonea ad escludere il dolo, posto che si tratta di eventi che rientrano nel normale rischio di impresa (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi, in motivazione).
2.2. La sentenza impugnata ha fatto corretta, ed esplicita, applicazione di tali principi, osservando del tutto logicamente che, nell’ambito di una crisi d’impresa non certo improvvisa e recente, essendo iniziata nel 2010, invece di effettuare gli accantonamenti, la società si era autofinanziata, per ben due anni consecutivi, con l’IVA incassata. Il lungo periodo intercorso prima dell’attivazione delle procedure concorsuali – che il generico ricorso neppure colloca nel tempo – rende all’evidenza irrilevante che la società abbia impiegato le risorse disponibili (anche) per corrispondere le retribuzioni ai dipendenti. Si osserva inoltre – senza che il ricorrente spenda sul punto parola – che l’imputato non aveva dato provato di aver attinto ai propri beni personali.
3. Parimenti inammissibile per genericità e manifesta infondatezza è il terzo motivo di ricorso.
Quanto alla pena base la stessa è stata determinata dal primo giudice – e mantenuta dalla Corte territoriale – in dieci mesi di reclusione, vale a dire in termini leggermente superiori al minimo e ben inferiori alla media edittale, con un contenuto aumento per la continuazione. La doglianza al proposito mossa è dunque inammissibile posto che la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197), sicché può essere censurata in sede di legittimità soltanto sul piano del soddisfacimento dell’obbligo di motivazione, per assolvere il quale, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, è sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della iL pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197). Nel caso di specie, la Corte territoriale non si è peraltro limitata ad un generico richiamo ai criteri di commisurazione della pena, ma ha logicamente argomentato la decisione sul rilievo dell’entità dell’IVA non versata per l’anno 2012 e sull’esistenza di precedenti penali, anche specifici, in capo all’imputato, precedenti che lo stesso ricorrente non nega, sia pur tentando di sminuirne la rilevanza.
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., oltre all’onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versa mento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di C. 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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