CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 24029 depositata il 29 maggio 2018
Reati tributari – Evasione – Omessa presentazione dichiarazione dei redditi – Imposte non versate oltre la soglia di rilevanza penale
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 13 marzo 2017 la Corte d’appello di Lecce ha confermato la sentenza del 11 dicembre 2014 del Tribunale di Lecce, con cui G.M. era stato condannato alla pena di un anno e sei mesi di reclusione, in relazione a due contestazioni di violazione dell’art. 5 d.lgs. 74/2000, di cui ai capi b) et c) della rubrica, per avere, quale titolare dell’impresa individuale CO.GE.MA. di M.G., omesso di presentare le dichiarazioni annuali dei redditi e ai fini dell’imposta sul valore aggiunto relative agli anni 2006 e 2007, pur avendo conseguito ricavi per euro 549.549,31 nell’anno 2006 e per euro 319.848,82 nell’anno 2007, ed essendo di conseguenza dovute imposte di ammontare superiore alla soglia di rilevanza penale.
2. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo e il secondo motivo ha denunciato violazione dell’art. 5 d.lgs. 74/2000 e contraddittorietà e illogicità manifesta della motivazione, in riferimento alla affermazione di responsabilità, fondata sulla attribuibilità all’imputato di tutte le fatture emesse dalla impresa individuale COGEMA di cui era titolare, e alla sussistenza del dolo di evasione, ritenuti configurabili dalla Corte d’appello con motivazione apodittica, omettendo di considerare il disconoscimento da parte dell’imputato delle fatture nn. 18, 43, 47 e 49 del 2006 e senza alcuna indagine in ordine alla sussistenza del dolo specifico di evasione.
2.2. Con il terzo motivo ha denunciato violazione dell’art. 62 bis cod. pen. e ulteriore vizio della motivazione, in ordine al trattamento sanzionatorio.
Ha lamentato il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la mancata indicazione dei criteri di determinazione della pena.
Considerato in diritto
1. Il ricorso, riproduttivo dei primi tre motivi d’appello, è inammissibile.
2. Il primo e il secondo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente, riguardando entrambi l’affermazione di responsabilità dell’imputato ed essendo diretti, sia pure attraverso la deduzione di violazioni di legge penale e di vizi della motivazione, a censurare la ricostruzione dei fatti compiuta concordemente dai giudici di merito, in particolare dell’ammontare dei ricavi dell’impresa dell’imputato e delle imposte non corrisposte, e l’affermazione della sussistenza del dolo di evasione, sono generici, essendo privi di autentico confronto critico con la motivazione della sentenza impugnata, dunque della necessaria specificità estrinseca, cioè dell’esame analitico della struttura argomentativa del provvedimento impugnato, della individuazione delle sue rationes decidendi e della formulazione di critiche astrattamente idonee a minare l’idoneità giustificatrice della decisione impugnata di tali argomenti.
Il ricorrente, infatti, attraverso entrambe le doglianze si duole della propria affermazione di responsabilità, ribadendo di non aver emesso alcune fatture relative all’anno 2006 e di aver disconosciuto le sottoscrizioni apposte in calce alle stesse per quietanza, con la conseguente necessità di sottrarre il relativo importo dall’ammontare dei propri ricavi, che determinerebbe il mancato superamento della soglia di rilevanza penale della condotta, e anche del mancato accertamento del dolo di evasione, omettendo del tutto di considerare quanto al riguardo esposto nella sentenza impugnata.
In proposito, infatti, la Corte d’appello di Lecce, nel disattendere le identiche censure sollevate, con l’atto d’appello, peraltro altrettanto genericamente, con la conseguente non necessità di una analitica risposta sul punto, posto che l’obbligo di motivazione del giudice dell’impugnazione è strettamente correlato alla specificità dei motivi, ed è tanto più stringente quanto più la censura è specifica e analitica, ha evidenziato come per una di dette fatture fosse emerso un elemento di riscontro, costituito dalla annotazione nella contabilità della emittente, e per le altre fossero state acquisite le quietanze di pagamento sottoscritte dall’imputato, che non le aveva disconosciute, affermando solamente di non ricordare di averle firmate: si tratta di considerazioni idonee, alla luce della genericità dell’atto d’appello sul punto, a disattendere i rilievi dell’imputato e a confermare la ricostruzione dell’ammontare dei ricavi conseguiti nell’anno 2006 e delle imposte non versate, con le quali l’imputato ha del tutto omesso di confrontarsi, limitandosi a ribadire la propria richiesta di assoluzione e a contestare il raggiungimento della soglia di rilevanza penale, senza affrontare la questione delle quietanze emesse in relazione ad alcune delle fatture e alla annotazione di una di esse nella propria contabilità, cosicché la censura risulta priva di specificità e anche manifestamente infondata, risultando adeguata e immune da vizi la motivazione della sentenza impugnata sul punto.
Quanto alla sussistenza del dolo di evasione, di cui altrettanto genericamente è stato lamentato il mancato accertamento, correttamente la Corte d’appello ha ritenuto sufficiente la conoscenza dell’ammontare dei ricavi conseguiti e della corrispondente imposta dovuta, richiamando l’orientamento di cui alla sentenza n. 18939 del 2016 di questa stessa Sezione terza (Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016, Vece, Rv. 267022), che il Collegio condivide e ribadisce, aggiungendo che il ricorrente, oltre a prospettare solo in modo generico tale carenza della sentenza impugnata, nulla ha aggiunto o allegato riguardo alle dimensioni della propria impresa e della relativa organizzazione, né quanto ad eventuali deleghe a terzi per la gestione e l’assolvimento degli adempimenti amministrativi, contabili o fiscali, cosicché anche sotto tale profilo non vi sono elementi di sorta per ritenere che l’imputato non fosse consapevole dell’ammontare dei ricavi e dell’imposta evasa, con la conseguente sussistenza del dolo di evasione, insito, in mancanza di altre deduzioni, nel mancato assolvimento dell’obbligazione tributaria.
3. Anche il terzo motivo, mediante il quale è stata lamentata la contraddittorietà e l’illogicità manifesta della motivazione, è inammissibile a causa della sua genericità, oltre che manifestamente infondato.
Al riguardo, infatti, l’imputato si è limitato a richiamare gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in ordine alla determinazione della pena e alla correlata necessità di valutare la personalità dell’imputato, omettendo di considerare quanto al riguardo esposto nella motivazione della sentenza impugnata.
La Corte d’appello, nel disattendere la, peraltro generica, censura formulata sul punto dall’imputato, ha escluso la riconoscibilità delle circostanze attenuanti generiche, in considerazione della personalità negativa dell’imputato, gravato da due precedenti penali, e della complessiva gravità delle condotte di omessa dichiarazione contestate (ripetute per due anni d’imposta e con omissioni d’imposta apprezzabilmente superiori alla soglia di rilevanza penale): si tratta di motivazione pienamente idonea, essendo stati indicati gli indici, tra quelli di cui all’art. 133 cod. pen., ritenuti prevalenti o assorbenti per negare dette circostanze, con la quale l’imputato ha del tutto omesso di confrontarsi, con la conseguente inammissibilità anche di tale doglianza, a causa della sua genericità e manifesta infondatezza.
4. Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile, a causa della genericità e manifesta infondatezza delle doglianze cui è stato affidato.
L’inammissibilità originaria del ricorso esclude il rilievo della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità, e preclude l’apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266; conformi, Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n. 19601, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Rasizzi Scalora, Rv. 261616).
Nel caso in esame la prescrizione sarebbe maturata per entrambi i reati successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, resa il 13 marzo 2017, giacché, tenendo conto delle sospensioni del termine di prescrizione verificatesi in primo e in secondo grado (pari a un anno, nove mesi e 29 giorni in primo grado e a 63 giorni in secondo grado), il reato di omessa dichiarazione relativa all’anno 2006, consumatosi il 1 ottobre 2017, si sarebbe prescritto il 2 aprile 2017, e quello relativo all’anno 2007, consumatosi il 30 settembre 2008, si sarebbe prescritto il 31 marzo 2018, cosicché ne risulta precluso il rilievo, essendo entrambe tali scadenze successive alla pronuncia della sentenza impugnata.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. sentenza 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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