CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 244 depositata l’8 gennaio 2020, n. 244
Reati tributari – Omessa presentazione dichiarazione dei redditi di società di capitali – Sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti del legale rappresentante – Legittimità
Ritenuto in fatto
1. Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lametia Terme con il decreto del 4 aprile 1029 ha disposto il sequestro preventivo della somma di € 224.520,97, rinvenibile nella disponibilità della E. S.r.l., finalizzato alla confisca diretta del profitto o per equivalente nei confronti di A.F.P., legale rappresentante della società.
Il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto sussistente il fumus del reato ex art. 5 d.lgs. 74/2000, essendo stata omessa la presentazione della dichiarazione dei redditi per l’anno 2016, con Ires evasa pari € 224.520,97.
In esecuzione del decreto, è stato sottoposto a sequestro preventivo l’immobile di proprietà di A.F.P., fino alla concorrenza del predetto importo.
Il Tribunale del riesame di Catanzaro, in parziale accoglimento del ricorso di A.F.P., ha ridotto l’importo della somma sequestrabile ad € 148.326,02.
2. Avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame ha proposto ricorso per cassazione il difensore di A.F.P..
2.1. Con il primo motivo si deduce il vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 32 del d.p.r. 600/1973, ritenendo che la motivazione, in risposta al motivo di riesame con cui si contestava il riferimento alle presunzioni tributarie, sarebbe apparente, avendo il Tribunale del riesame ritenuto che l’accertamento fu effettuato con l’accertamento induttivo.
Si richiama la sentenza n. 39243 del 30 agosto 2018 della Corte di cassazione che avrebbe affermato l’insussistenza dei reati ex art. 5 e 10 d.lgs. 74/2000 nel caso dell’avvenuta presentazione della dichiarazione i.v.a.; la presentazione, quanto all’anno di imposta 2016, emergerebbe dagli atti redatti dalla Guardia di Finanza.
La motivazione sarebbe manifestamente illogica e contraddittoria laddove distinguerebbe presunzioni ed accertamento induttivo, che per il ricorrente sono la stessa cosa.
Si sostiene, richiamando la sentenza della Corte di cassazione n. 15899 del 2016, che le presunzioni tributarie non sono sufficienti ad affermare la penale responsabilità dell’imputato.
Il ricorso si incentra poi sul mancato rispetto del contraddittorio nella redazione dell’accertamento, sull’insufficienza della mera applicazione dello studio di settore, sulla genericità del processo verbale di constatazione, riconosciuta anche dal Tribunale del riesame.
Il Tribunale del riesame avrebbe dovuto accogliere la tesi difensiva sull’inesistenza del reato in presenza della dichiarazione i.v.a. per l’anno di imposta 2016.
Secondo il ricorrente, ove emergano indizi di reità durante la verifica fiscale, si dovrebbe procedere con le forme di cui all’art. 220 disp. att. cod. proc. pen.
2.2. Con il secondo motivo si deduce il vizio di motivazione apparente nella parte in cui il Tribunale del riesame ha ritenuto inapplicabile il principio di diritto della sentenza della Corte di cassazione n. 39243 del 2018.
Secondo il ricorrente, essendo applicabile alla società il regime della reverse charge ai sensi dell’art. 74 commi 7 ed 8 del d.p.r. 633/1972 ed avendo presentato la dichiarazione i.v.a., la società avrebbe subito un danno dal non avere presentato la dichiarazione dei redditi perché avrebbe potuto riportare le operazioni non contenute nella dichiarazioni i.v.a. che avrebbero fatto abbassare in maniera consistente la base imponibile dell’I.r.e.s.
2.3. Con il terzo motivo si deduce il vizio di motivazione apparente quanto al rigetto della richiesta di applicazione dei principi espressi dalla sentenza n. 22061 del 2019 della Corte di cassazione.
Il motivo si incentra sulla sequestrabilità del denaro e su quando possa costituire profitto del reato di omesso versamento dell’imposta riportando la motivazione della sentenza citata; si conclude chiedendo l’annullamento del sequestro preventivo dell’immobile dell’indagato per un importo superiore a quello in giacenza sul conto corrente del P. alla data di consumazione del reato, corrispondente alla scadenza del termine previsto per il versamento dell’imposta.
2.4. Con il quarto motivo si deducono i vizi di violazione di legge e di motivazione apparente dell’ordinanza impugnata nella parte in cui ha escluso che sia avvenuto il mancato superamento della soglia di punibilità, per effetto della compensazione da attuare tra imposta non versata ed importo dell’I.v.a. da portare in detrazione.
Per il ricorrente, la compensazione può essere effettuata anche in assenza della richiesta espressa di compensazione, come invece ritenuto dal Tribunale del riesame.
Si rileva che il ricorrente non ha presentato la dichiarazione dei redditi né prodotto alcuna documentazione contabile alla Guardia di Finanza; pertanto non potrebbe fornire la prova della richiesta di compensazione del credito i.v.a. In assenza della dichiarazione dei redditi, la richiesta di compensazione non era possibile. Pertanto, il credito i.v.a. documentato avrebbe dovuto essere posto in compensazione con quello Ires, sicché non sarebbe stata superata la soglia di punibilità.
L’errore di calcolo nella determinazione dei costi/ricavi sarebbe dovuto all’omessa consegna da parte di tale Domenico Antonio Sacco (indicato quale amministratore della società) per gli anni di imposta 2016-2018.
Si ribadisce, richiamando i principi di diritto in tema di imposta evasa ex art. 5 d.lgs. 74/2000, che l’indagato ha presentato la dichiarazione i.v.a. dalla quale emergerebbe l’importo da portare in detrazione; il ricorrente avrebbe documentato al Tribunale del riesame i diversi dati, rispetto a quelli forniti indicati dalla Guardia di Finanza, riportati nel ricorso, in base ai quali sarebbe possibile ritenere il mancato superamento della soglia di punibilità.
Considerato in diritto
1. Il primo ed il secondo motivo sono manifestamente infondati in diritto.
1.1. La tesi difensiva si fonda sul principio di diritto che avrebbe pronunciato la sentenza n. 39243 del 30 agosto 2018 della Corte di cassazione Sez. 3, che avrebbe affermato l’insussistenza del dolo specifico dei reati ex art. 5 e 10 d.lgs. 74/2000 nel caso dell’avvenuta presentazione della dichiarazione i.v.a., sentenza che non risulta essere stata ufficialmente massimata.
Ciò che però conta è che la sentenza n. 39243 del 30 agosto 2018 si riferisce esclusivamente all’art. 10 del d.lgs. 74/2000, contestato nel procedimento de quo ad un soggetto diverso, ed in alcun modo all’art. 5; nella sentenza si esclude il dolo dell’art. 10 essendo emerso che per l’anno di imposta oggetto dell’accertamento era stata presentata la dichiarazione i.v.a. Contrariamente a quanto si afferma nel ricorso, la Corte di cassazione, nello stesso caso ha confermato la sussistenza del reato ex art. 5.
1.2. Quanto poi alla determinazione del reddito, deve rilevarsi che presunzioni legali, presunzioni semplici ed accertamento induttivo sono tre diversi istituti.
Nel caso de quo, emerge dall’ordinanza impugnata che la Guardia di Finanza nella ricostruzione del reddito non si è basata su presunzioni, semplici o legali, ma sull’analisi della documentazione acquisita, in particolare la dichiarazione i.v.a. presentata per lo stesso anno di imposta oggetto dell’accertamento ed i questionari inviati ai clienti della società.
1.3. Peraltro, in piena aderenza all’orientamento della giurisprudenza, nella determinazione dei costi il Tribunale del riesame, con soluzione più favorevole al ricorrente, non ha preso in esame gli accertamenti della Guardia di Finanza perché, come risulta dalla motivazione, non erano definitivi: ha determinato i costi in via documentale, proprio mediante la produzione documentale difensiva, mediante l’analisi dei costi risultanti dalla copia del registro I.v.a. 2016 non prodotto nel corso dell’accertamento.
Posto che in questa sede il ricorso è ammissibile solo per violazione di legge, la motivazione dell’ordinanza impugnata è corretta in diritto e non può in alcun modo ritenersi apparente, avendo anzi ben argomentato il percorso logico per la determinazione dell’imposta evasa.
1.4. Quanto poi alla dedotta questione dell’applicabilità dell’art. 220 disp. Att. cod. proc. pen., deve evidenziarsi che nel ricorso si richiama Cass. Sez. 3 n. 6881 del 2008, che però si riferisce all’opposizione all’archiviazione del reato ex art. 372 cod. pen.; le altre sentenze citate (n. 13593 del 12 ottobre 1999, 443 del 1997, 1969 del 1997) non sono state rinvenute negli archivi del ced della Corte di cassazione con i dati forniti.
In materia di attività ispettive di vigilanza di natura amministrativa, il momento a partire dal quale, nel corso di tale attività, sorge l’obbligo di rispettare le garanzie del codice di procedura penale è quello nel quale è possibile attribuire rilevanza penale al fatto, emergendone tutti gli elementi costitutivi, anche se ancora non possa essere ascritto a persona determinata.
1.5. In ogni caso, l’eccezione di inutilizzabilità è del tutto generica non essendo stati indicati gli specifici atti processuali che sarebbero affetti dal vizio: il collegio aderisce all’orientamento per cui l’inutilizzabilità colpisce non il processo verbale nel suo complesso ma il singolo atto compiuto in violazione delle norme processuali.
Cfr. in tal senso Sez. 3, n. 31223 del 04/06/2019, Di Vico, Rv. 276679 – 01, in tema di verifica fiscale, per cui le dichiarazioni etero-accusatorie rese alla Guardia di Finanza dalla persona soggetta all’accertamento amministrativo senza l’osservanza degli artt. 63 e 64 cod. proc. pen. sono utilizzabili nel processo penale perché, al momento in cui erano state rese, non risultava ancora accertato il superamento della soglia di punibilità del reato tributario.
2. Il terzo motivo è del tutto infondato: il sequestro subito dal ricorrente è un sequestro per equivalente mentre la sentenza citata nel ricorso si riferisce, come correttamente rilevato dal Tribunale del riesame, al sequestro in via diretta del profitto costituito dalla somma di denaro ed all’onere della prova della sussistenza del profitto nonostante la fungibilità del denaro.
3. Anche il quarto motivo è manifestamente infondato. Le argomentazioni poste a sostegno del ricorso confermano allo stato degli atti la correttezza della motivazione del Tribunale del riesame, in quanto il ricorrente invoca a sua giustificazione l’inosservanza delle norme fiscali.
4. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di euro 2.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
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