CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 25345 depositata il 7 giugno 2019
Imposte dirette – IRES – Reato per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti – Sanzioni penali
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Taranto, provvedendo, con ordinanza del 12 giugno 2018, sull’appello cautelare proposto da P.D.N. e A.M.M., nei confronti della ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, con cui era stata respinta la loro richiesta di rideterminazione delle somme fino alla concorrenza delle quali era stato disposto il sequestro per equivalente dei loro beni (in relazione al reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, capo 7 della rubrica della provvisoria), con l’esclusione delle somme relative all’imposta Ires relativa agli anni 2009 e 2010 e la conseguente riduzione dell’ammontare del sequestro alla minor somma di euro 204.770,44, con il mantenimento dello stesso solamente su un immobile sito in Palagiano di proprietà della sola M., con la restituzione delle quote della S.r.l. F.I., della S.r.l. S.S. e della S.r.l. P., oltre che delle somme depositate in banca, ha dichiarato inammissibili le doglianze in ordine alla determinazione del profitto del reato contestato agli indagati, in quanto formulate per la prima volta con l’appello cautelare, e ha respinto nel resto l’impugnazione dagli stessi proposta.
2. Avverso tale ordinanza gli indagati hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione, affidato a un unico articolato motivo, mediante il quale hanno denunciato la violazione e l’erronea applicazione delle norme in materia di determinazione dell’imposta sui redditi, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.
Hanno esposto che l’ammontare del profitto del reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, contestato alla M. quale amministratrice della S.r.l. IMM e al D.N. quale amministratore di fatto della medesima società, era stato inizialmente determinato, in relazione agli anni di imposta 2009, 2010, 2011 e 2012, in complessivi euro 841.435,74 (a fronte di imposte evase per complessivi euro 682.454,04); il sequestro per equivalente disposto nei loro confronti in relazione a tale reato, fino alla concorrenza di detta somma, era quindi stato eseguito su un immobile in Palagiano di proprietà della M., nonché sulle quote della S.r.l. F.I., della S.r.l. S.S. e della S.r.l. P. di cui era titolare il D.N. (del valore nominale di complessivi euro 115.000,00), e sulle somme depositate sul conto corrente bancario dello stesso D.N.; il Tribunale di Taranto, in parziale accoglimento della richiesta di riesame avanzata dagli indagati, con ordinanza del 13 aprile 2018 aveva ridotto di euro 550.403,05 l’ammontare del sequestro per equivalente disposto nei confronti della M. e di euro 345.115,00 quello a carico del D.N.; essi avevano successivamente chiesto una ulteriore riduzione di tale sequestro, prospettando l’errata considerazione come profitto del reato dell’imposta IRES dovuta per gli anni 2009 e 2010, non rettificata dalla Agenzia delle Entrate, con la conseguente necessità di ulteriormente rideterminare, riducendolo ancora, il profitto del reato loro contestato, che avrebbe dovuto essere ridotto a euro 118.333,36 per la M. e a euro 204.770,44 per il D.N., ma tale prospettazione era stata disattesa dal Tribunale.
Tanto premesso hanno, anzitutto, censurato la dichiarazione di inammissibilità delle doglianze formulate con l’appello cautelare in ordine alla determinazione del profitto del reato contestato, essendosi limitati a prospettare la corretta applicazione dell’art. 8, comma 2, d.l. 16/2012.
Nel merito hanno ribadito la errata interpretazione di tale disposizione e la conseguente erroneità della determinazione del profitto del reato, incidente sull’ammontare del sequestro per equivalente disposto a loro carico, in quanto gli accertamenti tributari compiuti nei confronti della S.r.l. IMM, amministrata dai ricorrenti, avevano riguardato solamente le imposte sul valore aggiunto e non anche quelle sui redditi, non essendo stata determinata alcuna variazione del reddito d’impresa dichiarato ai fini IRES e del valore della produzione netta ai fini IRAP, in applicazione dell’art. 8, comma 2, d.l. 16/2012, secondo cui non concorrono a formare il reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati. Le somme dovute quale maggiori imposte sul reddito d’impresa (IRES) per gli anni 2009 e 2010 avrebbero, quindi, dovuto essere dedotte dal profitto del reato e, di conseguenza, dalla somma fino alla concorrenza della quale era stato disposto il sequestro per equivalente, che avrebbe pertanto dovuto essere ridotto nel suo ammontare.
Considerato in diritto
1. Il ricorso, congiuntamente proposto dagli indagati, è inammissibile, per mancanza della necessaria specificità, sia intrinseca, sia estrinseca, oltre che a causa della manifesta infondatezza delle censure cui è stato affidato.
2. I ricorrenti, pur prospettando l’errata determinazione del profitto del reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, che dovrebbe, a loro avviso, essere ridotto, mediante l’esclusione delle somme dovute a titolo di IRES per gli anni 2009 e 2010, che sarebbero state indebitamente considerate dal Tribunale in tale determinazione (non essendo state considerate come dovute dalla Agenzia delle Entrate, che non aveva al riguardo rettificato i componenti negativi di reddito, ma solo applicato le sanzioni amministrative di cui all’art. 8, comma 2, d.l. 16/2012), oltre a proporre una censura che attiene, in realtà, a un accertamento di fatto, e cioè alla determinazione del profitto del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, non sindacabile sul piano del merito nel giudizio di legittimità, se non per inadeguatezza, illogicità manifesta e contraddittorietà della motivazione (che, però, non sono deducibili nella materia delle impugnazioni avverso provvedimenti relativi a misure cautelari reali, cfr., ex multis, Sez. U., n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692, e Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013, Gabriele, Rv.254893), hanno del tutto omesso di illustrare l’aspetto della eventuale possibile manifesta sproporzione tra il valore dei beni sequestrati e l’ammontare della somma in relazione alla quale il sequestro per equivalente dovrebbe essere disposto (cioè del profitto del reato, sia pure nella misura inferiore dagli stessi prospettata), con la conseguente necessità di disporne la restituzione parziale, cosicché la censura risulta priva della necessaria specificità intrinseca (non essendo stato illustrato tale aspetto della vicenda, che avrebbe potuto determinare la sussistenza di un interesse a dolersi dell’ammontare della somma fino alla concorrenza della quale è stato disposto il sequestro), ed anche estrinseca (difettando nella doglianza il confronto con tale punto della decisione impugnata, che quindi non è idonea a censurare).
2.1. Benché, infatti, sia indiscusso, in giurisprudenza e dottrina, che, nel caso di sequestro per equivalente, debba sussistere un rapporto di costante dipendenza tra valore del profitto e oggetto del vincolo reale, poiché, altrimenti, la misura reale fonderebbe una indebita duplicazione sanzionatori (cfr. Sez. 2, n. 26340 del 28/02/2018, Ferrara, Rv. 272882; Sez. 3, n. 9146 del 14/10/2015, dep. 04/03/2016, Fundarò, Rv. 266453; Sez. 3, n. 17465 del 22/03/2012, Crisci, Rv. 252380), nel caso in esame i ricorrenti hanno del tutto omesso di considerare tale aspetto e di illustrare l’eventuale sproporzione tra il valore dei beni sequestrati e l’ammontare della diversa somma fino alla concorrenza della quale il sequestro potrebbe, secondo la loro prospettazione, essere disposto, con la conseguente carenza della necessaria concludenza nella censura che hanno proposto, che non è idonea a incidere su tale punto della decisione, cioè sulla proporzione tra il profitto del reato e il valore dei beni sequestrati (non essendo stata contestata la sussistenza dei presupposti per poter disporre il sequestro), dunque sulla ricorrenza di ragioni per ridurre la somma fino alla concorrenza della quale è stato disposto il sequestro in questione.
2.2. La doglianza, oltre che priva della necessaria specificità, risulta anche, come evidenziato, volta a censurare sul piano del merito la determinazione del risparmio di imposta conseguente all’illecito utilizzo di fatture per operazioni inesistenti e, dunque, in definitiva, la determinazione dell’entità del profitto del reato, nella quale il giudice penale è autonomo, posto che la sua verifica dell’ammontare dell’imposta evasa e del dipendente profitto del reato, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, può venire a sovrapporsi o anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dagli organi della amministrazione finanziaria o dinanzi al giudice tributario (cfr. Sez. 3, n. 37335 del 15/07/2014, Buonocore, Rv. 260188; Sez. 3, n. 37094 del 29/05/2015, Granata, Rv. 265160), cosicché i rilievi sollevati sul punto dai ricorrenti, oltre che generici e relativi a un accertamento di fatto, non tengono neppure conto di detta autonomia, essendo fondati esclusivamente sulle diverse valutazioni compiute dalla Agenzia delle Entrate, senza considerare quanto esposto al riguardo dal Tribunale, e risultano, pertanto, manifestamente infondati.
3. Il ricorso deve, in definitiva, essere dichiarato inammissibile, a causa della genericità e della manifesta infondatezza delle doglianze cui è stato affidato.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa dei ricorrenti (Corte Cost. sentenza 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 2.000,00 per ciascun ricorrente.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 ciascuno a favore della Cassa delle Ammende.
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