CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 25446 depositata il 9 settembre 2020
Reati tributari – Sostituto d’imposta – Omesso versamento ritenute fiscali operate ai dipendenti – Beni della società soggetti a vincolo fallimentare – Sequestro preventivo finalizzato alla confisca in via diretta e per equivalente – Compatibilità
Ritenuto in fatto
Con ordinanza del 19 dicembre 2019 in Tribunale di Rieti, in funzione di giudice del riesame dei provvedimenti cautelari reali, ha respinto il ricorso con il quale la Curatela fallimentare della T. Impianti Srl aveva impugnato il provvedimento di sequestro preventivo emesso, in quanto finalizzato alla confisca in via diretta, sui beni della predetta società ed, in quanto finalizzato alla confisca per equivalente, sui beni di C. S., già legale rappresentante della T., in data 16 settembre 2019 dal Gip del Tribunale sabino nell’ambito di un’indagine che vede la predetta C. coinvolta in relazione alla provvisoria imputazione di cui all’art. 10-bis del dlgs n. 74 del 2000, per avere ella omesso, in qualità di sostituto di imposta, il versamento dell’IRPEF da lei trattenuta sui trattamenti economici versati ai propri dipendenti nell’anno di imposta 2014.
Ha precisato il Tribunale che la ricorrente difesa ha, in primo luogo, eccepito la mancata indicazione dei beni da sottoporre a sequestro; subordinatamente ha lamentato la sottoposizione a vincolo dei beni pur in presenza della procedura fallimentare, circostanza questa che avrebbe comunque impedito alla società in questione di avere la disponibilità dei beni sequestrati.
A tali rilievi il Tribunale ha replicato, premessa la individuazione dei beni sequestrati solo al momento della esecuzione della misura, che la soggezione dei beni della società al vincolo fallimentare non fa venire meno il principio della non incompatibilità fra il sequestro e l’attrazione dei beni del fallito alla massa fallimentare e che, peraltro, la misura cautelare è stata disposta anche, per equivalente, in danno dei beni personali della C., in relazione ai quali il vincolo derivato dal fallimento non potrebbe definirsi equivalente a quello derivante dal sequestro penale.
Proprio in considerazione della compatibilità fra le due procedure il Tribunale ha, peraltro, ritenuto opportuno nominare custode giudiziale dei beni sequestrati il curatore del fallimento della T..
Avverso la predetta ordinanza ha interposto ricorso per cassazione la difesa della Curatela fallimentare, articolando tre motivi di impugnazione.
Col primo ha lamentato la violazione di legge per non avere il Tribunale risposto alla censura formulata in sede di riesame riguardante la mancata preventiva individuazione dei beni oggetto di sequestro.
Con il secondo motivo si è rilevato che, nulla essendo stato precisato nel provvedimento genetico di sequestro in merito alla effettiva esistenza di beni da assoggettare in via prioritaria al sequestro finalizzato alla confisca diretta, era stata di fatto rimessa alla autorità che avrebbe dovuto procedere al sequestro il potere di scegliere se eseguire il sequestro direttamente sul profitto del reato ovvero sui beni personali della indagata.
Con il terzo motivo di impugnazione è stata dedotta la violazione di legge in relazione alla esecuzione del sequestro pur nella pendenza della procedura fallimentare, per effetto della quale i beni staggiti già erano stati sottratti alla disponibilità della Società fallita.
Considerato in diritto
Il ricorso, per come proposto è inammissibile.
Preliminare ad ogni valutazione dei motivi di impugnazione formulati dalla parte ricorrente è la questione riguardante la legittimazione ad impugnare i provvedimenti del tipo ora in discorso da parte della Curatela del fallimento della impresa che, in quanto in ipotesi beneficiaria del profitto del reato in relazione al quale sono in corso le indagini preliminari, è stata attinta dal sequestro.
Sul punto può, oramai, ben dirsi sopito il contrasto giurisprudenziale già esistente in seno a questa Corte di cassazione.
Infatti, come è noto, ad un, fino a non molto tempo addietro, ampiamente prevalente orientamento giurisprudenziale, secondo il quale il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca dei beni della società fallita (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 17 marzo 2015, n. 11170, ed ancora, successivamente: Corte di cassazione, Sezione III penale, 7 ottobre 2016, n. 42469; sino a Corte di cassazione, Sezione II penale, 19 giugno 2019, n. 27262), se ne era, successivamente contrapposto un altro, in base al quale, invece, compete al curatore del fallimento la impugnazione del provvedimento di sequestro preventivo gravante sui beni del fallimento, essendo egli istituzionalmente preposto all’amministrazione della massa attiva nell’interesse dei creditori ammessi alla procedura concorsuale, i quali risultano titolari di diritti alla sua conservazione, nella prospettiva della migliore soddisfazione dei propri crediti (Corte di cassazione, Sezione III penale, 29 aprile 2019, n. 17749 e, già prima, Corte di cassazione, Sezione III penale, 10 ottobre 2018, n. 45574).
Su tale contrasto sono nuovamente intervenute, definendolo nel senso favorevole al più recente indirizzo, le Sezioni unite di questa Corte, stabilendo che il curatore fallimentare è legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 13 novembre 2019, n. 45936).
Così risolto il preliminare problema relativo alla legittimazione a ricorrere, è ora possibile esaminare specificamente i singoli motivi di impugnazione proposti dalla ricorrente Curatela fallimentare.
I primi due motivi di impugnazione sono inammissibili. Osserva, infatti, il Collegio che con essi parte ricorrente, reiterando nella sostanza uno dei motivi di impugnazione presentati di fronte al giudice del riesame, ha lamentato, per un verso, che il Tribunale non si sia pronunziato su di esso, omettendo, pertanto, di motivare in ordine ad una questione che era stata dedotto di fronte a lui, e, per altro verso – appunto riformulando di fronte a questa Corte la censura cui non sarebbe stata data risposta in sede di merito – che, non essendo stata motivata la esistenza o meno di beni costituenti il profitto del reato su cui eseguire, in via prioritaria, il sequestro nella sua forma diretta (e non per equivalente sui beni personali della indagata), sarebbe stata affidata agli organi della Polizia giudiziaria che hanno materialmente eseguito il provvedimento la facoltà di scelta se provvedere nel senso del sequestro diretto ovvero nel senso di quello per equivalente.
Stante la connessione logica che, come sarà evidenziato, è esistente fra le due censure, esse possono essere congiuntamente esaminate.
Va prioritariamente valutata la seconda censura.
Sul punto si osserva che questa Corte ha in diverse occasioni osservato che non può formare oggetto di ricorso in sede di riesame la doglianza avente ad oggetto le modalità di esecuzione dei provvedimenti cautelari aventi ad oggetto il sequestro preventivo di un complesso di beni sino alla concorrenza di un determinato valore.
Come, infatti, più volte rilevato da questa Corte, in tema di sequestro preventivo, la determinazione delle modalità di esecuzione della cautela, che si rendano necessarie per garantire il rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, spetta al giudice procedente solo nella fase applicativa della misura stessa, mentre, dopo l’emissione del titolo, compete al predetto giudice la sola valutazione dei presupposti per il mantenimento o la revoca della misura, rientrando nelle prerogative del pubblico ministero ogni questione concernente l’esecuzione del sequestro, salva la possibilità di sollecitare, con ricorso al giudice dell’esecuzione, il controllo di legittimità relativo alle modalità di esecuzione della misura (Corte di cassazione, Sezione III penale, 8 luglio 2016, n. 30405).
Analogamente ha osservato – in altra fattispecie ma sviluppando argomenti che, mutatis mutandis, possono ritenersi applicabili anche alla presente vicenda – questa stessa Corte che oggetto della richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro probatorio, non può essere l’esecuzione del sequestro ma solo il decreto che lo dispone; pertanto, nell’ipotesi in cui la polizia delegata abbia eseguito in quantità eccedenti quanto indicato nel provvedimento o con modalità per altro verso illegittime un sequestro probatorio disposto dal PM, è possibile chiedere a quest’ultimo la restituzione delle cose sequestrate in eccesso, e, contro il provvedimento del PM si può proporre opposizione davanti al giudice per le indagini preliminari, quale giudice della esecuzione del provvedimento in questione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 3 maggio 2017, n. 20912).
Né va trascurato di considerare, ai fini della affermazione della inammissibilità della doglianza, che, il giudice che emette il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca non è tenuto ad individuare concretamente i beni da sottoporre alla misura ablatoria, ma può limitarsi a determinare la somma di denaro che costituisce il profitto o il prezzo del reato o il valore ad essi corrispondente, mentre l’individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al quantum indicato nel sequestro è riservata alla fase esecutiva demandata al pubblico ministero (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 29 novembre 2017, n. 53832).
Sulla base di questi elementi può ben affermarsi la inammissibilità in sede di riesame della censura con la quale la difesa della Curatela fallimentare aveva lamentato il fatto che fosse stato nei fatti demandato all’organo che ha eseguito il sequestro il compito di verificare se questo doveva essere operato nelle forme del sequestro preventivo o per equivalente, dovendo una tale eventuale doglianza del soggetto interessato – quale che ne sarebbe potuto essere il contenuto sostanziale, non apparendo allo stato chiaro l’effettivo interesse che avrebbe potuto sostenerla – essere portata all’attenzione della autorità giudiziaria in prima battuta, nell’ipotesi in cui il sequestro sia stato disposto, in maniera ancipite, prioritariamente nella forma diretta e in via subordinata nella forma per equivalente (cosa che è ben possibile non essendo tenuta l’autorità richiedente ed emittente allo svolgimento di preventive indagini volte a verificare se vi sia la disponibilità patrimoniale per il sequestro diretto prima di provvedere a quello per equivalente, come si desume, fra l’altro, da: Corte di cassazione, Sezione III penale, 15 ottobre 2018, n. 46709) del pubblico ministero che ha eseguito il provvedimento e, in seconda battuta in caso di persistente contrasto, di fronte al Gip che ha adottato il provvedimento quale giudice della sua esecuzione.
La inammissibilità del motivo di ricorso ora esaminato, ridonda anche sulla inammissibilità di quello introdotto per primo dalla ricorrente, posto che, essendo esso svolto in relazione alla omessa motivazione in sede di riesame in ordine alla doglianza precedentemente scrutinata, deve ribadirsi la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il vizio di omessa motivazione su un motivo di impugnazione non ha rilievo, stante la carenza di interesse a coltivare un’impugnazione i cui effetti non condurrebbero a benefici sostanziali verso l’impugnante, laddove il motivo non valutato fosse stato, a sua volta inammissibile o infondato (vedi, infatti, fra le tante: Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 novembre 2019, in cui si legge che è inammissibile, per carenza d’interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado – ma evidentemente il principio vale per ogni provvedimento che definisca un giudizio a contenuto innpugnatorio – che non abbia preso in considerazione un motivo di appello inammissibile ab origine per manifesta infondatezza, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio). Non diversamente deve ritenersi con riferimento all’ultimo motivo di ricorso, essendo questo inammissibile per la genericità della sua esposizione.
Infatti con tale motivo parte ricorrente osserva che, secondo la legge fallimentare, in particolare l’art. 42 di essa, una volta dichiarato il fallimento la curatela acquisisce la disponibilità del beni del fallito e, non essendo più questi nella sua disponibilità da tale momento, gli stessi non potrebbero essere più assoggettati a misure cautelari reali, neppure di natura penale; avrebbe, perciò, errato il Tribunale nel considerare compatibile con il fallimento la esecuzione del sequestro preventivo penale.
Questa essendo la censura formulata dal ricorrente, si osserva che la medesima, impregiudicata ogni altra valutazione in ordine alla sua fondatezza, si caratterizza per essere minata dal vizio della genericità, in quanto carente in ordine alla dimostrazione o quanto meno alla allegazione di un profilo che costituisce il presupposto della stessa esaminabilità della doglianza: il ricorrente non ha, infatti, affatto documentato e neppure, invero, segnalato il fatto che il fallimento della T. Impianti Srl sia stato pronunziato prima della adozione del provvedimento di sequestro preventivo di cui si tratta.
La indeterminatezza di tale profilo comporta, in radice, la inammissibilità della doglianza che in base ad esso è stata articolata.
Alla inammissibilità del ricorso fa seguito la condanna della ricorrente Curatela fallimentare al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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