Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 25870 depositata il 25 giugno 2019
Condominio – Impianti – Incendio colposo – Normativa in materia di sicurezza degli impianti e dei caminetti – Sicurezza sul lavoro – Danni al condominio – Responsabilità del costruttore – Corretta installazione di un camino
Massima
E’ penalmente responsabile il costruttore del condominio per l’incendio colposo del condominio qualora trascuri di accertare la corretta installazione di un camino secondo le regole dell’arte ed a cura di un’impresa installatrice debitamente abilitata secondo l’art. 10 della legge n. 46/1990.
Fatto
1. Il 24/06/2010, in Frabosa Sottana, località Prato Nevoso, in via Omissis, si sviluppava un incendio al condominio Diamant, il cui innesco originava dal caminetto a legna situato nell’appartamento n. 31 a seguito del quale venivano imputati, tra gli altri, del reato di cui agli artt. 40 cpv. e 449 cod. pen., per avere cagionato per colpa l’incendio: E.M., in qualità di amministratore delegato e legale rappresentante della A. Q. S.R.L., impresa committente e costruttrice dell’anzidetto condominio; G.O., in qualità di socio di A. Q. e di amministratore delegato e legale rappresentante della PNS S.P.A., ditta incaricata, anche avvalendosi delle prestazioni di terzi, della posa in opera del caminetto e della canna fumaria;
Colpa consistita, nelle rispettive qualifiche sopra indicate, in negligenza, imprudenza, imperizia nella installazione ovvero nell’avere permesso l’installazione a R.S., acquirente dell’unità immobiliare n. 31, della canna fumaria relativa al caminetto prefabbricato in questione, così a ridosso del tavolato in legno del tetto senza adottare misure di sicurezza di coibentazione conformi alle regole di buone costruzioni, tanto che le fuoriuscenti faville incandescenti, per ricaduta, innescavano l’incendio dapprima sul tetto tavolato, poi all’intero edificio.
2. Il fatto. Intervenuti a seguito di una chiamata al Comando operativo di Cuneo, i Vigili del fuoco constatavano che l’incendio si era già propagato a tutto il tetto del fabbricato (un condominio di sette piani fuori terra) e stava interessando in varia misura anche i tre piani più alti dell’edificio. In fiamme erano anche il rivestimento ligneo delle facciate e i balconi, alcuni dei quali erano completamente in legno, mentre gli altri avevano la soletta in calcestruzzo armato e parapetti in legno. Risultava che l’incendio aveva avuto origine in corrispondenza dell’unità abitativa di R.S. e MP.C., la quale dichiarava di aver acceso il caminetto a legna collocato nel soggiorno verso le 14.30. Poco più tardi la figlia si accorgeva della presenza di fiamme nell’interno della canna fumaria, in corrispondenza della sua intersezione con il soffitto a perline e più precisamente nella zona sottostante la “testa di camino”, ovvero l’involucro esterno in lamiera, posto sulla falda del tetto, a protezione della canna fumaria dagli agenti atmosferici nel tratto terminale. Il Comando dei Vigili del fuoco, formulate ipotesi sullo sviluppo dell’incendio, concludeva sostenendo che l’evento potesse essere ricondotto «a fattori quali carenza in fase progettuale e/o costruttiva del complesso costituito dal generatore di calore a legna e dal relativo sistema di evacuazione dei fumi ovvero ad una cattiva conduzione dell’impianto».
3. In sede di giudizio abbreviato, veniva disposta, ai sensi dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen., perizia in ordine alle cause dell’incendio, con particolare riferimento al rispetto della normativa in materia di sicurezza degli impianti e dei caminetti. Sintetizzati i fatti relativi alla progettazione e costruzione del condominio Diamant, il perito, arch. F., elencate le cause concorrenti dell’Incendio del condominio, affermava, in sostanziale condivisione delle già richiamate conclusioni dei Vigili del fuoco, che l’incendio era stato determinato dall’imperizia del montatore della canna fumaria che non aveva provveduto ad una corretta coibentazione tra la stessa e le pareti lignee adiacenti». Il perito, poi, ricordava le prescrizioni antinfortunistiche cui occorreva avere riguardo all’epoca dei fatti – in specie, la legge n. 46/1990 – evidenziando, in particolare, quanto alle dimensioni dell’impianto, che, pur non essendo necessaria la redazione del progetto da parte di professionisti iscritti in appositi albi, era invece obbligatorio che, al termine dei lavori, l’impresa installatrice – che deve essere abilitata ai sensi dell’art. 2 L. n. 46/1990 – rilasciasse al committente la dichiarazione di conformità degli impianti realizzati. Ricordava poi i requisiti di installazione di apparecchi generatori di calore, i requisiti prescritti per il camino o canna fumaria e le caratteristiche costruttive.
Richiamati i contenuti degli interrogatori degli imputati e delle diverse s.i.t., il Gup riteneva che da questi e dalle altre testimonianze rese non risultasse in alcun modo chi avesse provveduto alla costruzione del caminetto e della relativa canna fumaria dalla quale era scaturito l’incendio; né dalla documentazione acquisita agli atti si ricavava qualche informazione al riguardo, non risultando che fosse stato dato un incarico ad una ditta specializzata e mancando una certificazione di conformità. In particolare, non si poteva affermare che la posa in opera del caminetto fosse stata effettuata dalla PNS (di cui era amministratore unico, si ricorda, G.O.), potendosi unicamente evincere, dalle dichiarazioni dell’ex dipendente GU.B., che la PNS si fosse limitata a mandare solo alcuni operai, non impiegati nella stagione estiva agli impianti di risalita, a lavorare nel cantiere dell’A. Q. S.R.L., con mansioni del tutto generiche. Tutti i soggetti interessati che avevano partecipato alla costruzione dell’edificio, come l’imputato G.O., negavano di essersi occupati delle canne fumarie e, quindi, in mancanza di altre indicazioni, la sentenza di primo grado concludeva che non potesse essere attribuita alla PNS e a G.O., quale amministratore della stessa, l’esecuzione dell’opera.
3. Quanto alla responsabilità di E.M., il Gup – premesso che da tutta la documentazione agli atti, la A. Q. (di cui la PRATO NEVOSO COSTRUZIONI era socia di maggioranza e G.O. socio di minoranza) risultava essere la società committente dei lavori del condominio Diamant – la riteneva provata, perché in quanto amministratore delegato della predetta A. Q. era tenuto ad informarsi sulla normativa esistente e ad affidare (o comunque a vigilare perché venissero affidati) i lavori di installazione del caminetto e della canna fumaria, ai sensi dell’art. 2 della I. n. 46/90, ad un’impresa abilitata dalla quale pretendere poi il certificato di conformità previsto dalla medesima legge. Il giudice, dichiarato dunque colpevole E.M., lo condannava alla pena (sospesa) di anni uno e mesi quattro di reclusione, disponendone l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per il periodo della pena principale.
Lo condannava, infine, al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili costituite, rimettendole davanti al giudice civile per la valutazione del quantum, e liquidando una provvisionale di euro 5.000 a favore delle parti civili che ne avevano fatto domanda, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili.
La responsabilità dell’G.O. veniva invece esclusa perché non risultava provato che questi svolgesse le funzioni di amministratore di fatto di A. Q. S.R.L. e che avesse, in quanto tale, un autonomo dovere di controllo sullo svolgimento dei lavori, oltre a non essere stato provato che fosse stata la PNS S.P.A. a provvedere all’installazione del caminetto e della canna fumaria della famiglia R.S..
5. La Corte di appello di Torino, in accoglimento dell’appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cuneo, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato G.O. responsabile del reato di incendio colposo per avere, nella menzionata qualità di amministratore della PNS, ordinato ai dipendenti di quest’ultima di eseguire i lavori di installazione del camino e della canna fumaria che hanno originato l’incendio, pur trattandosi di soggetti non abilitati e comunque senza curarsi che gli stessi eseguissero i lavori a regola d’arte e osservando le norme tecniche di sicurezza più sopra ricordate. Ha conseguentemente irrogato al predetto G.O. la pena di mesi otto di reclusione, con i doppi benefici.
Quanto ad E.M., la sentenza di appello, confermandone la responsabilità, ne riduceva tuttavia la pena in considerazione della corretta condotta di vita anteatta e lo svolgimento di regolare attività lavorativa, concedendogli altresì il beneficio della non menzione, fermo restando quello della sospensione condizionale della pena, già concessa.
Con il riconoscimento della responsabilità penale di G.O. e la conferma di quella di E.M., la Corte di appello ha altresì condannato i due imputati in solido a risarcire i danni patrimoniali e non cagionati dal reato alle parti civili, da liquidarsi in separato giudizio e a corrispondere a ciascuna delle parti civili una provvisionale di euro 5.000, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle stesse in primo e in secondo grado.
6. Avverso la prefata sentenza di appello ricorrono per cassazione entrambi gli imputati.
7. Il difensore di E.M. articola tre motivi di ricorso.
7.1. Con il primo, deduce violazione degli artt. 63, comma 2 e 191 cod. proc. pen e, in ogni caso degli artt.192 e 533, comma 1, nonché degli artt. 40 e 43 cod. pen. in relazione alla ritenuta prova «oltre ogni ragionevole dubbio» della penale responsabilità del E.M. in ordine al reato di cui all’art. 449 cod. pen.; mancanza di motivazione e travisamento della prova. La Corte di appello ha confermato la responsabilità del E.M. con motivazione che si relaziona agli argomenti addotti ex novo a sostegno della condanna pronunciata nei confronti del coimputato G.O.. Si legge, infatti, in sentenza, che la condotta colposa dell’Imputato risiede nell’avere affidato l’installazione dei camini e delle canne fumarie ad un’impresa priva delle necessarie abilitazioni «identificata, per le ragioni già viste sopra esaminando la posizione del coimputato G.O., nella PNS s.p.a.». L’individuazione della PNS come l’impresa che realizzò il caminetto e la canna fumaria si rivela indispensabile per giustificare la conferma della responsabilità del E.M.. Il ragionamento sul punto del giudice di appello appare tuttavia viziato dalla violazione delle norme processuali evocate. Solo in seguito alle testimonianze assunte in appello di G.B., GU.B. e R.S., la Corte del merito ha potuto (erroneamente) ricondurre in termini di certezza la realizzazione del manufatto in questione e confermare la condanna del ricorrente per aver affidato tale opera all’impresa de qua. Il principale novum è senza dubbio rappresentato dalle dichiarazioni rese dal teste GU.B.. Risultava già accertato in primo grado che il GU.B. era un dipendente della PNS ed avesse lavorato in quel cantiere. L’unico, rilevante, tema ancora da chiarire rimaneva quello relativo ad un ipotetico intervento diretto del medesimo (o di altri dipendenti della PNS) nell’installazione di caminetto e della canna fumaria. Secondo le stesse prospettazioni offerte dal pubblico ministero nel suo atto di appello, tale circostanza doveva ritenersi già provata alla lettura delle s.i.t. dallo stesso rese. La risposta che questi infatti forniva (di non poter escludere, né confermare, di averlo installato egli direttamente) avrebbe dovuto leggersi come «più di una piena ammissione, posto che il teste, dopo l’esteso incendio distruttore di buona parte del grande caseggiato, non poteva certo ammettere di essere stato lui l’installatore della canna fumaria, quanto meno per escludere eventuali corresponsabilità proprie con quelle del suo datore di lavoro». Di tal che, concludeva l’Accusa, «la sua riposta apparentemente dubbiosa, vale, in tale contesto, ben più di una confessione ed essa vale almeno a coinvolgere inevitabilmente la PNS». In tale contesto, si osserva, la decisione di escutere ex art. 603, comma 3- bis, cod. di rito, il “teste” GU.B. non poteva non tenere conto dei gravi indizi di reità dai quali tale soggetto era già stato attinto. La violazione dell’art. 63, comma 2, cod. proc. pen., comporta, ai sensi dell’art. 191 cod. proc. pen., l’inutilizzabilità erga omnes della testimonianza del GU.B.. Peraltro, tutti i testi escussi in appello non erano soggetti disinteressati alle sorti del processo in quanto tutti potenziali indagati/imputati. Il difensore evidenzia poi come le dichiarazioni di GU.B. abbiano vieppiù assunto nello sviluppo della motivazione contorni sempre più definiti che travisano le sue originarie affermazioni. Dalle anzidette dichiarazioni, infatti, si sarebbe potuto esclusivamente ricavare che il medesimo aveva preso parte all’installazione di alcuni camini, occupandosi maestranze diverse della posa in opera degli altri. Le giustificazioni fornite dal teste G.B. non sono quelle riportate in sentenza perché egli non ha mai riferito di aver appreso direttamente dai soggetti coinvolti nell’esecuzione dei lavori che la ditta incaricata della posa in opera del caminetto e della canna fumaria fosse la PNS. Nelle s.i.t., infatti, il G.B. si era limitato ad affermare che quei dati, in suo possesso, non erano oggettivi, essendone egli venuto a conoscenza durante l’espletamento del suo incarico e che la società A. Q. non aveva alcun dipendente che si occupasse dei lavori edili che, quindi, subappaltava ad altre ditte. Che fosse stata la PNS ad installare i manufatti in questione il G.B. lo ha semplicemente dedotto, partendo, peraltro, dal presupposto, errato in fatto, che nel cantiere avessero operato esclusivamente la A. Q. e la PNS. Sorprende, pertanto, l’assenza di qualsivoglia cenno, anche in sentenza oltre che nelle citate testimonianze, alla ditta C.T.I. di B.S., sicuramente dotata delle necessarie abilitazioni alla posa in opera di camini e canne fumarie perché installò l’intero impianto termo-idraulico dell’edificio attinto dall’incendio. L’impugnata sentenza nulla poi dice in ordine all’individuazione dell’impresa affidataria dei lavori di cui si tratta.
7.2. Con la seconda doglianza, si eccepisce violazione dell’art. 43 cod. pen. in relazione alla legge n. 46/1990 e manifesta mancanza della motivazione sul punto. I giudici del merito hanno addebitato al E.M. la colpa specifica costituita dalla inosservanza delle disposizioni della citata legge mentre la contestazione era costruita in termini di mera colpa generica (“regole di buone costruzioni”). Le sentenze di merito non hanno effettuato, al riguardo, una rigorosa analisi in merito all’applicabilità al caso concreto delle disposizioni normative a cui l’imputato avrebbe dovuto attenersi. E allora, già dalla lettura dell’art. 1, lett. c), L. n. 46/90 emerge che la legna – combustibile dal quale era alimentato il camino – non possa certo rientrare nella definizione di “fluido” ivi contemplato.
7.3. Il terzo motivo investe il trattamento sanzionatorio per mancanza di motivazione sulla valutazione degli elementi utili per il riconoscimento delle circostanze di cui all’art.62-bis, cod. pen.
8. Quattro i motivi sollevati dal difensore di G.O., in parte coincidenti con quelli dell’imputato E.M..
8.1. Con il primo, deduce l’inosservanza di norma processuale stabilita a pena di inutiiizzabilità in relazione all’art. 63, comma 2 e 191 cod. pen., con riguardo alla testimonianza, assunta in appello, di GU.B. di cui si eccepisce l’inutilizzabilità per le medesime ragioni illustrate con riferimento al E.M.. In particolare, il difensore di G.O. sottolinea la decisività della deposizione del GU.B. rispetto alla decisione di riforma dell’assoluzione, evidenziando, per non incorrere in una ipotesi di aspecificità del ricorso, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”. Al riguardo, afferma come sia del tutto evidente il valore decisivo che l’impugnata sentenza attribuisce alle dichiarazioni del GU.B., il quale non solo avrebbe ammesso di svolgere la funzione di capo cantiere «dirigendo e coordinando le maestranze che lavoravano nell’edificio del futuro condominio Diamant»; non solo avrebbe proposto all’acquirente dell’unità immobiliare l’acquisto del caminetto da cui si sarebbe propagato l’incendio; ma, soprattutto, «pur cercando ancora di minimizzare il suo ruolo nella vicenda, all’evidente fine di evitare sue possibili responsabilità, ha infatti modificato le inverosimili dichiarazioni rese ai Carabinieri e ritenute decisive dal primo giudice, secondo le quali svolgeva, per conto di PNS, solo mansioni generiche […] e ha ricordato di aver svolto un ruolo di coordinamento delle maestranze (direttamente o indirettamente) alle dipendenze della PNS spa e di essersi occupato, in quella veste, del collocamento dei camini degli alloggi e dell’installazione delle canne fumarie».
Nelle anzidette affermazioni – che nella trama della motivazione rivelerebbero un dato fattuale altrimenti ignoto al processo perché non ricavabile da altre fonti – la sentenza impugnata rinviene il fondamento probatorio per attribuire l’installazione del manufatto, responsabile dell’Incendio, alla società amministrata dal ricorrente G.O., superando il difetto di prova rilevato dal primo giudice.
8.2. Con il secondo motivo, si eccepisce l’inosservanza di norma processuale stabilita a pena di nullità in reazione all’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., in relazione alla mancata rinnovazione istruttoria per l’audizione dei testimoni M.O. e B.M., e la manifesta illogicità. È infatti gravemente illogico l’assunto con cui la sentenza esclude che l’installazione del caminetto possa ascriversi ad altre imprese subappaltatrici, pacificamente presenti in cantiere, solo perché i rispettivi titolari e responsabili di cantiere hanno escluso di essersene occupati. Sul giudice di appello gravava l’obbligo di rinnovare l’assunzione di tali prove dichiarative, decisive per il giudizio di responsabilità perché hanno contribuito a determinare le difformi decisioni dei giudici del merito.
8.3. La terza doglianza censura la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione, nonché travisamento delle risultanze processuali in relazione all’art. 6 CEDU e all’art. 533, comma 1, cod. proc. pen. La sentenza della Corte torinese non ha rispettato il cosiddetto dovere rafforzato di motivazione, così come delineato negli anni dalla giurisprudenza di legittimità, la quale qualifica come illegittime le pronunce che dichiarano la colpevolezza in luogo di una precedente assoluzione nel caso in cui il giudice del gravame si limiti a ritenere maggiormente persuasiva una lettura del materiale probatorio che porti a conclusioni contrastanti con l’esito precedente. Al riguardo, gli argomenti spesi dalla pronuncia di appello per sostenere la responsabilità di G.O. sono due: la PNS aveva curato gli scavi preliminari alla costruzione dell’edificio; il ricorrente è socio dell’impresa A. Q., committente dei lavori di costruzione dell’edificio incendiato, ed aveva partecipato ai sopralluoghi successivi al fatto.
Lo standard probatorio del giudice di appello è rappresentato dalla mera plausibilità dell’ipotesi fatta propria, senza tuttavia impegnarsi a dimostrare perché la soluzione adottata debba considerarsi l’unica possibile e senza confutare gli elementi posti a base della decisione assolutoria. In tal modo, la Corte territoriale finisce per confondere il tema di prova decisivo (chi avesse installato uno specifico caminetto) con uno diverso, ovvero il possibile contributo del testimone GU.B. alla posa in opera di altri camini, pure inclusi nel progetto che ne prevedeva tredici. Le dichiarazioni rese in appello da costui – anche a voler prescindere dalla denunciata inutilizzabilità – non si riferiscono mai all’installazione del camino o della canna fumaria indicate nell’imputazione ma fanno generico riferimento alla mera possibilità di averne montato «qualcuno». Così, la circostanza per cui l’oggetto sociale della PNS S.P.A. comprendesse anche attività edilizie era stata valutata in primo grado, ma giudicata neutra rispetto al thema probandum. La Corte di appello, limitandosi ad una diversa lettura del dato probatorio, si fa solo portatrice di un diverso punto di vista. L’altra circostanza, per cui sarebbe da attribuirsi al GU.B., dipendente di PNS, la proposta (rivolta allo R.S.) dell’acquisto di un modello diverso di caminetto, è affermata in sentenza travisando la relativa risultanza processuale, perché il soggetto interessato nega il fatto. Altrettanto si dica per il valore decisivo attribuito dalla Corte del merito alla deposizione del geometra G.B. il quale avrebbe «poco credibilmente negato di aver appreso direttamente dai diversi soggetti coinvolti nell’esecuzione dei lavori che la dita incaricata della posa in opera del caminetto e della canna fumaria fosse stata la PNS spa il cui amministratore unico era G.O.», avendo inviato ai Vigili del fuoco comunicazioni scritte con cui attribuiva a tale società l’installazione del manufatto. Si tratta, ancora una volta, di valutazione del medesimo contributo testimoniale diametralmente difforme rispetto a quella di primo grado in cui il secondo giudice si è affidato ad argomentazioni soggettive la cui forza persuasiva non è in grado di sovvertire la motivazione della pronuncia assolutoria.
8.4. Con il quarto motivo si lamenta l’erronea applicazione degli artt. 62-bis e 133 cod. pen. in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche e la manifesta illogicità della motivazione. Gli argomenti valorizzati al riguardo dalla Corte di appello (elevato grado della colpa, entità delle conseguenze dannose, insufficiente comprensione del disvalore della condotta) mal si conciliano con la natura colposa dell’illecito. Peraltro, i medesimi fattori avevano guidato il giudice di appello nella commisurazione della pena ex art. 133 cod. pen. Ne risulta violato il principio del ne bis in idem sostanziale.
Diritto
1. Si deve preliminarmente rilevare l’intervenuta estinzione del reato ascritto a ciascuno degli odierni imputati per intervenuta prescrizione maturata in data successiva alla sentenza di appello. Nel caso in disamina, tuttavia, stante la presenza delle parti civili, permane l’esigenza di valutare compiutamente i motivi di censura dedotti dai ricorrenti ai fini delle statuizioni civili, con possibili effetti anche sulla decisione ai fini penali, qualora venga riscontrata l’insussistenza dei presupposti oggettivi o soggettivi del reato, e quindi sia accertata la mancanza di responsabilità penale, anche per insufficienza o contraddittorietà delle prove (secondo il noto insegnamento di Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 24427301).
2. Il comune motivo, relativo alla violazione degli artt. 63, comma 2 e 191, cod. proc. pen., è infondato. Le Sezioni Unite hanno, infatti, condivisibilmente ritenuto che, allorquando venga in rilievo l’attribuzione al dichiarante della qualità di indagato o di persona informata sui fatti, spetta al giudice il potere di verificare, in termini sostanziali – al di là, quindi, del riscontro di indici formali, come l’intervenuta iscrizione sul registro notizie di reato – l’ascrivibilità allo stesso dell’una o dell’altra qualità e il relativo accertamento, se congruamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U., n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246584). Così come si è chiarito che la sanzione di inutilizzabilità erga omnes postula che, a carico dell’interessato, siano già stati acquisiti, prima dell’escussione, indizi non equivoci di reità, come tali conosciuti dall’autorità procedente, non rilevando, a tale proposito, eventuali sospetti od intuizioni personali dell’interrogante (Sez. U., n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv.243416). L’inutilizzabilità assoluta, ai sensi dell’art. 63, comma 2, cod. proc. pen., richiede quindi l’originaria esistenza, a carico dell’escusso, di precisi, anche se non gravi, indizi di reità, che non possono automaticamente inferirsi dal solo fatto che il dichiarante risulti essere stato, in qualche modo, coinvolto in vicende potenzialmente suscettibili di dar luogo alla formulazione di addebiti di carattere penale a suo carico. Occorre invece che le predette vicende, così come percepite dall’autorità inquirente, presentino connotazioni tali da indurre a ravvisare concretamente la sussistenza di elementi di spessore indiziante sufficiente ad attribuire al soggetto la qualità di indagato (Sez. 6, n. 28110 del 16/04/2010, PG e PC in proc. Spiezia, Rv. 247773; Sez. 3, n. 21747 del 26/04/2005, Principale, Rv. 231995). Solo in tal caso il soggetto può ritenersi irritualmente sentito come persona informata sui fatti, giacché avrebbe dovuto essere interrogato ab origine in qualità di imputato o di indagato, e dunque le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate né contra se né contra alios. Qualora, invece, gli elementi di reità emergano soltanto nel corso dell’audizione o addirittura nelle ulteriori fasi dell’iter giudiziale, le dichiarazioni rese dal soggetto escusso, a norma dell’art. 63, comma 1, cod. proc. pen., non sono utilizzabili contro quest’ultimo ma lo sono appieno nei confronti dei terzi.
Il Collegio non ignora l’esistenza di un indirizzo contrario e più formalista (Sez. 2, n. 6026 del 27/01/2016,Giuliano, Rv. 266254; Sez. 2, n. 40575 del 24/09/2014, Carpentieri, Rv. 260362), a mente del quale la qualità di indagato non può essere stabilita dal giudice in via presuntiva, andando invece desunta dall’iscrizione nell’apposito registro a seguito di specifica iniziativa posta in essere dal pubblico ministero o da un fatto investigativo, come l’arresto o il fermo, che qualifichi di per sé il soggetto come persona sottoposta ad indagini.
Ritiene, tuttavia, di ribadire il primo indirizzo, più sopra illustrato e recentemente espresso da questa Sezione (Sez. 4, n. 0786 del 18/07/2018, D.P.M. P. SIMONE, Rv. 273926), secondo cui, come si è detto, la verifica della sussistenza della qualità di persona indagata va condotta non secondo un criterio formale (esistenza di notizia criminis, iscrizione nel registro degli indagati) ma secondo il criterio sostanziale della qualità oggettivamente attribuibile al soggetto in base alla situazione esistente nel momento in cui le dichiarazioni sono state rese (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, cit.). Tale approdo interpretativo valorizza, peraltro, la eventuale emersione di elementi indiziari a carico del dichiarante capaci di modificare lo statuto della prova dichiarativa ad esso riferibile. In assenza di indici formali, come l’iscrizione, cui ancorare la definizione dello statuto di prova testimoniale da riferire al dichiarante, diventa centrale la valutazione giudiziale sulle emergenze processuali ritenute indicative del coinvolgimento nel fatto per cui si procede di chi dichiara. Tale delibazione, tuttavia, è pienamente ascrivibile alle valutazioni di merito, poiché la verifica giudiziale della qualità di indagato, nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, si attua in termini sostanziali, sottraendosi pertanto il relativo accertamento, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, cit.) Sez. 2, n. 8402 del 17/02/2016, Gjonaj, Rv. 267729).
In conclusione sul punto: l’inutilizzabilità assoluta, ai sensi dell’art. 63, comma 2, cod. proc. pen., delle dichiarazioni rese da soggetti che, sin dall’inizio, avrebbero dovuto essere sentiti in qualità di persone sottoposte alle indagini o di imputati, richiede che a carico di questi si appalesi l’originaria esistenza di precisi, anche se non gravi, indizi di reità. Si tratta, tuttavia, di condizione che non può automaticamente farsi derivare dal solo fatto che i dichiaranti risultino essere stati in qualche modo coinvolti in vicende potenzialmente suscettibili di dar luogo alla formulazione di addebiti penali a loro carico, occorrendo invece che tali vicende, per come percepite dall’autorità inquirente, presentino connotazioni tali da non poter formare oggetto di ulteriori indagini se non postulando necessariamente l’esistenza di responsabilità penali a carico di tutti i soggetti coinvolti o di taluni di essi (Sez. 6, n. 32712 del 11/04/2014, Rolfo, Rv. 259817).
Nel caso in disamina, i giudici del merito hanno ritenuto che, a carico di GU.B., non fossero ravvisabili precisi indizi di reità, attribuendogli, in conseguenza, la qualità di indagato con le relative garanzie previste per la sua audizione. Le dichiarazioni dal GU.B. rese, sia ai Carabinieri che in sede di rinnovazione istruttoria, di cui dà ampio conto la sentenza impugnata, sono apparse ad entrambi i giudici del merito come elementi di significazione dimostrativa troppo incerta e labile per determinare a carico dello stesso l’attribuzione dell’anzidetta qualità.
In sede di legittimità, peraltro, come si è più sopra ricordato, non è possibile effettuare le indagini di fatto necessarie per valutare la plausibilità di tale inquadramento.
Da quanto detto scaturisce, quindi, la piena utilizzabilità delle dichiarazioni di GU.B. il quale aveva affermato, così come peraltro riferito dal direttore dei lavori, arch. Giovanni Luigi M., di aver svolto funzioni di capo cantiere, dirigendo e coordinando le maestranze che lavoravano nel cantiere del futuro edificio del condominio Diamante e che, nella deposizione resa in sede di rinnovazione istruttoria, aveva sostenuto che, insieme agli operai da lui coordinati, si occupò di portare i camini negli alloggi e di installarli, così modificando l’iniziale dichiarazione resa ai Carabinieri il 07/04/2014 nella quale aveva affermato di non essere in grado di affermare o di escludere di essersi occupato delle canne fumarie.
Peraltro, indipendentemente dalle anzidette dichiarazioni del GU.B., ai fini della prova di resistenza, la sentenza impugnata fonda la dichiarazione di responsabilità, quanto a G.O., sul complesso di elementi probatori che sinteticamente si richiamano: l’oggetto sociale della PRATO NEVOSO, come risultante dalla visura camerale, comprensivo anche de “… la produzione e vendita di calore ed energia elettrica nonché le attività edilizie in genere…”-, le dichiarazioni di R.S., proprietario dell’alloggio da cui scaturiva l’incendio, secondo cui il GU.B., in veste di capo cantiere, gli aveva proposto di installare un camino di maggior pregio rispetto a quello già previsto nell’originario progetto di costruzione dello stabile; le affermazioni di M.O., responsabile del Consorzio C.R.C. che aveva realizzato le opere in cemento armato, il quale, sentito dai Carabinieri il 05/04/2014, riferiva che, nella fase successiva ai lavori di costruzione dello stabile, all’interno dello stesso, operavano le maestranze della PNS; la testimonianza di M.B., titolare della ditta PRATONEVOSO – che realizzò (su incarico della prima) alcuni lavori di muratura interna, tramezze, intonaco, pavimentazione e rivestimenti esterni in pietra – il quale, sentito dai Carabinieri il 07/04/2014, escludeva di essersi occupato dei camini e delle canne fumarie e dichiarava che, nel periodo in cui operò nell’edificio in questione, erano all’opera anche diversi operai della PNS; l’accertata presenza, alla luce delle dichiarazioni dei titolari delle altre ditte che ivi operarono, di dipendenti della PRATO NEVOSO nell’anzidetto cantiere ai quali G.O. dava disposizioni; le comunicazioni, a mezzo mail, di G.B. al Comandante dei Vigili del fuoco di Cuneo dei dati relativi alla società costruttrice dello stabile (la A. Q. e della ditta incaricata della posa in opera del caminetto e della canna fumaria che indicò nella PNS. Si tratta, come si vede, di emergenze che superano positivamente la prova di resistenza della sentenza di appello quanto alla affermata responsabilità dell’imputato G.O..
3. La difesa di E.M. afferma che le dichiarazioni del GU.B. sono state progressivamente travisate nello sviluppo della motivazione e che altrettanto é avvenuto per il G.B., le cui menzionate indicazioni riguardo alla società incaricata della installazione dei camini e delle canne fumarie altro non sono che mere deduzioni, non certo dati obiettivi; lamenta, poi, che la sentenza non abbia accennato alla ditta C.T.I. di B.S.. Giova ricordare che il travisamento della prova, come vizio della motivazione, si sostanzia nell’incompatibilità tra l’informazione posta alla base del provvedimento impugnato e l’informazione sul medesimo punto esistente negli atti processuali [Sez. 1, n. 53600 del 24/11/2016 (dep. 27/11/2017), Sanfilippo e altro, Rv. 271635]; non comporta, dunque, di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione ma di verificare se questi elementi esistano. Per assumere rilievo in sede di legittimità, il travisamento della prova deve, da un lato, emergere dall’obiettivo e semplice esame dell’atto , specificamente indicato, dal quale deve trarsi, in maniera certa ed evidente, che il giudice del merito ha travisato una prova acquisita al processo, ovvero ha omesso di considerare circostanze risultanti dagli atti espressamente indicati; dall’altro, esso deve riguardare una prova decisiva, nel senso che l’atto indicato, qualunque ne sia la natura, deve avere un contenuto da solo idoneo a porre in discussione la congruenza logica delle conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito (Sez. 4, 14/07/2016, n. 40036). È comunque esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione possa essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482). La denuncia di minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione (ma che non siano inequivocabilmente muniti di un chiaro carattere di decisività) non costituisce vizio della motivazione, poiché solo l’esame del complesso probatorio, entro il quale ogni elemento sia contestualizzato, consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi, oppure la oro ininfluenza ai fini della completezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione (Sez. 2, n. 9242 del 08/02/2013, Reggio, Rv. 254988).
In realtà, a ben vedere, il ricorrente prospetta una mera reinterpretazione delle risultanze processuali che si risolve in una censura in fatto della decisione impugnata, non consentita in questa sede di legittimità, oltre ad essere, per quanto più sopra illustrato, manifestamente infondata.
4. Manifestamente infondata è la seconda doglianza prospettata dalla difesa E.M. con cui eccepisce violazione dell’art. 43 cod. pen. in relazione alla legge n. 46/1990 e manifesta mancanza della motivazione sul punto, per avere i giudici del merito addebitato al E.M. la colpa specifica costituita dalla inosservanza delle disposizioni dell’anzidetta legge mentre la contestazione era costruita in termini di colpa generica. La Corte territoriale, investita del relativo motivo di appello, ha sostenuto non esservi alcuna discrasia tra la condotta addebitata al prevenuto nel capo di imputazione e quella ritenuta dal giudice di primo grado stante che al E.M., nella sua qualità di amministratore delegato della A. Q. S.R.L., è stato contestato di avere installato o permesso ad altri di installare, in violazione delle regole di buona costruzione, nell’alloggio n. 31, acquistato da R.S., la canna fumaria che ha originato il sinistro. Il Gup aveva ravvisato il profilo di colpa ascritto al E.M. proprio nell’aver affidato questi lavori ad una ditta non abilitata, la quale non aveva affatto ottemperato alle norme tecniche di sicurezza richiamate dalla L. n. 46/1990, condotta correttamente ritenuta dal giudice di appello indubbiamente riconducibile a quella di cui al capo di imputazione.
Per pacifica giurisprudenza (ex multis, Sez. 4, n. 53455 del 15/11/2018, Galdino De Lima Rozangela C/ Castellano Stefano, Rv. 274500; Sez. 4, n. 18390 del 15/02/2018, P.C. in proc. Di Landa, Rv. 273265; Sez. 4, n. 35943 del 07/03/2014, Denaro e altro, Rv. 260161; Sez. 4, n. 51516 del 21/06/2013, Miniscalco e altro, Rv. 257902), in tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa.
Analogamente, non sussiste la violazione dell’anzidetto principio anche qualora, nel capo di imputazione, siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa ed il giudice abbia affermato la responsabilità dell’imputato per un’ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata, ma rientrante nella colpa generica, giacché il riferimento alla colpa generica, anche se seguito dall’indicazione di un determinato e specifico profilo di colpa, pone in risalto che la contestazione riguarda la condotta dell’Imputato globalmente considerata, sicché questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione del fatto di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata (Sez. 4, 16 settembre 2008, Tomietto).
Il principio di correlazione tra sentenza e accusa contestata, invero, è violato soltanto quando il fatto ritenuto in sentenza si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale, nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, posto così, a sorpresa, di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto la possibilità di effettiva difesa. Tale principio non è invece violato quando nei fatti, contestati e ritenuti, si possa agevolmente individuare un nucleo comune e, in particolare, quando essi si trovano in rapporto di continenza (cfr., tra le tante, Sez. 4, 29 gennaio 2007, Di Vincenzo). Ciò che nella specie deve ritenersi, non potendosi revocare in dubbio che gli imputati si siano trovati a rispondere della loro condotta, ritenuta colposa, senza che ne siano derivati pregiudizi per le loro scelte difensive. Non è quindi dubitabile, che il richiamo operato agli obblighi imposti dalla L. n. 46/1990, rispetto ad una ricostruzione fattuale della vicenda qui non sindacabile, non si ponga affatto in posizione di sostanziale difformità rispetto al contestato profilo di colpa generica.
Quanto all’asserita (da parte del ricorrente E.M.) non applicabilità al caso di specie delle disposizioni della legge n. 46 del 5 marzo 1990 (Norme per la sicurezza degli impianti), l’avversata sentenza, correttamente ne afferma la inosservanza laddove, in particolare, ricorda che la committente A. Q. non era in possesso della dichiarazione di conformità alle norme tecniche di sicurezza dell’impianto tecnico di riscaldamento costituito dal camino nell’appartamento ove si è originato l’incendio, dalla relativa canna fumaria e dal comignolo soprastante; e che l’installazione di impianti di riscaldamento, indipendentemente dalla mancata esplicita previsione, nella legge richiamata, dei casi di caminetti a legna (anche tenuto conto che il perito aveva evidenziato che il caminetto, con la relativa canna fumaria, è un impianto di produzione di calore “composito” e come tale va trattato ai sensi della L. n. 46/1990), deve essere riservata ad imprese regolarmente iscritte in apposito registro o albo, cui spetta eseguire gli impianti a regola d’arte, secondo le tecniche di sicurezza e rilasciare al termine dei lavori, come si è accennato, una dichiarazione di conformità degli impianti alle norme tecniche di sicurezza (nel caso in esame, la norma UNI 10683, relativa ai requisiti di installazione di generatori di calore alimentati a legna o da altri biocombustibili solidi, in vigore dal settembre 2005). La sentenza richiama altresì la violazione dell’art. 10 della citata L. n. 46/1990, il quale prevede che i committenti e i proprietari sono tenuti ad affidare i lavori di installazione degli impianti di riscaldamento a ditte abilitate: incombenti a cui la società A. Q., rappresentata dall’odierno imputato E.M., non aveva affatto provveduto, avendo, al contrario, affidato i detti lavori a soggetti (identificati nelle maestranze dirette dal capo cantiere GU.B. che operava per conto della PNS) che non disponevano dell’abilitazione all’installazione di impianti di riscaldamento e del tutto prive di qualificazione al riguardo e non avendo preteso il rilascio della necessaria dichiarazione di conformità. La sentenza di appello ricorda che i vizi della canna fumaria del camino, collocato nell’appartamento dei signori R.S. e MP.C., sono proprio dipesi dalla mancata osservanza delle regole relative alla buona costruzione delle canne fumarie previste dalla citata norma UNI 10683, richiamata dall’art. 7 della L. n. 46/1990.
Ricostruito nei termini appena illustrati quanto accaduto, la Corte del merito ha risposto positivamente al quesito, insito nel giudizio controfattuale, se la condotta doverosa omessa, ossia il rispetto delle norme tecniche di sicurezza, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento, laddove afferma che «il rispetto delle norme tecniche di sicurezza avrebbe evitato il verificarsi dell’incendio, perché in una canna fumaria di sezione adeguata, senza curve inopportune e con uno sportello per il recupero della fuliggine, non avrebbe potuto svilupparsi la combustione della fuliggine all’interno del condotto e, tantomeno, da una canna fumaria separata dalle parti lignee adiacenti tramite idoneo isolamento termico, le fiamme avrebbero potuto diffondersi all’orditura del tetto».
Il secondo motivo è, dunque, infondato.
5. Altrettanto è a dirsi con riguardo al terzo e ultimo motivo avanzato dalla difesa E.M. e relativo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente pretende che in questa sede si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali il giudice di merito ha esercitato il potere discrezionale a lui concesso dall’ordinamento ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. L’esercizio di detto potere deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo. Il riconoscimento di dette circostanze presuppone, inoltre, l’esistenza di elementi suscettibili di positivo apprezzamento che, nel caso in disamina, la Corte non ha ravvisato.
Nella specie, del tutto legittimamente, la Corte di merito ha spiegato di non ritenere il ricorrente meritevole delle invocate attenuanti generiche per l’elevato grado della colpa, la rilevante entità dei danni causati dall’incendio delle unità immobiliari site nel condominio Diamant e l’assenza di concreti comportamenti indicativi di avvenuta comprensione del disvalore della condotta. Si tratta, come si vede, di considerazioni ampiamente giustificative del diniego, che le censure del ricorrente non valgono a scalfire.
Peraltro, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può legittimamente essere motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis, cod. proc. pen., disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986).
6. Quanto al ricorso di G.O., per quanto non ancora trattato.
Il secondo motivo va respinto. All’esito della discussione di appello, la Corte territoriale disponeva, ai sensi dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., la rinnovazione istruttoria onde acquisire ulteriori elementi in ordine all’identità dei soggetti che procedettero all’installazione del caminetto e della canna fumaria, disponendo l’esame testimoniale di G.B., GU.B. e R.S.. Il ricorrente lamenta che detta rinnovazione non sia stata invece disposta per M.O. e B.M., rispettivamente responsabile di cantiere per il CONSORZIO G.R.C. e titolare della YARO PRATO NEVOSO.
Nell’ambito dell’evoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni, a partire da note pronunce di istanze sovranazionali (in particolare, la sentenza Dan c\ Moldoyà della Corte europea dei diritti dell’uomo), le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di precisare che «la previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell’imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte Edu – che costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne – implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del Pubblico Ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all’esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 603, comma terzo, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado» (Sez. U, n. 27260 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv 267487). Nel 2017, gli stessi principi sono stati ribaditi anche in un caso di riforma di sentenza assolutoria emessa ex art. 438 del codice di rito (ipotesi che la sentenza Dasgupta aveva già considerato assimilabile, dedicandovi un obiter dictum, a quella oggetto della prima ordinanza di rimessione): con un diverso e più articolato inquadramento degli istituti sottesi alla questione in diritto già sviluppata l’anno precedente, si è dunque affermato che «è affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la sentenza di appello che, su impugnazione del Pubblico Ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni» (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785). La stessa sentenza Patalano chiarisce peraltro che siffatto obbligo di rinnovazione non sussiste qualora emerga che la lettura della prova dichiarativa compiuta dal primo giudice sia ictu oculi viziata per omissione, invenzione o falsificazione. Come già avvertito, inoltre, sullo specifico problema qui in esame deve registrarsi il definitivo intervento del legislatore che, codificando gli esiti dell’elaborazione giurisprudenziale appena evidenziata, ha inteso introdurre – con la legge n. 103 del 2017 – un nuovo comma 3-bis nel corpo dell’art. 603 del codice di rito, secondo cui “nel caso di appello del Pubblico Ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”. Deve, tuttavia, ritenersi che tale obbligo di rinnovazione non sia indefettibile, come il tenore letterale della novella da ultimo evocata sembrerebbe imporre. Al di là delle situazioni eccezionali segnalate dalla sentenza Patalano, la prova dichiarativa (decisiva) in tanto dovrà essere necessariamente assunta dal giudice di appello in quanto il pubblico ministero impugnante ne solleciti una valutazione diversa rispetto a quella che emerge dalla decisione liberatoria: così è infatti avvenuto quanto alle dichiarazioni di GU.B. e di G.B. di cui il Procuratore della Repubblica di Cuneo ha chiesto, nel suo atto di appello, una valorizzazione maggiore e diversa rispetto a quella offerta dal giudice di primo grado.
In definitiva, nel caso di specie, alla rinnovazione delle anzidette testimonianze si è correttamente dato corso non già perché si ponessero questioni di valutazione tout court di una prova dichiarativa – come sarebbe, invece, stato nel caso, invocato dal ricorrente, delle testimonianze dei menzionati M.O. e B.M. – bensì perché vi era stata una valutazione di quelle prove, per le quale si è proceduto alla rinnovazione, difforme da quella ritenuta doverosa.
8. Sulla scorta di quanto sin qui detto, va altresì disatteso il terzo motivo articolato dalla difesa G.O., relativo all’obbligo di motivazione rafforzata, risolvendosi, al contrario, la sentenza di appello in una argomentazione completa, congrua ed adeguata in ordine alle risultanze probatorie sulle quali si è diffusamente ed analiticamente soffermata. Si rimanda alle considerazioni già effettuate al precedente punto 3.
Il motivo, tuttavia, si risolve in una rivalutazione e diversa ricostruzione dei fatti e nella critica della interpretazione fornita ad essi dalla Corte del merito. In ossequio a principi ripetutamente affermati da questa Corte in punto di vizio motivazionale, compito del giudice di legittimità, allo stato della normativa vigente, è quello di accertare (oltre che la presenza fisica della motivazione) la coerenza logica delle argomentazioni poste dal giudice di merito a sostegno della propria decisione, non già quello di stabilire se la stessa proponga la migliore ricostruzione dei fatti. Neppure il giudice di legittimità è tenuto a condividerne la giustificazione, dovendo invece questi limitarsi a verificare se questa sia coerente con una valutazione di logicità giuridica della fattispecie nell’ambito di una plausibile opinabilità di apprezzamento; ciò in quanto l’art. 606 comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, essendo estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali; non può, pertanto, integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. È stato affermato, in particolare, che la illogicità della motivazione, censurabile a norma del citato art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
Detti principi sono stati ribaditi anche dopo le modifiche apportate all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. dalla L. n. 46 del 2006, che ha introdotto il riferimento ad “altri atti del processo”, ed ha quindi, ampliato il perimetro d’intervento del giudizio di cassazione, in precedenza circoscritto “al testo del provvedimento impugnato”. La nuova previsione legislativa, invero, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane comunque un giudizio di legittimità, nel senso che il controllo rimesso alla Corte di cassazione sui vizi di motivazione riguarda sempre la tenuta logica, la coerenza strutturale della decisione.
Il motivo è dunque inammissibile.
8. Va respinto, infine, anche il quarto motivo afferente il mancato riconoscimento delle circostanze generiche per le ragioni già espresse al punto 6, in relazione ad analogo motivo di ricorso del E.M.. Con due ulteriori precisazioni rese necessarie dalla doglianza specifica del ricorrente G.O.: l’art. 133, cod. pen., contempla in pari misura i reati dolosi e quelli colposi, in ordine ai quali ultimi il giudice, ai fini della valutazione della pena, deve tenere conto del grado della colpa, dell’entità delle conseguenze dannose; così come di ogni elemento idoneo a parametrare la complessiva condotta del reo, quale anche l’insufficiente comprensione del disvalore di questa.
Quanto al dedotto ne bis in idem sostanziale, con riguardo al rapporto tra l’art. 133 e l’art. 62-bis, cod. pen., Il Collegio osserva che, ai fini della determinazione della pena, il giudice può tenere conto dei medesimi elementi (nella specie: elevato grado della colpa, entità delle conseguenze dannose, insufficiente comprensione del disvalore della condotta) che abbiano attitudine a influire su diversi aspetti della valutazione, ben potendo un dato pG.O.lente essere utilizzato più volte sotto differenti profili per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del ne bis in idem (Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015, P.G., Rechichi e altri, Rv. 264378).
9. In conclusione, da quanto sinora esposto consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, agli effetti penali, perché il reato ascritto ai ricorrenti è estinto per prescrizione. I ricorsi vanno rigettati agli effetti civili e i ricorrenti vanno condannati, in solido con il responsabile civile, alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché il reato è estinto per prescrizione. Rigetta i ricorsi agli effetti civili.