CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 25988 depositata il 15 settembre 2020
Reati tributari – Omesso versamento ritenute fiscali operate alla fonte – Responsabilità – Amministratore firmatario della dichiarazione
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza dell’8 ottobre 2019 la Corte di Appello di Brescia ha confermato la sentenza del 30 maggio 2017 del Tribunale di Bergamo, in forza della quale G.M., nella qualità di legale rappresentante della s.p.a. R. in liquidazione, era stato condannato alla pena di mesi otto di reclusione, oltre alle sanzioni accessorie, per il reato di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, quanto all’omesso versamento di ritenute fiscali operate alla fonte in relazione all’anno 2011, per un ammontare complessivo di euro 487.456,00.
2. Avverso la predetta decisione è stato proposto ricorso per cassazione articolato su quattro motivi di impugnazione.
2.1. Col primo motivo, in relazione alla dedotta violazione di legge e al denunciato vizio motivazionale con riferimento al concreto contenuto della posizione di garanzia, il ricorrente ha lamentato il travisamento della prova e la sua valutazione frammentata, laddove la Corte territoriale aveva ritenuto che la delega di funzioni in favore degli altri membri del consiglio di amministrazione non fosse sufficiente ad escludere la permanenza in capo all’imputato del potere di amministrare la società nella sua qualità di legale rappresentante della medesima.
In particolare, con riferimento ai poteri delegati agli altri membri del consiglio di amministrazione, il tenore del verbale del consiglio di amministrazione del 23 giugno 2009 lasciava pochi dubbi quanto all’effettiva gestione di ogni ambito afferente all’amministrazione contabile e fiscale della società, con residui compiti – per l’imputato – di mera rappresentanza e di relazione con i terzi.
Allo stesso tempo, l’omissione penalmente rilevante non poteva che incombere sull’amministratore concretamente dotato delle specifiche funzioni e deleghe, e non sul mero sottoscrittore del mod. 770, come poteva desumersi anche dalla deposizione testimoniale del commercialista della società e del gruppo familiare che, in fatto, aveva sostituito il M. nella gestione della stessa società, nonché dalla successiva nomina dell’imputato a liquidatore, con i connessi poteri gestori a partire peraltro solo da quel momento. Né costui avrebbe potuto provvedere al pagamento una volta introdotta la procedura concordataria, mentre la nomina a liquidatore doveva ritenersi giustificata in relazione alla pregressa conoscenza del mercato e della clientela, sì da consentirgli il ruolo di “ambasciatore”, ma solo quello, della società.
Quanto infine all’esistenza di eventuale obbligo rilevante a norma dell’art. 40 cod. pen., la sentenza impugnata non aveva considerato se l’imputato avesse in concreto la possibilità di impedire l’operazione dolosa altrui, a prescindere dalla conoscenza della situazione di difficoltà economica della società, atteso che egli ben poteva confidare nell’impegno del gruppo familiare subentrante ad adempiere agli obblighi con risorse proprie.
In realtà, in definitiva, il contenuto effettivo della posizione di garanzia era quindi limitato a quello di un legale rappresentante privo di qualsivoglia potere di gestione amministrativa e finanziaria, essa spettando invece ad altri soggetti.
Mentre la liquidazione della società, ancorché aperta nel mese di novembre 2012, non consentiva all’evidenza pagamenti preferenziali proprio per le condizioni economiche complessive.
Del pari, solamente in esito alla seduta del 16 novembre 2012 del consiglio di amministrazione l’imputato era venuto a conoscenza del mancato pagamento delle ritenute.
Era stata pertanto omessa la valutazione circa l’esistenza di concorrenti posizioni di garanzia in capo agli amministratori delegati, dotati dei medesimi poteri di rappresentanza dell’imputato ma anche di specifici ed esclusivi poteri in materia dì amministrazione.
2.2. Col secondo motivo il ricorrente, sempre invocando violazione di legge e vizio motivazionale, ha osservato che il soggetto obbligato all’adempimento andava altresì individuato sulla scorta della normativa tributaria di riferimento, e pertanto esso doveva identificarsi nella persona dell’amministratore delegato L. B., il quale svolgeva il ruolo dell’imprenditore in forza del contenuto del verbale del consiglio di amministrazione del 23 giugno 2009 nonché all’esito dei rapporti di forza esistenti all’interno della compagine sociale, ed era il destinatario della specifica delega di funzioni o competenze gestionali, tra cui l’obbligo di procedere al pagamento delle ritenute.
2.3. Col terzo motivo il ricorrente, invocando violazione di legge penale, inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità e vizio motivazionale in relazione alla prova del rilascio delle certificazioni al sostituto d’imposta ed all’omesso versamento delle relative ritenute, ha inteso osservare che in tal modo, anteriormente alla novella di cui al d.lgs. 158 del 2015, doveva considerarsi l’assoluta necessità della prova del rilascio al personale dipendente delle certificazioni delle ritenute. In specie, la prova esperita (anche in ordine ai raffronti tra il mod. 770 indicato dalla società e i dati forniti dai dipendenti) e gli accertamenti a campione che sarebbero stati svolti non erano idonei alla prova della consegna delle certificazioni ed in particolare del superamento della soglia di punibilità.
2.4. Col quarto profilo di censura, quanto alla motivazione circa la determinazione della pena in misura superiore al minimo edittale, ed anche a prescindere dalla possibilità di valutare anche ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio ciò che era stato considerato ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche, il ricorrente ha osservato che avrebbero dovuto essere valutate favorevolmente ulteriori circostanze legate alla condotta dell’imputato stesso, ai concorrenti comportamenti ostruzionistici dei soci di maggioranza, al tentativo di adempiere ancorché tardivamente, all’inesistenza del dolo diretto all’omissione rilevante a norma dell’art. 10-bis cit. ed all’attribuzione del fatto ex art. 40 cod. pen., nonché al pieno inserimento sociale del prevenuto.
3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’inammissibilità del ricorso.
4. Il ricorrente ha dimesso conclusioni scritte a norma dell’art. 83, comma 12-ter decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge 24 aprile 2020, n. 27, insistendo per l’accoglimento dell’impugnazione siccome proposta.
Considerato in diritto
5. La sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il reato è estinto per prescrizione.
5.1. Per quanto invero concerne i primi due motivi di impugnazione, che possono essere esaminati congiuntamente stante la loro connessione, corretto è il rilievo del Procuratore generale, il quale ha ricordato come debba considerarsi inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla Corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (ad es. Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e altri, Rv. 243838).
5.1.1. In specie, infatti, il ricorrente ha invero inteso ripercorrere, sebbene con ampiezza di riferimenti, gli esiti della svolta istruttoria, ribadendo le proprie censure in fatto: a) circa i poteri che gli sarebbero spettati nell’ambito della società di capitali di cui era legale rappresentante; b) quanto ai poteri delegati agli altri componenti del consiglio di amministrazione ed all’interpretazione all’uopo adottata dal Giudice del merito; c) in ordine altresì alla conoscenza dello stato di difficoltà finanziaria della società ed alla possibilità – o meno – di porvi rimedio; d) rispetto all’interpretazione, conforme, assunta dai Giudici del merito in relazione alle deposizioni testimoniali ovvero ai contenuti delle delibere degli organi sociali; e) avuto riguardo, in genere, alla pretesa limitazione delle proprie funzioni a quelle di mero rappresentante esterno della società in virtù degli antichi e consolidati rapporti con la clientela, estraneo pertanto ad ogni ulteriore aspetto gestionale anche in relazione, per quanto rilevava, al rispetto delle obbligazioni di natura fiscale.
E’ infatti nozione comune che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censura l’erronea applicazione dell’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen., se è fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici, tassativamente previsti dall’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., riguardanti la motivazione della sentenza di merito in ordine alla ricostruzione del fatto (Sez. 6, n. 13442 del 08/03/2016, De Angelis e altro, Rv. 266924; Sez. 6, n. 43963 del 30/09/2013, Basile e altri, Rv. 258153; cfr. anche Sez. 6, n. 45249 del 08/11/2012, Cimini e altri, Rv. 254274).
5.2.1. In specie, l’odierno ricorrente ha nuovamente riproposto la propria lettura degli atti di causa, ribadendo che il proprio ruolo di legale rappresentante, avuto riguardo alle deleghe degli altri componenti del consiglio di amministrazione, si limitava a quello di mero “ambasciatore” della società con esclusione di ogni potere di gestione.
Al riguardo la risposta fornita univocamente e non illogicamente dai Giudici del merito è stata di tutt’altro tenore, né in questa sede di legittimità possono ulteriormente formularsi identiche considerazioni già compiutamente disattese, laddove in definitiva i primi due motivi di ricorso sono rivolti a proporre meri rilievi di merito, in espressa contestazione alle valutazioni che il Giudice di merito aveva operato in relazione al materiale istruttorio, orale e documentale, siccome acquisito.
Al riguardo, e coerentemente con siffatte non corrette premesse, è stata espressamente censurata, mediante costanti riferimenti all’esito dell’istruttoria ed alle valutazioni probatorie colà dedotte, proprio la discrezionalità valutativa operata dal primo Giudice, con la conseguente contestazione della ricostruzione fattuale siccome compiuta dal provvedimento impugnato e, quindi, l’adozione di conclusioni che, in sé, si ponevano in antitesi con ciò che era stato osservato in relazione ai poteri del M. all’interno della società, ancorché in presenza degli altri componenti del consiglio di amministrazione, nonché avuto riguardo alla conoscenza delle difficoltà economiche ed alla possibilità di intervento.
5.3. Ciò posto, peraltro, l’esame del terzo motivo di censura non può condurre al medesimo giudizio di manifesta infondatezza che può invece formularsi, alla stregua delle considerazioni che precedono, relativamente ai primi due profili di censura.
5.3.1. Al riguardo, il Giudice del merito ha fondato il giudizio di penale responsabilità sulla ritenuta coincidenza tra quanto indicato nel mod. 770 e le singole dichiarazioni fiscali presentate dai dipendenti-sostituiti, all’esito degli accertamenti compiuti e dell’esame testimoniale del funzionario dell’Agenzia delle Entrate, che aveva dichiarato di avere appunto eseguito un controllo incrociato tra i dati della dichiarazione fiscale della società e quelli dei dipendenti, in tal modo verificando l’esistenza di settantanove certificazioni di lavoro dipendente, alcune delle quali erano state stampate ai fini d’udienza (cfr. pag. 9 sentenza impugnata), sì da fornire pieno riscontro all’avvenuto rilascio delle certificazioni da parte del datore di lavoro ai propri dipendenti. Detta operazione è invero astrattamente consentita (cfr. Sez. 3, n. 1443 del 15/11/2012, dep. 2013, Salmistrano, Rv. 254152), dal momento che, ai fini di provare il rilascio delle certificazioni, non è necessaria di per sé l’acquisizione materiale delle certificazioni stesse, perché ben possono supplire prove documentali anche di altro genere o prove orali, in primis le dichiarazioni rese dal sostituito (così, tra l’altro, in motivazione Sez. U, n. 24782 del 22/03/2018, Macerata, Rv. 272801).
5.3.2. Ciò complessivamente premesso, il provvedimento impugnato e la censura del ricorrente si muovono nell’ambito del perimetro infine delimitato – all’esito di ampio e noto dibattito giurisprudenziale – da questa Corte di legittimità, secondo cui, in tema di omesso versamento di ritenute certificate ed alla luce della modifica apportata dall’art. 7, d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, all’art. 10-bis, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (che ha esteso l’ambito di operatività della norma alle ipotesi di omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione proveniente dal datore di lavoro, c.d. mod. 770), deve ritenersi che, per i fatti pregressi, ai fini della prova del rilascio al sostituito delle certificazioni attestanti le ritenute operate, non è sufficiente la sola acquisizione della dichiarazione mod. 770 (Sez. U, n. 24782 cit.).
Accanto a ciò, in atto di appello – tenuto invero conto della natura della prova richiesta alla pubblica accusa – era stato lamentato che non era stata fornita la prova del rilascio ai sostituiti d’ìmposta delle certificazioni attestanti le ritenute d’acconto effettivamente operate.
Al riguardo, è stato peraltro altresì recentemente notato, ed in proposito il principio va ribadito, che, in tema di delitto di omesso versamento di ritenute certificate, al fine di verificare se il reato è configurabile, non è sufficiente la sola verifica “a campione” delle certificazioni rilasciate ai sostituiti, in modo da pervenire ad una valutazione presuntiva dell’entità dell’inadempimento, ma è necessario che la verifica investa complessivamente tutte le certificazioni onde accertare se l’omesso versamento superi la soglia di punibilità prevista dalla norma incriminatrice (Sez. 3, n. 13610 del 14/02/2019, Clementi, Rv. 275901).
In specie, la sentenza impugnata appare correlare la dichiarazione fiscale della società con i dati indicati dai dipendenti della medesima, ed in tale contesto era stata verificata l’esistenza di settantanove certificazioni di lavoro dipendente, sì da dare appunto pieno riscontro all’avvenuto rilascio delle stesse certificazioni.
Mentre in ogni caso la Corte territoriale ha dato atto dell’omesso versamento di somma ingente, pari ad euro 487.456 (ampiamente superiore alla soglia di punibilità).
In altre parole, da un canto la motivazione appare collegare in maniera non manifestamente illogica dichiarazione fiscale della società, rilascio delle certificazioni, dichiarazioni dei dipendenti ed entità delle omissioni; d’altro canto le questioni sollevate dal ricorrente non appaiono manifestamente prive di fondamento, proprio in ragione dello stesso articolato ragionamento operato dalla sentenza impugnata nonché della richiamata evoluzione giurisprudenziale.
5.3.3. Ciò posto, non può non essere considerato – atteso che al riguardo il ricorrente non ha inteso rinunciare alla relativa causa estintiva nelle stesse conclusioni scritte formate a norma dell’art. 18, comma 12-ter cit. – il decorso del termine prescrizionale, invero maturato il 20 marzo 2020 stante la decorrenza del termine di sette anni e mezzo dalla data di commissione del reato, risalente al 20 settembre 2012.
Al riguardo, infatti, la prescrizione dei reati maturata nel corso del giudizio di legittimità è rilevabile a condizione che il ricorso, almeno in parte, sia ammissibile e sempre che non risulti dagli atti la prova evidente che il fatto non sussiste, non è stato commesso dall’imputato o non costituisce reato (ad es. Sez. 6, n. 32872 del 04/07/2011, Agulli e altri, Rv. 250907). Evidenza della prova che, per quanto osservato, non può dirsi sussistente.
5.4. Alla stregua dei rilievi che precedono, e del maturare della prescrizione, rimane quindi assorbito l’esame del quarto motivo di impugnazione, avente ad oggetto il trattamento sanzionatorio.
6. La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio, perché il reato è estinto per prescrizione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione.