Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 26084 depositata il 16 settembre 2020

reati tributari – omessa dichiarazione – reato di dichiarazione infedele – soglia di punibilità

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 07/05/2019, la Corte di appello di Caltanissetta confermava la sentenza del 05/04/2018 del Tribunale di Enna, con la quale L.G. era stato dichiarato responsabile del reato di cui all’art. 5 d.lgs 74/2000 e condannato alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione.

2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione L.G., a mezzo del difensore di fiducia, articolando otto motivi di seguito enunciati.

Con il primo motivo deduce violazione degli artt. 521, 522, comma 1, cod.proc.pen. e 5 d.lgs 74/2000, lamentando che nel capo di imputazione non vi era traccia della misura della imposta evasa e delle imposte evase né della soglia minima superata; pertanto, il decreto di citazione a giudizio del 5.11.2015, la sentenza di primo grado e quella impugnata erano inficiati da nullità assoluta ai sensi degli artt. 178 lett. b) e 179 cod. proc. pen.

Con il secondo motivo deduce violazione dell’art. 5 d.lgs 74/2000 e correlato vizio di motivazione, lamentando che i Giudici di merito avevano valutato gli elementi istruttori in maniera distorta, incompleta e palesemente erronea ed illogica, esprimendo sul punto una motivazione carente, incongrua, perplessa e contraddittoria; in particolare, erano state prese in considerazione solo le dichiarazioni rese dal teste S. e le valutazioni espresse dall’Agenzia delle Entrate nell’avviso di accertamento, che, nel calcolare i componenti negativi dei redditi, non aveva tenuto in conto il costo per rimanenze iniziali di immobili e prodotti in corso di lavorazione pari ad euro 290.655,56, che pure risultava dall’esame delle scritture contabili e dal bilancio di verifica prodotto.

Con il terzo motivo deduce violazione dell’art. 5 d.lgs 74/2000 e correlato vizio di motivazione per difetto dell’elemento soggettivo del reato, esponendo che non vi era prova del dolo specifico di evasione, considerato che l’imputato aveva la consapevolezza che la società da lui rappresentata, nell’anno 2010, aveva conseguito redditi negativi e non positivi.

Con il quarto motivo deduce violazione degli artt. 530, 533, 192 cod. proc. pen. per mancanza di prova in ordine alla sussistenza del reato di cui all’art. 5 d.lgs 74/2000 e correlato vizio di motivazione, esponendo che l’assoluta insufficienza e contraddittorietà degli elementi di prova addotti dal Pm a sostegno dell’ipotesi di accusa rivolta all’imputato, avrebbe dovuto indurre il giudice di appello a pronunciare, ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod.proc.pen., sentenza di assoluzione dell’imputato per non aver commesso il fatto.

Con il quinto motivo deduce violazione dell’art. 99, commi 2 e 4 cod.pen. e correlato vizio di motivazione, lamentando che la recidiva reiterata non poteva né essere ritenuta né prima ancora contestata, per difetto dei presupposti di legge, in quanto le prime tre precedenti condanne irrevocabili erano relative a reati contravvenzionali e le successive condanne erano divenute irrevocabili in epoca successiva alla data del nuovo commesso reato.

Con il sesto motivo deduce violazione dell’art. 99 cod.pen. e correlato vizio di motivazione, lamentando che la Corte territoriale aveva ritenuto sussistente la contestata recidiva con argomentazioni carenti e basate su mere formule di stile.

Con il settimo motivo deduce violazione dell’art. 62 bis cod.pen. e correlato vizio di motivazione, lamentando che la Corte territoriale per denegare l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche si era limitata a richiamare i precedenti penali dell’imputato.

Con l’ottavo motivo deduce violazione dell’art. 163 cod.pen.e correlato vizio di motivazione, lamentando che la Corte territoriale aveva denegato il beneficio della sospensione condizionale della pena senza motivare sul punto.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

Si è proceduto ex art 83, comma 12-ter d.l. n. 18/2020, conv. l. n.27/2020.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso va parzialmente accolto, essendo fondato solo il quinto motivo di ricorso, secondo le argomentazioni che seguono.

2. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La nullità del decreto di citazione a giudizio per la mancata o insufficiente enunciazione del fatto oggetto dell’imputazione, prevista dall’art. 429, secondo comma, cod. proc. pen., deve ritenersi sanata qualora non sia stata dedotta entro il termine stabilito, a pena di decadenza, dall’art. 491, primo comma, dello stesso codice; poiché infatti la predetta omissione non attiene nè all’intervento dell’imputato nè alla sua assistenza o rappresentanza, la nullità che ne deriva non può ricomprendersi fra quelle di ordine generale, di cui all’art. 178, lett. c), bensì tra quelle relative, previste dall’art. 181 cod. proc. pen., con la conseguenza che deve essere eccepita – a pena di preclusione – subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti (Sez. 2, n.16817 del 27/03/2008,Rv.239757 – 01)

Nella specie, alla prima udienza del 7.11.2016 (alla quale era stata rinviata quella del 1.4.2016 indicata nel decreto di citazione con rinnovazione della notifica) si constatava la regolarità della notifica e si disponeva procedersi in assenza dell’imputato, il giudice ammetteva i testi e rinviava al 7.4.2017; nulla eccepiva il difensore del ricorrente in ordine alla dedotta nullità del decreto di citazione a giudizio per la mancata o insufficiente enunciazione del fatto oggetto dell’imputazione.

In ogni caso, va ricordato che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte non sussiste alcuna incertezza sull’imputazione, quando questa contenga – come nella specie- , con adeguata specificità, i tratti essenziali del fatto di reato contestato in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa (Sez.2, n.36438 del 21/07/2015, Rv.264772;Sez.3, n.35964 del 04/11/2014, dep.04/09/2015, Rv.264877; Sez. 5, n. 6335 del 18/10/2013, dep. 2014, Rv. 258948).

Va, inoltre, richiamato l’orientamento secondo cui la contestazione non va riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito (Sez. 5, n. 51248 del 05/11/2014, Rv. 261741; Sez. 2, n. 36438 del 21/07/2015, Rv. 264772; Sez.2, n.2741 del 11/12/2015, dep.21/01/2016, Rv.265825).

Nella specie, la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che nell’avviso di accertamento veniva indicato l’IRES importo evaso pari ad euro 74.790,00 e, quindi, superiore alla soglia di punibilità pari ad euro 50.000,00, restando irrilevante che gli altri importi evasi per IRAP e IVA erano in misura inferiore alla predetta soglia di punibilità.

Occorre, infatti, rilevare che questa Corte ha affermato (Sez.7,n.40577 del 15/07/2016, Rv.268478 – 01) che l’elevazione della soglia di punibilità da euro 30.000 ad euro 50.000 delle imposte, delle quali è obbligatoria la presentazione della dichiarazione, conseguente alla emanazione del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 non rileva ai fini dello ius superveniens con riferimento alla integrazione della fattispecie incriminatrice contestata e ritenuta in sentenza. Infatti, il d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 ha modificato il comma 1 dell’articolo 5 del decreto legislativo n. 74 del 2000 stabilendo che “E’ punito con la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila”. Ne deriva che, nel tipizzare il fatto di reato, è stata mantenuta ferma la riferibilità della soglia di punibilità “a taluna delle singole imposte”, con la conseguenza che, per la configurabilità del reato di omessa dichiarazione ex art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000 e succ. mod., è soltanto necessario che l’imposta evasa, con riferimento a taluna delle singole imposte considerate, sia superiore a 50.000 Euro e ciò comporta che la valutazione sul superamento della soglia di punibilità rileva in via alternativa, nel senso che è sufficiente, affinché il reato sia integrato, il superamento della soglia di punibilità anche di una sola delle imposte rientranti nell’ambito di operatività della fattispecie incriminatrice, e che detta valutazione di superamento della soglia deve essere operata in maniera specifica, non potendosi sommare, ai fini della determinazione dell’imposta evasa, le imposte sui redditi e quelle sull’Iva. Pertanto, nel caso in esame, non rileva che, in virtù dello ius superveniens, la soglia di punibilità per l’Iva (euro 47.178,74) non risulta più integrata, per essere stata detta soglia elevata a 50.000 Euro, in quanto l’imposta evasa ai fini dell’IRES è risultata pari a 74.790,00 e quindi superiore alla soglia di punibilità di Euro 50.000 elevata per effetto del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158.

3. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

E’ stato affermato, da un lato, che in tema di reati tributari, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare legittimamente ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, nonché ricorrere all’accertamento induttivo dell’imponibile quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state irregolarmente tenute (Sez. 3, n. 5786 del 18/12/2007 – dep. 06/02/2008, D’Amico, Rv. 238825) e, dall’altro, che il giudice può legittimamente fondare il proprio convincimento, in tema di responsabilità dell’imputato per omessa annotazione di ricavi, sia sull’informativa della G.d.F. che abbia fatto riferimento a percentuali di ricarico attraverso una indagine sui dati mercato, che sull’accertamento induttivo dell’imponibile operato dall’ufficio finanziario quando la contabilità imposta dalla legge non sia stata tenuta regolarmente. Ciò a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in esso evidenziati, ma proceda a specifica, autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti aliunde (Sez. 3, n. 1904 del 21/12/1999 – dep. 21/02/2000, Zarbo E, Rv. 215694).

Nella specie, la Corte territoriale ha offerto sul punto articolata e logica motivazione, basata su autonoma valutazione delle risultanze dell’accertamento induttivo in relazione ad approfondito esame del materiale probatorio acquisito (pagg 4 e 5 della sentenza impugnata.

La Corte di merito ha, poi, correttamente valutato che i componenti negativi indicati dalla difesa (calcolo delle rimanenze iniziali di immobili e prodotti ìn corso di lavorazione) difettavano di specifiche allegazioni fattuali e che, quindi, tale argomento difensivo risultava infondato.

Va ricordato che in tema di reati tributari, ai fini della configurabilità del delitto di omessa presentazione di dichiarazione Iva (art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000), è rimesso al giudice penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio detraibili, mediante una verifica che privilegia il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale e che per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall’accertamento dovrà basare il proprio divergente giudizio sulla base di elementi di fatto emersi e provati in dibattimento (Sez.3, n.38684 del 04/06/2014, Rv.260389 – 01; Sez.3, n.5640 del 2012, non mass.); il reato di omessa dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto è oggetto, in particolare, di accertamento non induttivo e quindi legittimo in sede penale quando la determinazione delle imposte evase è operata tenendo conto soltanto dei ricavati aziendali in assenza di elementi fattuali che facciano ritenere l’esistenza di costi aziendali (Sez.3, n.35858 del 07/06/2011, Rv.251281 – 01)..

3. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La Corte territoriale ha confermato la valutazione del Tribunale, che, in aderenza alle risultanze istruttorie, ha ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato, con apprezzamento di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione, desumendolo dalle stesse modalità di compilazione della dichiarazione dei redditi nella quale era stato deliberatamente omesso di indicare tutti gli elementi che permettevano all’Amministrazione finanziaria di ricostruire la sua posizione fiscale (cfr pag 4 della sentenza di primo gradi). Tale aspetto non aveva costituito oggetto di specifico motivo di gravame e la motivazione espressa dalla Corte di appello, confermativa della valutazione del Tribunale, risulta del tutto adeguata, in considerazione del principio di diritto, secondo cui, in tema di integrazione delle motivazioni tra le sentenze conformi di primo e di secondo grado, il giudice dell’appello può motivare per relazione se l’impugnazione si limita a riproporre questioni di fatto o di diritto già esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate (Sez.6, n.5224 del 02/10/2019,dep.07/02/2020, Rv.278611 – 01; Sez.4, n.15227 del 14/02/2008, Rv.239735 – 01).

4. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile.

Il rispetto della regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio deve, come noto, guidare il giudice nel processo di ricerca della verità e nella affermazione della colpevolezza che va fatta solo quando questa sia accertabile in termini di certezza. La regola di giudizio predetta contenuta nell’art. 533 cod.proc.pen., comma 1 come modificato dalla L. n. 46 del 2006, art. 5 impone, infatti, al giudice il ricorso “ad un metodo dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria secondo il criterio del dubbio, con la conseguenza che il giudicante deve effettuare detta verifica in maniera da scongiurare la sussistenza di dubbi interni (ovvero la autocontraddittorietà o la sua incapacità esplicativa) o esterni alla stessa (ovvero l’esistenza di una ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica)” (in termini Sez. 1 24.10.2011 n. 41110, P.G. in proc. Javad, Rv. 251507). Tale principio, però, non ha affatto innovato la natura del sindacato della Corte di Cassazione sulla motivazione della sentenza e non può, quindi, “essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell’appello” (Sez.1, n.41110 del 24/10/2011, Rv.251507).

La condanna al là di ogni ragionevole dubbio comporta, infatti, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti, che siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, “in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un’ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile”. (Sez. 4 17.6.2011 n. 30862, Giulianelli e altri, Rv. 250903). In altri termini, si richiede che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili “in rerum natura” ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, sia esclusa in assenza di riscontri pur minimi nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (così Sez. 1 3.3.2010 n. 17921, Gíampà, Rv. 247449).

Nella specie, le affermazioni contenute nella sentenza impugnata sono frutto di una valutazione approfondita che ha tenuto conto di tutti i dati probatori acquisiti e sulla base della quale è stato espresso un giudizio di certezza in termini incontestabili-, laddove dietro l’asserito mancato rispetto della regola di cui sopra – dedotto peraltro in maniera del tutto generica – si cela una pretesa ricostruzione alternativa della vicenda processuale che – nei termini in cui è stata posta – è preclusa nel giudizio di legittimità.

5. Il settimo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, oggetto di un giudizio dì fatto, non costituisce un diritto conseguente all’assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle circostanze in parola; l’obbligo di analitica motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica, infatti, la decisione circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (Sez.1, n. 3529 del 22/09/1993, Rv. 195339; Sez. 2, n. 38383 del 10.7.2009, Squillace ed altro, Rv. 245241; Sez.3,n. 44071 del 25/09/2014, Rv.260610).

Inoltre, secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, il giudice nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non deve necessariamente prendere in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti; è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione , individuando, tra gli elementi di cui all’art.133 cod.pen., quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalità dell’imputato (Sez.3, n.28535 del 19/03/2014, Rv.259899; Sez.6, n.34364 del 16/06/2010, Rv.248244; sez. 2, 11 ottobre 2004, n. 2285, Rv. 230691).

L’obbligo della motivazione non è certamente disatteso quando non siano state prese in considerazione tutte le prospettazioni difensive, a condizione però che in una valutazione complessiva il giudice abbia dato la prevalenza a considerazioni di maggior rilievo, disattendendo implicitamente le altre. E la motivazione, fondata sulle sole ragioni preponderanti della decisione non può, purchè congrua e non contraddittoria, essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato.

Nella specie, la Corte territoriale, con motivazione congrua e logica, ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche a cagione dei precedenti penali.

Ha, quindi, ritenuto assolutamente prevalente il richiamo, sia pure implicito, alla personalità negativa dell’imputato, quale emergente dal certificato penale, per negare l’invocato beneficio (cfr in merito alla sufficienza dei precedenti penali dell’imputato quale elemento preponderante ostativo alla concessione delle circostanze attenuanti generiche, Sez.2, n.3896 del 20/01/2016, Rv.265826; Sez.1, n.12787 del 05/12/1995, Rv.203146).

6.L’ottavo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

La Corte territoriale, con motivazione congrua ed esente da vizi logici, ha denegato la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, dando rilievo ostativo ai precedenti penali dell’imputato.

Va ricordato che il giudice di merito, nel valutare la concedibilità della sospensione condizionale della pena, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen., ma può limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti (Sez.5, n.57704 del 14/09/2017, Rv.272087 – 01; Sez.3,n.35852 del 11/05/2016, Rv.267639 – 01;Sez.3, n.6641 del 17/11/2009, dep.18/02/2010, Rv.246184 – 01

7.E’, invece, fondato il quinto motivo di ricorso ed assorbente del sesto motivo di ricorso.

La questione, pur non dedotta con i motivi appello, è rilevabili in questa sede (cfr Sez.1, n.15944 del 21/03/2013, Rv.255684 – 01, che ha ritenuto illegale la pena in fattispecie di erronea applicazione della recidiva e Sez.5,n.45360 del 04/10/2019, Rv.277956 – 01 che ha affermato che si verte in ipotesi di “pena illegale”, non già qualora il trattamento sanzionatorio sia di per sé complessivamente legittimo e il vizio attenga al percorso argomentativo attraverso il quale il giudice è giunto alla conclusiva determinazione dell’entità della condanna ma quando, la pena, così come indicata nel dispositivo, non sia per legge irrogabile, difettandone i presupposti applicativi).

Orbene, costituisce principio consolidato che, ai fini della configurabilità della recidiva reiterata, è necessario che il nuovo reato sia commesso dopo che le precedenti condanne siano divenute irrevocabili, in quanto l’autore del nuovo crimine deve essere in condizione di conoscere tutte le conseguenze penali che ne derivano e, quindi, anche quelle derivanti dal proprio “status” di recidivo reiterato (Sez.3-n. 57983 del 25/09/2018, Rv.274692 – 01; Sez.6, n.16149 del 03/04/2014,dep.11/04/2014,Rv. 259681 – 01; Sez. 2,n. 41806 del 27/09/2013, Rv.257242 – 01).

Nella specie, le prime tre precedenti condanne irrevocabili (decreto penale del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Nicosia esecutivo il 15/05/2008, decreto penale del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Nicosia esecutivo il 22/05/2008 e decreto penale del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Nicosia esecutivo il 11/12/2008) erano tutti relative a reati contravvenzionali- e quindi non rilevanti ai fini della sussistenza della recidiva e le successive condanne, queste relative a delitti, erano divenute irrevocabili in epoca successiva alla data del nuovo commesso reato (sentenza corte di appello di Caltanissetta irrevocabile il 23/10/2013, sentenza del Tribunale di Enna irrevocabile il 23/02/2014, sentenza del Tribunale di Enna irrevocabile il 15/03/2015, sentenza della Corte di appello di Caltanissetta irrevocabile il 31/03/2015).

Non sussistevano, quindi, i presupposti applicativi del disposto dell’art. 99, comma 4, cod.pen.

La sentenza va, quindi, annullata relativamente all’aumento di pena disposto per la recidiva, che va eliminato. Nel resto il ricorso va dichiarato inammissibile,

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla recidiva, circostanza aggravante che esclude, e per l’effetto elimina la relativa pena di mesi sei di reclusione. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.