Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 26287 depositata il 14 giugno 2019
Frode fiscale – Fatture per opere da realizzare – Rilevanza – Sussiste
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 3.10.2016 la Corte di Appello di Brescia, a parziale riforma della pronuncia resa dal Tribunale di Bergamo all’esito del primo grado di giudizio – che aveva ritenuto B.A. responsabile del reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000 per avere dichiarato, in qualità di legale rappresentante della s.r.l. G.B., nel Modello Unico 2010 avvalendosi di fatture relative ad operazioni inesistenti emesse nei confronti della società, elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo di € 881.200,00 al fine di evadere le imposte sul valore aggiunto nella misura di € 178,641 – ha limitato la penale responsabilità dell’imputato al minor importo a titolo di evasione IVA di € 140.400, riqualificando il fatto ai sensi dell’art. 2, terzo comma del citato art. 2 e perciò riducendo la pena inflittagli dal giudice di prime cure ad un anno di reclusione.
2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione, articolando due motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 2 d.lgs. 74/2000 e 26 d.P.R. 633/172 e al vizio motivazionale, che l’elemento oggettivo del reato potesse essere ravvisato nell’indicazione nella dichiarazione IVA di elementi passivi fittizi nonostante l’emittente non avesse effettuato alcuna nota di variazione e fosse comunque obbligata al versamento della relativa imposta, venendo in tal modo confusa la responsabilità dell’emittente le fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti con quella di chi le registra. Contesta inoltre che l’imputato abbia mai dichiarato di aver annotato le fatture in contestazione per far vedere alle banche maggiori entrate posto che a fronte di fatture passive di acquisto il danaro sarebbe stato di necessità destinato ad uscire e non ad entrare, di talché non poteva ritenersi da costui perseguita una finalità di evasione, tale essendo semmai l’obiettivo della società emittente. Contesta altresì che l’illecito possa configurarsi nell’indicazione dell’ammontare delle fatture nella dichiarazione fiscale nonostante l’imputato avesse la certezza che al momento della presentazione dell’Unico 2010 la ristrutturazione non sarebbe mai avvenuta posto che tale assunto è incompatibile con il disposto dell’art. 26 d.P.R. 633/1972 che prevede l’obbligo di riportare nella dichiarazione fiscale tutte le fatture registrate salvo che intercorrano note di variazione con le quali il cedente del bene o del servizio porti in detrazione l’importo corrispondente alla sopravvenuta variazione della prestazione fatturata (nella specie venuta integralmente meno), note della specie del tutto mancanti.
2.2. Con il secondo motivo eccepisce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 2 d.lgs. 74/2000 e al vizio motivazionale, l’insussistenza dell’elemento soggettivo non essendo sufficiente che l’annotazione del debito IVA porti una qualche utilità alla società dichiarante richiedendosi invece dalla norma ai fini del perfezionamento del reato un debito tributano suscettibile di essere evaso, certamente non configurabile in presenza di un’operazione che a fronte di un credito IVA di € 164.855,00 lo abbia ridotto con l’annotazione delle suddette fatture a circa 11.000 euro, conseguendone un vantaggio economico sostanzialmente inesistente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo, compendiandosi nella prospettazione di enunciati ermeneutici in palese contrasto con il dato normativo, è manifestamente infondato.
Sostiene il ricorrente che l’annotazione delle fatture in esame, emesse per lavori ancora da realizzare, e debitamente registrate dovesse essere obbligatoriamente effettuata nella dichiarazione fiscale stante la previsione di cui all’art. 26 d.P.R. 633/1972 che ne consente la mancata annotazione per effetto del venir meno della prestazione solo in presenza di una nota di variazione con la quale venga eliminato o ridotto l’ammontare imponibile. Il rilievo, peraltro mai svolto innanzi alla Corte di Appello, è palesemente inconferente atteso che la nota di variazione è una facoltà esercitabile dall’emittente della fattura, ovverosia dal cedente o prestatore del servizio, senza che la sua condotta rilevi ai fini del perfezionamento del reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, il cui soggetto attivo è solo l’utilizzatore delle fatture che risultino oggettivamente inesistenti, del tutto irrilevante restando invece quella dell’emittente che, ancorché ad essa speculare, è oggetto di tutt’altra fattispecie criminosa. L’eccezione è peraltro in se stessa contraddittoria posto che è lo stesso ricorrente ad affermare che nessuna nota di variazione possa essere emessa a fronte di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti.
La realtà è che il destinatario di una fattura per un’operazione oggettivamente inesistente non può esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta in carenza del suo presupposto e cioè dell’acquisto di beni e servizi nell’esercizio dell’impresa (Cass. Civ., Sez. 5, n. 2060 del 3.2.2016): in altri termini il diritto alla detrazione nasce per l’utilizzatore solo a fronte di operazioni, cessioni di beni o prestazioni di servizi che siano, effettivamente avvenute.
Del resto la circostanza che lo prestazioni attestate nelle fatture in questione concernenti lavori di ristrutturazione edilizia della sede della società G.B. fossero oggettivamente inesistenti nel senso che non abbiano mai avuto luogo non risulta essere stato adeguatamente contrastato dal ricorrente che si limita ad eccepire che al momento dell’emissione della fattura la prestazione fosse soltanto incerta e che solo successivamente si erano verificate le condizioni per cui la prestazione non poteva più essere resa stante la condizione di insolvenza della destinataria che l’aveva portata l’anno successivo prima al concordato preventivo e poi alla dichiarazione di fallimento. Ma oltre al rilievo che le fatture in questione non risultano essere state emesse anticipatamente rispetto alle prestazioni ivi indicate come pure l’art. 6 d.P.R. 633/1972 consente, e cioè sotto forma di acconto o di pagamento anticipato dei lavori da svolgere (non esiste contrattualmente una prestazione incerta), in ogni caso il reato risulta essersi perfezionato con la presentazione della dichiarazione annuale relativa ai redditi o all’IVA, allorquando l’imputato era a sua stessa detta consapevole dell’impossibilità che le opere asseritamente commissionate potessero essere realizzate. La scelta legislativa, conforme ai principi ispiratori della riforma del sistema tributario, di eliminare la rilevanza di situazioni di pericolo prodromiche rispetto all’evasione di imposta, rende del tutto ininfluente sul piano penale la pregressa registrazione delle fatture nella contabilità della società destinataria delle relative prestazioni, così come stabilito dall’art. 6 d.lgs. 74/2000 che ne ha escluso la punibilità anche a livello di tentativo, consistendo la condotta materiale del reato nella presentazione della dichiarazione annuale fraudolenta relativa alle imposte dirette o all’IVA. E poiché è pacifico che a quella data le prestazioni fatturate non erano né sarebbero mai venute ad esistenza, ciò e sufficiente a connotare le operazioni come oggettivamente inesistenti, conseguendone l’illiceità dell’annotazione delle relative fatture nel Modello Unico 2010 presentato dal G.B. s.p.a.
Quanto all’affermazione riportata dalla sentenza impugnata e proveniente dall’imputato in cui questi aveva fatto riferimento alla “necessità di mostrare alla banche maggiori entrate”, trattasi di affermazione a cui la stessa Corte lombarda non conferisce alcun rilievo limitandosi con corrette argomentazioni a stigmatizzare, a fronte della sua genericità non essendo evincibile dalla frase così come riportata quale fosse il soggetto che avesse una simile necessità, che se si fosse trattato della G. alla stessa sarebbe stato sufficiente al fine di documentare la propria capacità reddituale esibire le fatture emesse, mentre ove si fosse trattato della stessa società rappresentata dall’A. la finalità extra evasiva non avrebbe avuto ragione di essere perseguita.
2. Le stesse sorti segue anche il secondo motivo.
L’elemento soggettivo del reato costituito dal dolo specifico, finalizzato cioè dalla volontà di conseguire un’evasione di imposta, è comprovato dalla attestazione nella dichiarazione fiscale del 2010 di un consistente credito di imposta in luogo di un debito di circa 11.000 euro, che sarebbe stato tenuto a versare se non avesse fatto ricorso all’operazione evasiva attraverso le fatture inesistenti. Premesso che l’evasione del debito tributano è di per sé sufficiente ad integrare il reato e conseguentemente a configurare l’elemento soggettivo, nella specie l’imputato si è altresì precostituito un credito per l’anno di imposta successivo, da utilizzare in detrazione dell’IVA futura o in compensazione di altra imposta, fatto prodromico alla commissione di un futuro reato.
3. L’inammissibilità del ricorso non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p., (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000 – dep. 21/12/2000, De Luca, Rv. 217266), ivi compresa la prescrizione maturata in data 25.3.2018, ovverosia successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata.
Segue a tale esito la condanna del ricorrente a norma dell’art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi, alla luce della sentenza 13 giugno 2000 n. 186 della Corte costituzionale, per ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento di una somma equitativamente liquidata alla Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di € 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
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