Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 27404 depositata il 10 luglio 2024
importo confisca al netto delle sanzioni ed interessi
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 15/11/2023, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia emessa il 23/3/2023 dal Tribunale di Como, riduceva a tre anni di reclusione la pena inflitta a G.P. con riferimento a plurime violazioni del d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74 ed alla violazione dell’art. 494 cod. pen.
2. Propone ricorso per cassazione il G.P., deducendo i seguenti motivi:
– inosservanza o erronea applicazione dell’art. 11, decreto 74 del 2000, con riguardo all’elemento oggettivo del capo 3) della rubrica. Premesso che l’imputazione avrebbe ad oggetto ipotizzati atti di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposta realizzati dal G.P. con riguardo ad un debito personale IRPEF relativo agli anni 2014, 2015 e 2016, la censura rileva – e ribadisce – che il reato, pur integrando una fattispecie di pericolo, può essere consumato solo in presenza di un debito tributario, che non può essere soltanto potenziale; in capo al creditore erariale, pertanto, è necessario riscontrare una pretesa suscettibile di essere azionata coattivamente, come affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte. Ebbene, nel caso di specie tale debito erariale non sarebbe esistito al tempo contestato, maturando soltanto molti anni dopo – nel 2021 – con la notifica di tre avvisi di accertamento, poi definiti mediante accertamento con adesione; all’epoca del presunto fatto di reato, pertanto, il Palmiere avrebbe ricevuto soltanto un avviso di accertamento (non un atto impositivo) non preceduto da verifica, che lo stesso soggetto avrebbe peraltro provveduto a pagare regolarmente, con la citata adesione, fino al momento dell’arresto;
– la stessa censura è poi sollevata, con riguardo al medesimo capo 3), quanto all’elemento soggettivo. Premesso che la sentenza avrebbe trattato questo profilo con unica motivazione sui capi 3) e 4), si contesta che lo stesso sarebbe stato riconosciuto in forza della sola qualifica di commercialista propria del Palmiere, e della conseguente conoscenza del sistema tributario; nessun elemento, dunque, denoterebbe il dolo specifico richiesto dalla norma. Secondo la sentenza, peraltro, il ricorrente avrebbe tenuto condotte distrattive sin dal 2016 pur a fronte di un debito erariale conosciuto soltanto con gli avvisi di accertamento dell’aprile 2021, ossia di 5 anni successivi; un evento totalmente imprevedibile e non ipotizzabile, dunque, come tale incompatibile con il dolo richiesto. Negli stessi termini, poi, varrebbero l’accertamento con adesione concluso quanto ai medesimi avvisi ed i relativi pagamenti, che si porrebbero in evidente contrasto con l’elemento soggettivo del reato. In sintesi, nessun dato istruttorio confermerebbe il necessario dolo specifico, che, peraltro, dovrebbe riguardare non solo l’esistenza del debito, ma anche la sua consistenza: dolo che, evidentemente, il Palmiere non avrebbe potuto avere con 5 anni di anticipo;
– l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale sono poi contestate anche quanto al capo 4), ancora con oggetto l’art. 11, lgs. n. 74 del 2000. In ordine a questo reato, la condanna risulterebbe incomprensibile, dato che, ancora ad oggi, la società non avrebbe al riguardo alcuna pendenza con il fisco; mancherebbe del tutto, pertanto, l’idoneità – ossia il pericolo concreto – dell’operazione ritenuta fraudolenta a frustrare la procedura di riscossione forzosa. La motivazione della sentenza, dunque, risulterebbe palesemente viziata, trasformando un reato di pericolo concreto in reato di pericolo astratto, come una sorta di misura preventiva a fronte di un debito tributario puramente eventuale. A ciò si aggiunga, peraltro, che la sentenza non permetterebbe di comprendere a cosa si riferisse l’imposta evasa di cui al capo 4) in esame, non riscontrandosi alcun adeguato argomento sul punto. Infine sul profilo oggettivo del medesimo reato, il ricorso evidenzia che il comportamento tenuto dal ricorrente non avrebbe potuto incidere sulla procedura di riscossione, in quanto lo stesso avrebbe comunque lasciato sul conto corrente della “S.E.D. SOCIETA’ NUOVA CONSULENZA S.C.R.L.” (di seguito, Nuova Sed) la somma di 440.000 euro, ben superiore all’importo che si vorrebbe evaso;
– le medesime censure sono poi mosse – sempre con riferimento al capo 4) – quanto al dolo specifico. Sono richiamati gli stessi argomenti del secondo motivo di ricorso, ribadendosi inoltre che, in ordine a questa contestazione, mancherebbe ad oggi qualunque pendenza tra la società ed il fisco, così da non comprendersi affatto quale dolo specifico avrebbe sostenuto l’ipotizzata condotta (per la quale, peraltro, la difesa avrebbe offerto una versione alternativa non valutata dai Giudici);
– la violazione di legge è poi dedotta con riguardo alla confisca ordinata in relazione ai capi 3) e 4). In entrambe le ipotesi, la misura ablatoria sarebbe stata disposta in via diretta, ai sensi dell’art. 240, comma 1, cod. pen., riscontrandosi uno strumento del reato nei beni sequestrati (partecipazioni azionarie e 8 polizze assicurative), che dunque sarebbero stati riconosciuti quali cose che servirono o furono destinate a commettere l’illecito. Ebbene, questa affermazione sarebbe priva di ogni riscontro, in quanto eventuali strumenti del reato di cui all’art. 11, d. lgs. n. 74 del 2000, sarebbero i contratti utilizzati per la cessione delle quote, non la società stessa. Per costante giurisprudenza, inoltre, tale confisca diretta richiederebbe la prova di un nesso di pertinenzialità tra quanto oggetto di ablazione ed il fatto di reato, nel senso che il primo dovrebbe risultare indispensabile per l’esecuzione del secondo, in un nesso stabile e funzionale, cosicché l’illecito non avrebbe potuto essere commesso se non utilizzando quella cosa. Di tale “asservimento”, tuttavia, la sentenza non offrirebbe elementi;
– sempre con riguardo alla confisca per i capi 3) e 4), il ricorso richiama l’indirizzo secondo cui la misura potrebbe essere disposta soltanto a fronte del pericolo di reiterazione del reato, per il caso in cui il bene venga lasciato nella disponibilità dell’imputato. Nel caso di specie, mancherebbe ogni motivazione sul punto;
– ancora in tema di confisca, il ricorso contesta la violazione dell’art. 240 pen. e il vizio di motivazione della sentenza per violazione del principio di proporzionalità. Premesso che per entrambi i capi citati sarebbe stata disposta doppia confisca, diretta e per equivalente, si lamenta la mancanza di qualunque proporzione tra l’imposta evasa ed il valore di quanto ablato (pari a circa 1,5 milioni di euro in immobili, 1,05 milioni di euro in polizze e 440.000 euro in contanti). In questi termini, dunque, la misura avrebbe una valenza esclusivamente repressiva, eccedendo l’ammontare delle imposte dovute e, quindi, peggiorando la situazione patrimoniale del ricorrente rispetto ad epoca precedente all’illecito, con evidente violazione dei principi convenzionali ripetutamente affermati dalla CEDU;
– infine, il ricorso censura la violazione dell’art. 12-bis, d. lgs. n. 74 del 2000, con vizio di motivazione, sempre in relazione ai principi di proporzionalità e adeguatezza. Quanto al capo 3), la sentenza avrebbe erroneamente riconosciuto un profitto pari a 634.226,23 euro, sebbene l’imposta evasa corrisponda a 360.003,63 euro, non dovendosi a tal fine considerare le sanzioni. In ordine al capo 4), invece, la stessa pronuncia d’appello ammetterebbe che l’ammontare del presunto debito emergerebbe dal solo capo di imputazione, in mancanza di qualunque atto di indagine; questo argomento risulterebbe evidentemente insufficiente, dunque giustificando ancora l’annullamento della sentenza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta fondato limitatamente ad una parte dell’ultima censura; nel resto, è confermare.
4. Il primo motivo, con il quale si contestano la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al profilo oggettivo del reato di cui al capo 3), non può trovare accoglimento: la Corte di appello – con motivazione del tutto solida, logica ed ancorata a costanti principi giurisprudenziali – ha infatti negato fondatezza alla tesi difensiva (riprodotta anche in questa sede) secondo cui il debito erariale in esame sarebbe sorto soltanto nel 2021, con l’emissione di tre avvisi di accertamento relativi ad IRPEF 2014/2016, così non potendosi “leggere” gli atti di dismissione del 2016 nell’ottica sottrattiva dell’art. 11, d. lgs. n. 74 del 2000, contestato nello stesso capo.
4.1 In particolare, la sentenza di appello ha innanzitutto richiamato l’origine del debito personale contenuto nella rubrica, evidenziandone con precisione i fatti costitutivi, al pari, peraltro, di quanto contenuto nella pronuncia di primo grado (pagg. 13-16): ebbene, questa parte della motivazione non costituisce oggetto di ricorso, che in nessun passo sostiene – quanto al capo 3) – l’insussistenza del debito stesso, limitandosi ad affermare (nei termini appena richiamati) una sorta di incompatibilità logica e cronologica tra atti di cessione del novembre 2016 e del settembre 2018 ed una pretesa erariale che avrebbe assunto concretezza soltanto nella primavera 2021.
4.2 Ebbene, la Corte di merito ha ampiamente superato questa posizione difensiva, con numerosi e più che validi argomenti qui da confermare.
4.3 In primo luogo, è stata ricordata la differente formulazione dell’art. 11 in esame rispetto all’antecedente di cui all’art. 97, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, che sanzionava la medesima condotta di sottrazione fraudolenta sul presupposto, però, che i relativi atti fossero stati compiuti dopo che erano iniziati accessi, ispezioni e verifiche, o dopo che l’interessato aveva comunque ricevuto notifica di inviti, richieste, atti di accertamento o iscrizioni a ruolo. È stato ribadito, pertanto, il principio per cui, in tema di reati tributari, la fattispecie di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte di cui all’art. 11 in oggetto è diversa rispetto all’omologa fattispecie, oggi abrogata, di cui all’art. 97, comma sesto, citato, in quanto, a fronte della medesimezza sia dell’elemento soggettivo costituito dal fine di evasione ed integrante il dolo specifico, che della condotta materiale rappresentata dall’attività fraudolenta, la nuova fattispecie, da un lato, non richiede il presupposto materiale prima previsto dall’abrogata disposizione, ossia che l’amministrazione tributaria abbia già compiuto un’attività di verifica, accertamento o iscrizione a ruolo e, dall’altro, non richiede l’evento che, nella previgente disposizione, era essenziale ai fini della configurabilità del reato, ossia la effettiva vanificazione della riscossione tributaria coattiva (tra le molte, Sez. 3, n. 14720 del 6/3/2008, PM/Giglia, Rv. 239971. Successivamente, tra le non massimate, Sez. 3, n. 19603 del 21/4/2023, Tursi; Sez. 7, n. 41484 del 30/9/2022, Pino).
4.4 Di seguito, la sentenza impugnata ha ribadito (con 3, n. 39079 del 09/04/2013, Barei, Rv. 256376; Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2016, Pass., Rv. 266771) che, al fine della configurabilità del reato, non è più necessario l’effettivo avvio di un qualsiasi accertamento fiscale, essendo ora sufficiente che l’azione sia idonea a rendere inefficace l’esecuzione esattoriale, configurandosi dunque l’illecito penale in termini di reato di pericolo concreto (sul punto cfr. Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2006, Pass., Rv. 266771), integrato dal compimento di atti simulati o fraudolenti volti a occultare i propri o altrui beni, idonei – secondo un giudizio ex ante che valuti la sufficienza della consistenza patrimoniale del contribuente rispetto alla pretesa dell’erario – a pregiudicare l’attività recuperatoria dell’amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 46975 del 24/05/2018, F., Rv. 274066). Poiché il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è reato di pericolo, per il quale non rileva l’avvenuta emissione, in tutto o in parte, di cartelle esattoriali, per la sua configurabilità è dunque richiesta soltanto l’esistenza di un credito erariale relativo, per capitale, interessi e sanzioni, a imposte sui redditi o sul valore aggiunto, suscettibile di essere azionato coattivamente (Sez. 3, n. 37178 del 30/09/2020, Pisciottano, Rv. 280449; Sez. 3, n. 10763 del 12/02/2021, Filip, Rv. 281329, secondo cui è sufficiente, quale presupposto del reato, l’esistenza, al momento della condotta illecita, di un debito verso l’Amministrazione finanziaria, sebbene non ancora precisamente determinato, ed eventualmente nemmeno oggetto di procedure di accertamento, purché per un ammontare complessivo stimabile in una somma superiore alla soglia di punibilità); senza che, pertanto, sia necessaria la effettiva conoscenza, da parte dell’imputato, dell’esatto importo dovuto all’Erario, come invece sostenuto nel ricorso.
4.5 In forza delle solide considerazioni che precedono, e ribadito il carattere non contestato della pretesa creditoria poi confluita nel capo 3), la motivazione della sentenza risulta dunque priva di vizi ed immeritevole di censura, laddove ha rigettato la tesi difensiva della netta posterità del sorgere dell’obbligazione tributaria rispetto agli atti dispositivi contestati ex 11. L’istruttoria, per contro, aveva dimostrato come fosse stata la nascita delle obbligazioni tributarie a porsi come anteriore – sempre su piano logico e cronologico – rispetto agli atti tipici; obbligazioni che avevano trovato il proprio fondamento in una pluralità di operazioni commerciali poste in essere dal ricorrente, volte all’illecito sfruttamento di agevolazioni fiscali riservate alle organizzazioni senza scopo di lucro (e sulle quali si è ampiamente sviluppata la sentenza di primo grado, richiamata da quella di appello). Da ciò, erano quindi derivati gli atti menzionati nel capo in esame, la cui natura simulata è stata diffusamente descritta dal G.i.p. (pagg. 23-24), con argomenti che il ricorso, ancora, neppure menziona, tantomeno contesta; al pari, peraltro, delle numerose operazioni – compiute tra il 2013 ed il 2016 e riportate analiticamente alle pagg. 18-22 della prima sentenza – con le quali il G.P. aveva acquisito la piena disponibilità di un vasto patrimonio immobiliare, a sé formalmente non intestato.
4.6 Il primo motivo di impugnazione, pertanto, è infondato.
5. Le stesse considerazioni consentono poi al Collegio di rigettare anche il secondo motivo di ricorso, che – sempre con riguardo al capo 3) – contesta l’assenza del dolo specifico e il relativo vizio di motivazione.
5.1 Entrambe le sentenze di merito si sono espresse sul punto ancora con una motivazione del tutto adeguata, priva di illogicità manifesta o di contraddizioni. In particolare, all’esito di una lettura congiunta di tutte le contestazioni mosse all’imputato e riscontrate, non di una loro valutazione distinta ed atomistica, come invece nel ricorso, la Corte di appello ha richiamato le considerazioni già svolte dal primo Giudice; è stato così evidenziato che l’imputato, nella piena consapevolezza della propria posizione debitoria nei confronti dell’erario, aveva sottratto tutti i propri beni al pagamento delle imposte, sino a risultare nullatenente, avvalendosi anche delle competenze specifiche derivanti dalla professione di commercialista, in un evidente contesto soggettivo di dolo specifico.
5.2 Non può essere condivisa, pertanto, la censura secondo cui la responsabilità del G.P. sarebbe stata affermata alla luce della sola veste professionale ricoperta, senza indicare “un qualche elemento di sospetto”: l’argomento speso dalla Corte di appello, così come in primo grado, non si limita infatti a questa affermazione, ma evidenzia che proprio le competenze tecniche dell’imputato gli avevano consentito di muoversi adeguatamente all’interno del sistema tributario, così adottando strategie di evasione fiscale, mediante una (pacifica) pluralità di atti tra loro collegati, la cui unica ragione economica doveva riscontrarsi nel dolo specifico di cui all’art. 11, lgs. n. 74 del 2000. Tale elemento psicologico, pertanto, doveva esser verificato con riguardo al momento in cui gli atti di sottrazione erano stati realizzati, non a quello di emissione degli avvisi di accertamento, dovendosi sul punto ribadire l’irrilevanza di questi ultimi nell’ottica del reato contestato; e senza che, peraltro, rilevi l’avvenuta adesione con cui lo stesso G.P. aveva definito la procedura tributaria, di natura amministrativa, il cui esito era in ogni caso irrilevante in presenza di una condotta connotata da tutti gli elementi richiesti dalla norma penale.
6. Alle medesime conclusioni, di seguito, la Corte giunge quanto al terzo motivo di ricorso, che riguarda il profilo oggettivo del capo 4), contestato ancora ai sensi dell’art. 11, d. lgs 74 del 2000; non può essere condivisa, infatti, la tesi difensiva secondo cui ad oggi non esisterebbe alcun debito tributario, né, pertanto, alcun pericolo concreto quanto ad una possibile azione di riscossione coattiva da parte dell’Erario.
6.1 Debbono essere ribadite, anche in ordine a questo capo, le medesime considerazioni sopra richiamate, che, infatti, la Corte di appello ha correttamente speso – con logico argomento – con riguardo ad entrambe le contestazioni di sottrazione fraudolenta (capi 3 e 4), in presenza di analoghi presupposti di fatto e dello stesso atteggiamento psicologico.
6.2 Quanto ai primi, già il G.i.p. aveva sottolineato (pagg. 24-25) che la “Nuova Sed” era suscettibile di azione di recupero coatto da parte dell’Amministrazione finanziaria, avendo maturato un debito tributario in ragione dell’annotazione in contabilità – e utilizzo a fini dichiarativi – di fatture per operazioni inesistenti, oggetto di contestazione al G.P. ai sensi dell’art. 8, lgs. n. 74 del 2000, con accertamento di responsabilità ormai definitivo in assenza di ricorso sul relativo capo 2). Si era così precisato che il ricorrente, quale presidente del consiglio di amministrazione e socio della utilizzatrice, era di certo del tutto consapevole che questa potesse essere destinataria di un’azione dell’Erario, ed aveva così compiuto gli atti fraudolenti indicati in rubrica, sui beni dello stesso ente, nei termini che la sentenza di primo grado richiama ancora alla pag. 24. Termini, peraltro, sui quali il ricorso non spende alcuna considerazione, così come – si ribadisce – sull’intera contestazione contenuta nel capo 2).
6.3 Muovendo da questa premessa, e richiamando la giurisprudenza già citata con riferimento al capo 3) quanto ai rapporti tra la condotta di cui all’art. 11 e lo sviluppo del procedimento amministrativo tributario, anche in ordine all’eventuale e futura emissione di avvisi di accertamento, entrambe le sentenze di merito hanno dunque riscontrato il presupposto oggettivo del capo 4), con una motivazione basata ancora su concreti elementi istruttori e priva di alcuna illogicità. In senso contrario, peraltro, il terzo motivo di ricorso non può essere accolto neppure laddove sostiene che le sentenze (oltre ad affermare l’esistenza di un debito non provato) non avrebbero chiarito l’importo dell’imposta evasa, compiendo sul punto un mero rinvio al citato capo 2) della rubrica; alla pag. 30 della pronuncia di appello, infatti, la Corte ha ribadito che la condotta di cui all’art. 11 in esame trovava la propria premessa – nuovamente logica e cronologica – proprio nel citato capo 2), e dunque nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti nei confronti della “Nuova Sed”, con conseguente quantificazione delle somme non versate dovute all’Erario.
6.4 Con riguardo, infine, all’ultimo argomento a sostegno del terzo motivo di ricorso (secondo cui la condotta contestata non avrebbe avuto alcun effetto sulla riscossione, in quanto sul conto corrente della società sarebbe stato sequestrato un importo superiore all’imposta evasa), la Corte ne rileva la manifesta infondatezza; l’affermazione è infatti puramente fattuale e propria della sola fase di merito, oltre a creare un parallelismo evidentemente improprio – anche alla luce dell’ampio tempo trascorso tra i due momenti – tra la data degli atti di sottrazione fraudolenta (13/5/2019), unica da valutare, e quella di esecuzione del decreto di sequestro preventivo (19/9/2022).
7. Le medesime considerazioni già spese quanto al dolo del capo 3) valgono, poi, anche con riguardo allo stesso profilo sollevato sul capo 4), oggetto del quarto motivo di ricorso.
7.1 Con tale censura si contesta che nessun dolo specifico potrebbe essere riscontrato per questa ipotesi di reato, in quanto non esisterebbe – neppure oggi – una pretesa tributaria suscettibile di essere azionata coattivamente. Ebbene, sul punto basti richiamare quanto sopra sostenuto in ordine al rapporto tra l’art. 11 in contestazione ed il procedimento amministrativo tributario, la cui pendenza non risulta necessaria (né tantomeno l’emissione di avvisi di accertamento) perché venga riscontrata la consumazione del delitto.
7.2 Analogamente, non può essere condivisa l’affermazione secondo cui il dolo specifico sarebbe stato riconosciuto soltanto in ragione della qualifica di commercialista propria del G.P.; anche su tale profilo si richiamano le considerazioni già spese.
7.3 Infine, con riferimento alla tesi alternativa proposta dalla difesa, che la sentenza non avrebbe valutato, il Collegio riscontra il carattere generico della censura, che non indica l’oggetto della tesi medesima, la sua portata dimostrativa e l’eventuale incidenza per escludere la colpevolezza dell’imputato quanto al capo 4).
8. I motivi di ricorso 5 e 6, in tema di confisca diretta ex art. 240, comma 1, cod. pen., risultano inammissibili, in quanto le questioni che pongono non avevano costituito argomento di gravame, non potendo, pertanto, essere sollevate per la prima volta in questa sede.
8.1 In particolare, con l’atto di appello il G.P. si era limitato a sostenere (pag. 23) che le quote societarie e le polizze sottoposte a sequestro quanto ai capi 3 e 4 “non sono lo strumento con cui il reato è stato commesso e non possono essere confiscati ai sensi dell’art. 240 primo comma c.p. (…). Gli strumenti sono tutt’al più i contratti utilizzati per la cessione delle quote”.
Nessuna ulteriore considerazione era stata spesa al riguardo.
8.3 Con il ricorso per cassazione, invece, lo spettro delle questioni è stato notevolmente ampliato, e ne è mutato anche il presupposto: mentre con l’appello era stata contestata (sia pur nei termini molto sintetici appena richiamati) la confisca diretta dei beni ai sensi dell’art. 240 cod. , sulla considerazione che le quote e le polizze non potessero costituire strumento del reato, nel ricorso in esame si prendono invece le mosse proprio da questo inquadramento, offerto prima dal Tribunale, quindi dalla Corte di appello, e si sollevano specifiche contestazioni a tale proposito. Con il motivo n. 5, in particolare, si lamenta l’assenza di presupposti per disporre tale confisca diretta, non risultando dalla sentenza un collegamento stabile e funzionale tra la cosa ed il reato, né l’indispensabilità della prima per commettere il secondo, nell’ambito di un rapporto di asservimento essenziale e non meramente occasionale: ebbene, questa prospettazione è del tutto assente nel motivo di gravame citato, sebbene la confisca diretta (al pari di quella per equivalente) fosse stata disposta con la sentenza di primo grado. Analogamente, con il motivo n. 6 si contesta che la decisione non conterrebbe argomento in ordine al pericolo di reiterazione del reato, invero da ravvisare per escludere che la res – dunque, da confiscare – possa rimanere nella disponibilità del ricorrente; ebbene, anche questa censura è assente nell’atto di appello, e non può, pertanto, essere sollevata per la prima volta nel giudizio di legittimità.
9. I motivi nn. 6 e 7, che contestano la violazione dei principi di proporzionalità ed adeguatezza con riguardo alla confisca diretta e per equivalente sui capi 3) e 4), risultano invece ammissibili, ma solo parzialmente fondati.
9.1 Premesso che la questione, diversamente dalle precedenti, era stata inserita nell’atto d’appello, seppur con un’unica considerazione molto sintetica (pagg- 24-25), la Corte rileva che la sentenza ha fatto corretta applicazione di tali principi, tenendo conto di quanto documentalmente già versato dal G.P. all’Erario, al fine di limitare la misura ablativa ad un importo complessivamente non superiore alla pretesa tributaria azionabile; da ciò, la riduzione degli importi da confiscare, quanto sia al capo 3) che al capo 4). E senza che, in questa sede, si possa procedere ad ulteriori calcoli, come sollecitato nel ricorso, trattandosi di questione propria del solo giudice del fatto.
9.2 I principi di proporzionalità ed adeguatezza, pertanto, hanno trovato pieno rispetto per i capi in esame, non riscontrandosi alcun vizio nella sentenza impugnata. Con la precisazione, peraltro, che sebbene la questione sia stata posta nel ricorso attraverso due distinti motivi, l’uno riguardante la confisca diretta e l’altro la confisca per equivalente, la sua soluzione passa attraverso un unico argomento – quello appena richiamato – risultando evidente che il giudizio sulla corretta quantificazione della misura, sulla sua misura, può riguardare soltanto il bene confiscato in termini di valore, non anche quello che subisce il vincolo quale strumento del reato ai sensi dell’art. 240, comma 1, cod. pen.
9.3 L’ultimo motivo di ricorso, peraltro, contiene una ulteriore, duplice contestazione.
9.3.1 La prima, relativa al capo 4), è infondata, ribadendo che il profitto del reato ex 11, d. lgs. n. 74 del 2000 qui ascritto sarebbe “inesistente”, difettando una qualunque pretesa tributaria azionata; al riguardo, si rimanda alle considerazioni sopra sviluppate. Ancora sul medesimo capo, il ricorso poi sottolinea che sarebbe la stessa Corte di appello ad affermare che il presunto debito emergerebbe soltanto dal capo di imputazione, così da non risultare provata la sua esistenza. Questa considerazione, tuttavia, trascura quanto già rilevato dalla stessa sentenza in ordine all’effettiva esistenza del debito, come sopra già riportato, con la specificazione che il suo esatto ammontare è stato correttamente individuato nella misura del capo d’imputazione, decurtato di quanto già versato all’Erario.
9.3.2 La seconda questione, relativa al capo 3), risulta, per contro, fondata, contestando che il valore confiscato possa essere calcolato tenendo conto anche delle sanzioni tributarie. Per costante e condivisa giurisprudenza, infatti, in tema di reati tributari il profitto di delitti consistenti nell’evasione dell’imposta per mezzo di omessa, infedele o fraudolenta dichiarazione o di omesso versamento, che può essere oggetto di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale e non comprende anche le sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione (tra le altre, Sez. 3, n. 17535 del 6/2/2019, Antonelli, Rv. 275445; Sez. 3, n. 28047 del 20/1/2017, Giani, Rv. 270429).
10. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata senza rinvio limitatamente alla inclusione della voce delle sanzioni nell’ammontare della confisca, rinviando ad altra sezione della Corte di appello di Milano per la quantificazione dell’importo, con rigetto del ricorso nel resto.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla inclusione della voce delle sanzioni nell’ammontare della confisca e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Rigetta nel resto il ricorso.