CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 27599 depositata il 6 ottobre 2020
Tributi – Reati tributari – Acquisto di crediti d’imposta da utilizzare in compensazione inesistenti – Provvedimento di sequestro preventivo nei confronti della società e del legale rappresentante – Legittimità – Procedimento – Ricorso in sede cautelare reale di legittimità – Sindacato valutativo delle risultanze probatorie – Inammissibilità
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza 6.12.2019, il tribunale del riesame di Brescia confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP/tribunale di Brescia in data 23.09.2019, nei confronti, per quanto qui rileva, della s.r.l. A. Italy e del ricorrente R., legale rappresentante, sino a concorrenza della somma di € 215.416,81.
2. Per migliore intelligibilità dell’impugnazione proposta in questa sede, va precisato che si procede per il delitto di cui all’art. 10-quater, d. Igs. n. 74 del 2000 (capo 16) e che, secondo l’impostazione accusatoria, l’indagato, nella qualità di legale rappresentante della società predetta, avrebbe consapevolmente acquistato crediti inesistenti da porre in compensazione da una consorteria criminale che, oltre a tale “servizio”, offriva una serie di “prestazioni ulteriori” concernenti la redazione del mod. F24 e la consegna della documentazione contrattuale attestante l’avvenuta cessione del credito, da esibire in caso di verifiche fiscali. Per quanto emerge dall’ordinanza impugnata, poi, il sequestro è stato eseguito sulle somme giacenti sul c/c intestato alla società, su un immobile di proprietà del R. e sulle somme di denaro giacenti sul c/c del medesimo indagato.
3. Contro l’ordinanza ha proposto congiunto ricorso per cassazione, nell’interesse della società e dell’indagato, quale legale rappresentante della stessa, il difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, cod. proc. pen., articolando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3.1. Deduce, con il primo motivo, violazione di legge in relazione all’art. 10-quater, d. Igs. n. 74 del 2000 e correlato vizio di omessa motivazione o apparenza della motivazione per contraddittorietà extra ed intra testuale.
Premesso il contenuto del ricorso ex art. 324, c.p.p., la difesa ripropone la tesi sostenuta davanti ai giudici del riesame secondo cui il duplice accollo perfezionatosi, rispettivamente, in data 13.09.2017 e in data 2.11.2017 dalla A. s.r.l., doveva intendersi come idoneo a far ritenere estinto l’originario debito di imposta della società predetta, per come riemerso a seguito dell’avvenuto azzeramento della primigenia compensazione. Tale intervento sarebbe stato compiuto per sanare gli effetti dell’illecita operazione perpetrata da tale S. con altri correi in danno del R. e dalla società A. s.r.l. Quanto sopra, aggiunge la difesa, sarebbe stato confermato dalla sentenza CTP di Roma n. 13205/2019 che aveva accolto le ragioni della A. s.r.l., ritenendo non applicabile la risoluzione n. 140/E dell’Agenzia delle Entrate del 13.11.2017 ai pagamenti dei debiti accollati, effettuati tramite compensazione, prima della pubblicazione della medesima risoluzione – come chiarito dal medesimo documento di prassi – con la conseguenza, evidenziata anche nella predetta sentenza della CTP, che risulterebbe la buona fede del contribuente, suffragata anche dal fatto che l’Ufficio non aveva formulato alcuna censura in merito all’esistenza ed al quantum dei crediti portati in compensazione, laddove tuttavia la datazione del pagamento, anteriore al 15.11.2017, imponeva l’annullamento dell’avviso di accertamento. Si aggiunge, poi, che nell’istanza di riesame era stata dedotta la discrepanza tra l’addebito cautelare, che si fondava su un’illecita compensazione per un ammontare complessivo di € 215.416,81, incentrato sull’illecito inoltro del mod. F24 inoltrato il 20.06.2017, che tuttavia evidenziava una compensazione per la minor somma di € 83.935,21.
Sul primo rilievo, l’ordinanza impugnata aveva ritenuto non dirimente la sentenza della CTP che si sarebbe pronunciata genericamente sull’ammissibilità dell’accollo in ambito tributario in data antecedente alla richiamata risoluzione dell’Agenzia delle Entrate, aggiungendo i giudici del riesame che la CTP di Roma aveva espressamente precisato che, in tale procedimento, l’A.d.E. non aveva dedotto censure in ordine all’esistenza ed al quantum dei crediti portati in compensazione. Sul secondo rilievo difensivo, l’ordinanza, invece, non avrebbe speso alcuna parola.
Alla luce di quanto sopra, pertanto, la difesa sostiene che l’ordinanza sarebbe affetta dai vizi denunciati, anzitutto, perché la sentenza della CTP non si sarebbe limitata a pronunciarsi genericamente sull’ammissibilità dell’accollo ed a rimarcare che l’A.d.E. non aveva dedotto censure in ordine all’esistenza ed al quantum dei crediti portati in compensazione, ma stava a significare che la stessa Agenzia riteneva l’accollo, come concluso, del tutto legittimo ed operante, con conseguente estinzione dell’originario debito di imposta illegittimamente compensato, ciò che integrerebbe il vizio denunciato di omessa/apparente motivazione anche sotto il profilo dell’illogicità della stessa per contraddittorietà intra ed extra-testuale. Quanto, poi, al secondo rilievo afferente alla citata “discrepanza” il silenzio motivazionale sul punto proverebbe chiaramente il vizio di omessa motivazione denunciato.
3.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 10-quater, d. Igs. n. 74 del 2000, e 43, c.p., e correlato vizio di omessa/apparente motivazione anche sotto il profilo della contraddittorietà intra ed extra-testuale.
Premesse una serie di considerazioni in fatto quanto all’omessa attività di partecipazione del ricorrente alla condotta illecita contestata, sostiene il ricorrente di essere stato vittima di un imbroglio grossolano ordito ai suoi danni dalla coppia S./Marchese, come comprovato dalla nullità dell’operazione di compensazione operata dal S. in difetto di autorizzazione della s.r.l. A. e con modalità cartacee anziché telematiche, cui si accompagnerebbe la mancanza di qualsivoglia consapevolezza del R. dei comportamenti illeciti posti in essere dalla predetta coppia ai danni della società. Quanto sopra, ad avviso del ricorrente, renderebbe evidente la mancanza dell’elemento psicologico del reato in capo all’indagato, tesi rispetto alla quale, tuttavia, l’ordinanza impugnata sarebbe censurabile per i dedotti vizi, non essendo accettabile quanto affermato nel provvedimento secondo cui la sussistenza del dolo sarebbe certa in base alla giurisprudenza secondo cui, a fronte della spendita di un credito inesistente, la configurabilità dell’elemento psicologico sarebbe in re ipsa. Tale soluzione, sostiene la difesa del ricorrente, non avrebbe tenuto conto della singolarità del caso esaminato, considerato che, nella specie, si era in presenza di una vera e propria truffa subita dal R. e dalla società di cui era legale rappresentante, per mano del Marchese con la complicità del S., truffa denunciata in sede di merito. Sul punto, l’ordinanza sarebbe censurabile per essersi disinteressata della tesi difensiva, ma, anzi, affermando che la fattura di circa 19.000,00 euro con causale “consulenze” emessa dal Marchese e pagata dalla A. s.r.l., aveva in realtà sottaciuto la cessione del credito inesistente speso dalla A. per formalizzare la compensazione oggetto di addebito. Tale affermazione, nell’ottica difensiva, avrebbe avvalorato la tesi del ricorrente, rendendo illogica la soluzione, in quanto la società avrebbe pagato l’acquisto di un credito inesistente di cui sarebbe stata già titolare, essendo pacifico che si trattava di un credito proprio. I giudici, a tale argomentazione, avrebbero replicato indirettamente, da un lato affermando apoditticamente che l’eccezione difensiva secondo cui il mod. F24 del 20.06.2017 avrebbe dovuto essere inviato per via telematica anziché cartacea, era inverosimile considerata la natura tecnica e sensibile dei dati ivi contenuti. Dall’altro, con travisamento probatorio evidente, per aver i giudici attribuito valenza dimostrativa del dolo alle e-mail tra il B. (commercialista esterno del gruppo GESI) e il R. (consulente della A.), di cui in ricorso viene fornita una lettura in senso diverso da quello operato dal tribunale del riesame.
4. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta in data 22 giugno 2020, ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
5. Con memoria datata 3.07.2020, la difesa dei ricorrenti, nel documentare l’intervenuta irrevocabilità della decisione della sentenza della Commissione tributaria Provinciale di Roma (attestata in data 30.03.2020: all. 1), ha ribadito la propria tesi della non configurabilità del delitto ipotizzato di indebita compensazione riportando alcuni passaggi significativi della motivazione del giudice tributario.
Ha poi insistito sul preteso ravvedimento dell’Agenzia delle Entrate che avrebbe prestato acquiescenza a tale decisione, procedendo allo sgravio del carico fiscale pendente nei confronti dell’A. s.r.l., allegando il relativo documento da cui risulterebbe che il debito tributario della società fosse pari a “0” (all. 2, che reca la data del 30.12.2019). Alla luce di quanto sopra, ha, quindi, insistito sia sulla insussistenza dell’elemento materiale del reato che dell’elemento intenzionale, attesa la buona fede di cui verrebbe dato atto nella sentenza del giudice tributario sopra richiamata. Ne discenderebbe l’illegittimità del disposto sequestro, insistendosi pertanto nell’accoglimento del ricorso.
Considerato in diritto
1. Il congiunto ricorso, trattato ai sensi dell’art. 83, comma 12-ter del D.L. n. 18/2020, convertito in L. n. 27/2020, è senz’altro inammissibile.
2. Deve, anzitutto, premettersi che non è valutabile da parte di questa Corte quanto argomentato nella memoria difensiva del 3.07.2020, ivi inclusa la documentazione prodotta in allegato, atteso che quanto rappresentato nella memoria in questione attiene a fatti successivi alla decisione impugnata.
L’ordinanza del tribunale del riesame di Brescia è del 6.12.2019, laddove, da un lato, l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza CTP/Roma è attestato in data 30.03.2020, mentre il provvedimento di sgravio reca la data del 30.12.2019. Si tratta, pertanto, di documentazione che non era conosciuta dal giudice dell’impugnazione cautelare di merito al momento della decisione sull’istanza di riesame, la quale, comportando accertamenti di fatto, non può essere oggetto di delibazione da parte di questa Corte, cui spetta la valutazione della legittimità del provvedimento impugnato alla luce degli atti valutabili (e valutati) al momento della decisione sull’istanza di riesame.
E’ infatti pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che nel giudizio di legittimità possono essere prodotti esclusivamente i documenti che l’interessato non sia stato in grado di esibire nei precedenti gradi di giudizio, sempre che essi non costituiscano “prova nuova” (e tale lo è sicuramente il provvedimento di sgravio) e non comportino un’attività di apprezzamento circa la loro validità formale e la loro efficacia nel contesto delle prove già raccolte e valutate dai giudici di merito, circostanza quest’ultima che assume valenza assorbente, in quanto la Corte sarebbe chiamata – proprio per il tenore della memoria difensiva 3.07.2020 – a svolgere un’attività di apprezzamento sugli stessi (v., da ultimo, tra le tante: Sez. 2, n. 42052 del 19/06/2019 – dep. 14/10/2019, PMT C/ Moretti, Rv. 277609).
3. Tanto premesso, alla luce delle risultanze processuali valutabili al momento della decisione – ed impregiudicata qualsiasi valutazione in fatto da parte del giudice competente nel merito in ordine alla rilevanza sul piano probatorio della documentazione prodotta davanti a questa Corte – il ricorso, come anticipato, è inammissibile.
3.1. E’ anzitutto affetto da genericità per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nell’ordinanza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi motivazionali le identiche doglianze difensive svolte nei motivi di riesame (che, vengono, per cosi dire “replicate” in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elementi di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
3.2. Lo stesso è, inoltre, in parte, manifestamente infondato, atteso che il tribunale del riesame ha, con motivazione tutt’altro che apparente (e men che mai qualificabile come omessa) spiegato le ragioni per le quali ha disatteso le identiche doglianze difensive esposte nei motivi di riesame.
In parte, il ricorso è poi inammissibile perché proposto per motivi non consentiti in questa sede.
Ed invero, deve ribadirsi che in tema di misure cautelari reali, costituisce violazione di legge deducibile mediante ricorso per cassazione soltanto l’inesistenza o la mera apparenza della motivazione, ma non anche la sua illogicità manifesta, ai sensi dell’art. 606, comma primo, lettera e), cod. proc. pen. (da ultimo: Sez. 2, n. 5807 del 18/01/2017 – dep. 08/02/2017, Zaharia, Rv. 269119); quando il ricorso per cassazione è consentito solo per violazione di legge (come è previsto, in materia di misure cautelari reali, dall’art.325 c.p.p.), dunque non possono essere dedotte come motivo a sostegno del medesimo la “contraddittorietà” o la “manifesta illogicità” della motivazione, specificamente previste come vizi di motivazione dall’art.606, comma 1, lett.e), c.p.p.
Quanto sopra rende dunque inammissibili le censure svolte con entrambi i motivi di ricorso, alla luce della non deducibilità, in questa sede cautelare di legittimità, del vizio di motivazione contraddittoria o manifestamente illogica.
3.3. Premesso, poi, che entrambi i motivi meritano congiunta trattazione, attesa l’intima connessione dei profili di doglianza mossi (e comunque dovendosi rilevare la novità della deduzione operata con il primo motivo, essendo palese dall’ordinanza impugnata che le doglianze difensive mosse in sede di riesame ex art. 324, c.p.p., erano rivolte a censurare l’ordinanza genetica per aver ritenuto configurabile l’elemento psicologico del reato ipotizzato in sede di contestazione cautelare, donde il primo motivo, incentrato sulla eccepita non configurabilità del fumus del delitto di indebita compensazione, appare inammissibile per essere stata la doglianza dedotta per la prima volta dinanzi a questa Corte), gli stessi si appalesano comunque manifestamente infondati, alla luce delle dettagliate argomentazioni sviluppate dal tribunale del riesame.
Si legge, in particolare, nell’ordinanza impugnata, che l’indagato non ha contestato davanti ai giudici del riesame le indebite compensazioni (provate per tabulas dalla presentazione dei modelli F24 presso l’Agenzia dell’entrate), bensì di non essere stato a conoscenza dell’inesistenza dei crediti. In merito, correttamente il tribunale ha richiamato il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità a mente del quale, in materia di indebite compensazioni, l’inesistenza del credito è di per sé indicativa dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 10 quater D.lgs. n. 74/2000, sussistendo in capo all’imprenditore un onere di verifica di quanto dichiarato nelle scritture contabili, specie ove, come nel caso di specie, possa derivarne un ingente vantaggio fiscale, portando in compensazione centinaia di migliaia di euro di crediti inesistenti (79.980,35 euro per l’anno 2017 e 104.590,72 euro per l’anno 2018) con debiti maturati nei confronti dell’Erario.
Ed invero, in punto di elemento soggettivo del reato, questa Corte ha più volte chiarito che, in tema di reato di indebita compensazione di crediti previsto dall’art. 10 quater del d.lgs. n. 74 del 2000, sotto il profilo soggettivo, l’inesistenza del credito costituisce di per sé, salvo prova contraria, un indice rivelatore della coscienza e volontà del contribuente di bilanciare i propri debiti verso l’Erario con una posta creditoria artificiosamente creata, ingannando il fisco, mentre, nel caso in cui vengano dedotti crediti “non spettanti”, sebbene certi nella loro esistenza e ammontare, occorre provare la consapevolezza da parte del contribuente che il credito non sia utilizzabile in sede compensativa” (Cass. Sez. IlI, n. 5934 del 12/09/2018 – dep. 07/02/2019, Rv. 275833-02).
3.4. Tanto premesso, i giudici del riesame, riferendosi alla fattispecie in esame, hanno rilevato come le risultanze investigative e le concrete modalità delle operazioni fraudolente consentono di desumere chiaramente la consapevolezza dell’imprenditore di aderire, per evidenti ragioni di convenienza, al meccanismo illecito delle indebite compensazioni. Ed invero, nell’ordinanza si valorizza, anzitutto, il fatto che, dalla documentazione fiscale in atti (modelli F24 e “riepilogo contabile” dell’Agenzia delle Entrate) e dalla documentazione prodotta dalla difesa, risulta che l’indagato ha acquistato i crediti inesistenti per importi significativamente inferiori al valore nominale degli stessi (corrispondendo una somma pari al 9% del loro valore – 19.177,07 euro a fronte di crediti per 215.416,81 euro – come emerge dalla stessa fattura prodotta dalla difesa). Sul punto, i giudici del riesame evidenziano come, ferma restando l’evidente anomalia di un’operazione finanziaria che preveda l’acquisto di un credito al 9% del suo effettivo valore (sproporzione palese anche a chi, a differenza del ricorrente, non si occupi di attività imprenditoriale), ciò che rende manifesta la piena consapevolezza circa l’inesistenza dei crediti è che il R. non ha mai versato alcun corrispettivo alle imprese cedenti, corrispondendo il compenso pattuito sempre ed esclusivamente alla società di consulenza rappresentata da Marchese, mero intermediario delle operazioni di cessione o accollo del credito inesistente. Peraltro, si aggiunge nell’ordinanza, la causale della fattura attiene a prestazioni di consulenza, con la conseguenza che ove tale pagamento non si imputasse alla cessione del credito (come vorrebbe anche la difesa), dovrebbe concludersi per la gratuità dell’acquisto di un credito del valore di oltre duecentomila euro, il che comproverebbe, per i giudici del riesame, a maggior ragione, la coscienza dell’illiceità dell’operazione. A ciò si aggiunge, nell’ordinanza, un duplice rilievo. Da un lato, la peculiare disciplina dei crediti acquistati dal R., espressamente dichiarati incedibili e privi dei prescritti visti di conformità. Dall’altro la condizione oggettiva delle imprese cedenti (evasori totali, fallite o inattive da anni), circostanze che dimostrano l’esistenza di un pregresso accordo tra gli ideatori della frode e il ricorrente, finalizzato a remunerare il gruppo criminale per i “servizi” illeciti offerti (credito inesistente, compilazione del modello F24, fornitura dei contratti da esibire in caso di accertamenti fiscali).
3.5. Il tribunale del riesame, peraltro, non si sottrae al proprio ruolo di giudice di garanzia della legittimità del provvedimento cautelare genetico, confrontandosi specificamente con le doglianze difensive dedotte in sede di riesame.
Anzitutto, confuta l’assunto difensivo secondo cui i modelli F24 in questione sarebbero stati trasmessi da S., privo di autorizzazione in tal senso, all’insaputa del legale rappresentante, tacciando tale argomento di inverosimiglianza (considerata la natura tecnica e sensibile dei dati ivi contenuti), ma altresì evidenziando come lo stesso è sconfessato dallo stesso contenuto della corrispondenza e della documentazione prodotta dalla difesa. Sul punto, si legge nell’ordinanza, il pagamento della fattura emessa da Marchese e lo scambio di e-mail in atti dimostra per il tribunale collegiale del riesame la piena consapevolezza dell’illiceità di una compensazione in cui non erano stati neppure indicati i dati del coobbligato in solido, cui a settembre l’indagato aveva tentato di porre rimedio con operazione definita altrettanto sospetta.
Del resto, aggiungono i giudici del riesame, la consueta modalità operativa del sodalizio capeggiato da Marchese constava nella messa a disposizione dei “clienti” non soltanto dei finti crediti da utilizzare per le compensazioni, ma anche di un più completo servizio di consulenza e predisposizione/invio dei modelli F24 ad opera di soggetti all’uopo incaricati, proprio come è avvenuto nel caso di specie. A riprova della consapevolezza dell’indagato, il tribunale rileva poi che i crediti in esame non risultavano indicati nel quadro “RU” della dichiarazione dei redditi (circostanza immediatamente verificabile dall’acquirente) e che il R., a fronte dell’ingente compensazione, non eseguiva alcuna verifica sull’operatività delle imprese cedenti, decidendosi senza remore di sorta ad acquistare crediti espressamente dichiarati incedibili dall’Agenzia delle Entrate. Proprio la natura soggettiva dei crediti in oggetto ne ammette la compensazione – ricorda correttamente il tribunale del riesame -, esclusivamente da parte dell’impresa che ha eseguito le operazioni in aree svantaggiate, peraltro nella misura massima di 700.000,00 euro annui e a condizione che i crediti, ove superiori a 5.000,00 euro, siano muniti di un visto conformità rilasciato da un professionista abilitato preposto specificamente al controllo di tali operazioni.
3.6. Così delineata la disciplina normativa, del tutto coerente con quanto argomentato è la conclusione cui giungono i giudici del riesame, secondo cui, dalla congerie di violazioni è dunque agevole desumere il fumus in ordine alla consapevolezza dell’illiceità dell’operazione da parte del ricorrente che, pur acquistando crediti per centinaia di migliaia di euro, non si è curato di verificare la correttezza delle cessioni, né di eseguire i più elementari controlli in ordine alla esistenza stessa dei crediti, alla operatività dei soggetti che li cedevano e, soprattutto, non provvedeva neppure a corrisponderne il prezzo al venditore.
Infine, proseguendo nell’opera di analisi delle deduzioni difensive, sono gli stessi giudici del riesame a sottolineare come proprio la documentazione depositata in udienza dall’indagato non smentisce in alcun modo il solido quadro indiziario, ed anzi fornisce ulteriore riscontro alla fondatezza dell’ipotesi accusatoria.
Dal modello F24 del 20.6.2017, evidenzia il tribunale, non risulta l’indicazione di alcun coobbligato in solido nella cessione, circostanza che faceva risultare all’Agenzia dell’Entrate che i crediti fossero stati conseguiti direttamente dalla società che presentava la dichiarazione dei redditi (cfr. all. 543). In tale contesto, la produzione difensiva (ed in particolare il modello F24 relativo alla successiva compensazione del 18.9.2017 e la corrispondenza e-mail allegata) palesa per i giudici del riesame non solo la cognizione della frode, ma anche il tentativo del R. di correggere i precedenti modelli privi del codice fiscale dell’accollante (secondo le indicazioni fornite da R., B. e Arabia), così da ammantare di liceità i pagamenti dei crediti inesistenti.
Tale considerazione impedisce, peraltro, al tribunale del riesame di accedere alla tesi difensiva dell’intervenuta estinzione del debito tributario posto che non è prodotto, né risulta registrato, il contratto di accollo in questione, né è possibile altrimenti verificare il buon esito della compensazione e la genuinità dell’ulteriore credito di cui al patto di accollo. Al contrario, puntualizzano i giudici del riesame, con motivazione altrettanto scevra dai denunciati vizi, l’operazione è inserita nel prospetto dell’Agenzia delle Entrate tra quelle relative a crediti inesistenti, senza che tale circostanza sia stata in alcun modo sconfessata dalla difesa.
Infine, i giudici della cautela non si sottraggono nemmeno alla deduzione difensiva costituita dalla rilevanza della sentenza della CTP di Roma, osservando a tal proposito come i giudici tributari, pronunciando genericamente sull’ammissibilità dell’accollo in ambito tributario in data antecedente alla risoluzione n. 140/E del 15.11.2017, avevano espressamente precisato che in quel procedimento, l’Agenzia delle Entrate non aveva dedotto censure in ordine all’esistenza ed al quantum dei crediti portati in compensazione (circostanza dedotta invece davanti al tribunale del riesame).
4. Orbene, al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze della difesa dei ricorrenti si appalesano manifestamente infondate, in quanto si risolvono nel “dissenso” sulla ricostruzione dei fatti e sulla valutazione delle emergenze processuali svolta dai giudici di merito, operazione vietata in sede di legittimità, attingendo la ordinanza impugnata e tacciandola per presunte violazioni di legge e per un vizio motivazionale con cui, in realtà, si propone una censura non suscettibile di sindacato da parte di questa Corte.
Deve, sul punto, ribadirsi infatti che il controllo di legittimità operato dalla Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v., tra le tante: Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999 – dep. 31/01/2000, Moro, Rv. 215745).
Sotto tale profilo, pèrdono di spessore argomentativo le doglianze della difesa dei ricorrenti poste in relazione ad entrambi i motivi, dovendosi qui peraltro osservare – oltre a richiamare quanto già adeguatamente e convincentemente argomentato in diritto dal tribunale del riesame in tema di dolo del reato di indebita compensazione -, quanto segue.
4.1. Quanto alla presunta valenza della risultanze della sentenza della CTP di Roma, oltre a non potersi contestare in questa sede eventuali vizi motivazionali dell’ordinanza, è sufficiente rilevare come si tratti di sentenza di cui è stata sì attestata la definitività (anche se solo davanti a questa Corte di legittimità, mediante l’allegazione dell’attestazione della segreteria della CTP/Roma del 4.03.2020), ma che, comunque, per pacifica giurisprudenza di questa Corte non vincola il giudice penale.
Ed invero, si è più volte affermato che le sentenze del giudice tributario, ancorché definitive, non vincolano quello penale, in quanto l’art. 238 bis cod. proc. pen. consente l’acquisizione in dibattimento delle sentenze divenute irrevocabili, disponendo peraltro che esse siano valutate a norma degli artt. 187 e 192, comma terzo, dello stesso codice, ai fini della prova del fatto in esse accertato (Sez. 3, n. 1628 del 28/10/2015 – dep. 18/01/2016, Campedelli, Rv. 266328).
4.2. Quanto all’asserita discrepanza degli importi indicati quale ammontare dell’indebita compensazione, non rileva ai fini del vizio denunciato la circostanza che sulla deduzione non vi sia un’espressa motivazione dei giudici del riesame, atteso che tale circostanza è stata ritenuta, nell’ottica motivazionale del tribunale, irrilevante rispetto al complesso degli elementi connotanti la gravità indiziaria, donde trova applicazione il principio, applicabile anche alle ordinanze cautelari, secondo cui non è censurabile in sede di legittimità la decisione che, pur non prendendo espressamente in esame una deduzione prospettata con l’atto di impugnazione, evidenzi una ricostruzione dei fatti che implicitamente, ma in maniera adeguata e logica, ne comporti il rigetto (Sez. 2, n. 33577 del 26/05/2009 – dep. 01/09/2009, Bevilacqua e altro, Rv. 245238, relativa ad una sentenza).
4.3. Quanto, poi, alle argomentazioni sviluppate nel secondo motivo, e tendenti a denunciare la violazione di legge ed il vizio motivazionale con riferimento alla configurabilità del dolo del delitto di cui all’art. 10-quater, d. Igs. n. 74 del 2000, è sufficiente richiamare quanto già supra illustrato dai giudici del riesame a proposito del limitato spazio applicativo, in sede cautelare, del potere delibativo in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico, rilevabile dal tribunale del riesame purché risulti ictu oculi mancante, ciò che, nel caso di specie, alla stregua delle argomentazioni sviluppate dai giudici del riesame, non risultava certo ravvisabile con carattere di immediatezza.
Sul punto, va ribadito che il sequestro preventivo è legittimamente disposto in presenza di un reato che risulti sussistere in concreto, indipendentemente dall’accertamento della presenza dei gravi indizi di colpevolezza o dell’elemento psicologico, atteso che la verifica di tali elementi è estranea all’adozione della misura cautelare reale (tra le tante: Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013 – dep. 14/11/2013, Orsi, Rv. 257383).
4.4. Per il resto, la tesi difensiva, secondo cui il R. e la società dallo stesso rappresentata sarebbero stati vittime di una truffa ordita dalla coppia Marchese/S. (comprovata, secondo la difesa, dalla nullità dell’operazione di compensazione operata dal S. in difetto di autorizzazione della s.r.l. A., per di più svolta con modalità cartacee anziché telematiche), rappresenta una censura che si limita ad offrire una possibile chiave di lettura alternativa (e frutto di personale e soggettiva ricostruzione dei fatti, non idoneamente supportata da elementi probatori o quantomeno dotati di una valenza indiziaria che raggiunga una soglia di adeguata rilevanza, quantomeno in questa fase cautelare di legittimità) delle risultanze probatorie, operazione vietata in generale – ed a maggior ragione in sede cautelare reale di legittimità, in presenza di un ristretto sindacato valutativo di questa Corte, limitato al solo vizio di violazione di legge ex art. 325, c.p.p. – dal momento che il sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di mera legittimità (tra le tante: Sez. 6, n. 36546 del 03/10/2006 – dep. 03/11/2006, Bruzzese, Rv. 235510).
Si assiste, dunque, ad un tentativo della difesa dei ricorrenti di trascinare sul terreno “del fatto” questa Corte di legittimità, dimenticando tuttavia che, in generale, il controllo di legittimità sulla correttezza della motivazione non consente alla Corte di cassazione di sostituire la propria valutazione a quella dei giudici di merito in ordine alla ricostruzione storica della vicenda ed all’attendibilità delle fonti di prova, e tanto meno di accedere agli atti, non specificamente indicati nei motivi di ricorso secondo quanto previsto dall’art. 606, primo comma, lett. e) cod. proc. pen. come novellato dalla L. n. 46 del 2006, al fine di verificare la carenza o la illogicità della motivazione (Sez. 1, n. 20038 del 09/05/2006 – dep. 13/06/2006, P.M. in proc. Matera, Rv. 233783).
Operazione, questa, a maggior ragione assolutamente vietata in sede cautelare reale di legittimità.
5. Alla dichiarazione di inammissibilità di ciascun ricorso segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 3.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
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