CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 27607 depositata il 15 luglio 2022
Infortunio sul lavoro – Risarcimento danni – Coordinatore della sicurezza – Violazione degli obblighi di prevenzione – Responsabilità
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 23 ottobre 2020, la Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Trapani il 2 febbraio 2017 con la quale M.G., A.S.C. e G.V.M. sono stati ritenuti responsabili del reato di cui agli artt. 113, 40, secondo comma, e 589 cod. pen. A tutti gli imputati sono state riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alla aggravante. G. e C. sono stati condannati alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione.
M. è stato condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di anni uno e mesi quattro di reclusione. G., C. e M. sono stati poi condannati, in solido, al risarcimento dei danni cagionati alle parti civili V.P. e M.B., nonché al risarcimento dei danni cagionati all’INAIL, costituitasi anch’essa in giudizio. Per quanto riguarda la P. (moglie dell’infortunato), la liquidazione del danno è stata demandata al competente giudice civile. Per la parte civile M.B. (figlia dell’infortunato) il danno è stato liquidato in € 189.437,58. Il danno riconosciuto all’INAIL è stato liquidato in € 188.350,67.
2. Il procedimento ha ad oggetto un infortunio sul lavoro verificatosi il 31 agosto 2012 ad Alcamo nel quale perse la vita G.B., dipendente della società «M.C.». Secondo la ricostruzione fornita dai giudici di merito, B., che stava lavorando all’interno di uno scavo predisposto nell’ambito di lavori di sbancamento finalizzati alla realizzazione di tre villette plurifamiliari e, insieme a due colleghi di lavoro, provvedeva alla legatura dei tondini in ferro che avrebbero dovuto costituire l’armatura del cemento con cui doveva essere realizzato il muro di contenimento, fu travolto dalla frana di una parte della parete dello scavo che lo seppellì determinandone I decesso. G., C. e M. sono accusati di aver causato la morte del lavoratore: G., nella duplice qualità di amministratore unico della G.L.B. – committente e responsabile dei lavori – e di amministratore unico della «C. s.r.I.» che aveva eseguito lo scavo; C., quale coordinatore della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione; M., quale datore di lavoro dell’infortunato e legale rappresentante della «M.C.», incaricata dell’esecuzione dei lavori di carpenteria.
Dalla lettura del capo di imputazione emerge che a M.G. è stato contestato: di aver consentito che tra la base e la parete dello scavo (di altezza variabile da 2 metri fino a 3,60 metri) vi fosse un angolo di 90 gradi; di non aver assicurato l’inclinazione di sicurezza, doverosa anche in ragione della natura del terreno (instabile dal punto di vista geomorfologico); di aver consentito, o comunque non impedito, che sul ciglio dello scavo fosse depositato pietrame di cantiere e terreno di risulta; di aver consentito, o comunque non impedito, che B. e i suoi colleghi svolgessero i lavori di legatura dei tondini proprio alla base del fronte di scavo; di non aver verificato che il coordinatore della sicurezza adempisse puntualmente ai propri obblighi.
Ad A.S.C.R. è stato contestato di non aver adempiuto ai propri obblighi di coordinatore della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione e in particolare: di aver consentito o comunque non impedito che lo sbancamento avvenisse realizzando un fronte di scavo privo dell’inclinazione di sicurezza; di aver omesso di prevedere e prescrivere una diversa inclinazione e un tracciato che tenessero conto della natura del terreno; di aver elaborato un piano di sicurezza e coordinamento inadeguato perché privo dei contenuti minimi previsti dall’allegato XV del d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81; di non aver verificato il rispetto delle disposizioni contenute nel, pur insufficiente, PSC da parte dell’impresa esecutrice dei lavori di scavo (la «C. s.r.I.») e dell’impresa incaricata dei lavori di carpenteria (la «M.C.»); di non aver verificato l’idoneità del piani operativi di sicurezza predisposti dalle due ditte. A G.V.M. è stato contestato: di aver consentito ai propri operai di eseguire lavori di legatura dei tondini di ferro alla base del fronte di scavo; di aver omesso di renderli edotti del pericolo di crollo conseguente alle modalità di realizzazione dello stesso; di non aver adottato alcuna misura per proteggerli da quel pericolo consentendo loro di avvicinarsi alla base della parete di scavo.
3. Tutti gli imputati, per mezzo dei rispettivi difensori, hanno proposto ricorso contro la sentenza. I ricorsi sono articolati in più motivi che vengono di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari alla decisione come previsto dall’art. 173 comma 1 d.lgs. 28 luglio 1989 n. 271. 4. Il ricorso proposto da M.G. si articola in due motivi.
4.1. Col primo motivo il ricorrente lamenta violazione dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. Sostiene, in particolare, che la sentenza impugnata non avrebbe reso conto delle ragioni della decisione adottata; non avrebbe spiegato con esaurienti argomentazioni perché erano state disattese le conclusioni del consulente tecnico della difesa, secondo il quale il terreno interessato dai lavori di scavo «reggeva in condizioni di sicurezza la pendenza del 90%, grazie al suo indice di coesione ed al suo angolo di attrito»; non avrebbe spiegato perché la condotta dell’escavatorista, che lavorò «scalzando al piede» la scarpata, non sia stata considerata causa unica dell’evento.
4.2. Col secondo motivo, il ricorrente si duole del modo in cui è stato eseguito il giudizio di comparazione tra circostanze e del fatto che la pena non è stata contenuta nei minimi. Sostiene che le circostanze attenuanti generiche sono state valutate solo equivalenti alla aggravante e ci si è discostati dal minimo edittale al punto da non poter concedere la sospensione condizionale sottovalutando la rilevanza causale della condotta posta in essere dall’escavatorista. Osserva che la sentenza impugnata fa riferimento al contesto di «sostanziale irregolarità» nel quale l’opera fu realizzata e, così facendo, dà rilievo a irregolarità urbanistiche che non hanno diretta relazione con le ipotizzate violazioni delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.
5. Il ricorso proposto da A.S.C. si articola in due motivi.
5.1. Col primo motivo il ricorrente lamenta carenza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione e travisamento della prova. Il ricorrente osserva che lo scavo nel quale B. stava lavorando quando l’infortunio si verificò non si trovava nell’area di cantiere e non era oggetto di concessione edilizia sicché, rispetto a quel particolare lavoro, C. non aveva assunto alcun obbligo contrattuale. Sostiene che tale argomentazione difensiva sarebbe stata disattesa dalla sentenza impugnata individuando in capo al C. una posizione di garanzia «di fatto».
Lamenta che l’esistenza di tale posizione «di fatto» sarebbe stata irragionevolmente dedotta dalle testimonianze dei colleghi di lavoro di B. i quali hanno riferito che, il giorno in cui fu eseguito Io scavo, C. era presente in cantiere. Sostiene che tali dichiarazioni sono state erroneamente interpretate e, comunque, non provano che C. abbia assunto la qualifica di responsabile per la sicurezza anche con riferimento a lavori che – non essendo previsti dalla concessione edilizia – si svolgevano «in un’area non soggetta alla sua sorveglianza e in alcun modo estesa, in fatto, al contratto stipulato con la committenza».
5.2. Col secondo motivo, il ricorrente lamenta carenza e contraddittorietà della motivazione riguardo al trattamento sanzionatorio. Osserva che la Corte di appello non ha ritenuto di ridurre la pena inflitta in primo grado ancorché C. si sia adoperato per risarcire il danno e non ha tenuto conto di tale circostanza neppure per ritenere le attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante.
6. Il ricorso proposto da G.V.M. si articola in quattro motivi.
6.1. Col primo motivo, il ricorrente deduce erronea applicazione dell’art. 118 comma 5 d.lgs. n. 81/08. Rileva in proposito che la norma in esame è destinata ad operare mentre gli scavi sono in corso e non quando, come nel caso di specie, lo scavo sia completato sicché non può essere contestato a M. di averla violata.
6.2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui sostiene che lo scavo era abusivo e non faceva parte della progettazione originaria, sicché su M. gravavano tutti i compiti inerenti alla valutazione dei rischi, ivi compreso il rischio di crollo. Osserva in proposito che l’esistenza di abusi edilizi penalmente rilevanti è stata esclusa con sentenza definitiva e che, quand’anche tali abusi fossero stati sussistenti, ciò non estendeva certo gli obblighi di sicurezza facenti capo a M. che si riferivano solo all’esecuzione delle opere di carpenteria e non anche alla fase dello scavo. Sottolinea che i lavori di scavo erano stati appaltati alla «C. sr.!.», sul cui corretto operato M. poteva fare affidamento. Rileva che il POS predisposto dalla «M.C.» non doveva valutare rischi da seppellimento che erano collegati esclusivamente alla attività di scavo. Sostiene che M. non era tenuto ad accertarsi delle caratteristiche geologiche del sito.
6.3. Col terzo motivo, il ricorrente lamenta violazione di legge in relazione alla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. erroneamente ritenuta inapplicabile ai reati omissivi.
6.4. Col quarto motivo, M. si duole che non sia stata determinata la percentuale del suo apporto causale all’evento. Osserva che tale scelta è giustificata con riferimento alla parte civile V.P., atteso che per la liquidazione del danno le parti sono state rimesse di fronte ai giudice civile, ma non lo è per la parte civile M.B.. In questo caso, infatti, il giudice di primo grado ha provveduto alla liquidazione del danno sicché la Corte di appello avrebbe dovuto tenere conto della richiesta avanzata dal ricorrente e determinare la percentuale dell’apporto causale di M. al danno patito dalla B.. Con memoria del 28 aprile 2022, il difensore del ricorrente ha meglio precisato tale ultimo motivo chiedendo a questa Corte di legittimità di chiarire se «nell’ipotesi in cui il giudice penale non si limiti ad una condanna generica, ma proceda anche alla quantificazione del quantum debeatur, sostituendosi in toto al giudice civile, non debba […] determinare percentualmente l’efficienza causale delle singole condotte colpose, ove vi sia una richiesta in tal senso di uno degli imputati».
Considerato in diritto
1. I ricorsi non sono fondati e la sentenza impugnata merita conferma.
2. Il primo motivo del ricorso proposto da M.G. è reiterativo di motivi già proposti e respinti dalla sentenza impugnata con motivazione congrua, non contraddittoria né illogica. La Corte d’appello dà conto dell’esito della consulenza tecnica della difesa e osserva che, quand’anche l’incidente fosse stato determinato (come il ricorrente sostiene) da un errore dell’escavatorista — che avrebbe «scalzato al piede lo scavo» creando alla base della parete dei punti destinati all’inserimento delle armature per la costruzione del muro di contenimento — ciò non varrebbe ad escludere la responsabilità di G. Ed infatti, oltre ad essere legale rappresentante della G.L.B. (committente e responsabile dei lavori), G. era arche amministratore unico della «C. s.r.I.», impresa incaricata dell’esecuzione dello scavo, sicché l’escavatorista il cui errore avrebbe determinato l’evento operava alle sue dipendenze.
2.1. La sentenza impugnata sottolinea che, quale committente, G. avrebbe dovuto assicurarsi che il Piano di Sicurezza e Coordinamento fosse stato correttamente redatto, ma non lo fece e omise di rilevarne le evidenti contraddizioni. Pone in luce che il PSC escludeva il rischio di seppellimenti in ragione della modesta entità degli scavi da realizzare, ma al contempo (e contraddittoriamente) definiva «rilevante» l’entità degli scavi previsti. Osserva inoltre che quel piano non indicava le misure da adottare per rimuovere i rischi derivanti dall’esecuzione delle attività di scavo, limitandosi a rinviare genericamente alle disposizioni contenute negli artt. 118-121 d.lgs. n. 81/08. Dà rilievo al fatto che, nel PSC, non fu valutato (come sarebbe stato invece doveroso) il rischio interferenziale conseguente al fatto che all’interno dello scavo realizzato dalla «C. s.r.I.» avrebbero dovuto lavorare i dipendenti della «M.C.» cui era affidata l’esecuzione dei lavori di carpenteria necessari a realizzare il muro di contenimento.
Si tratta di motivazioni scevre da profili di contradditl:orietà e manifesta illogicità e conformi ai principi di diritto che governano la materia. Si deve ricordare, infatti, che «la nomina del coordinatore per la progettazione o per l’esecuzione dei lavori non esonera il committente ed il responsabile dei lavori da responsabilità per la redazione del piano di sicurezza e del fascicolo per la protezione dai rischi, nonché dalla vigilanza sul coordinatore medesimo in ordine all’effettivo svolgimento dell’attività di coordinamento e controllo sull’osservanza delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento» (Sez. 4, Sentenza n. 37738 del 28/05/2013, Gandolla, Rv. 256636; Sez. 4, n. 14012 del 12/02/2015, Zambelli, Rv. 263014; Sez. 4, n. 10544 del 25/01/2018, Scibilia, Rv. 272239).
A ciò deve aggiungersi che il rischio derivante dalla conformazione dell’ambiente di lavoro grava, di regola, sul committente anche se vi è stata la nomina di un coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione (Sez. 4, Sentenza n. 5802 del 29/01/2021, Cribari, Rv. 280925) e che, come risulta dalle sentenze di merito, G. non commissionò indagini geologiche volte a verificare quale fosse il grado di coesione del terreno e quali fossero, di conseguenza, le modalità di scavo più idonee e sicure.
La relazione allegata al progetto presentato per ottenere la concessione, infatti, non fu preceduta da campionamenti volti a verificare le caratteristiche gemorfologiche del terreno oggetto dello scavo e, prima del sinistro, su quel terreno non fu eseguita nessuna indagine geologica.
2.2. Se tali obblighi gravavano su G. nella qualità di amministratore unico della società titolare della concessione edilizia – e perciò di committente e responsabile dei lavori – ulteriori obblighi gravavano su di lui quale titolare dell’impresa esecutrice dei lavori di scavo. In tale qualità, egli avrebbe dovuto predisporre un Piano Operativo di Sicurezza con indicazione delle modalità operative da seguire per realizzare gli scavi. Avrebbe dovuto, inoltre, analizzare i rischi connessi per impartire istruzioni alle maestranze sulle corrette modalità di svolgimento del lavoro e sulle caratteristiche che il fronte di scavo avrebbe dovuto avere per evitare eventi franosi.
L’obbligo di redigere il piano operativo di sicurezza «grava su tutti i datori di lavoro delle imprese esecutrici dei lavori» (cfr. Sez. 4, n. 31304 del 19/04/2013, Giorgi, Rv. 255953) e, se tale obbligo fosse stato adempiuto, l’ipotizzata imperizia dell’escavatorista non si sarebbe verificata perché questi avrebbe ricevuto indicazioni sulle modalità di esecuzione dello scavo.
Non possono dunque essere censurate le argomentazioni contenute nella sentenza impugnata, secondo le quali l’eventuale imperizia dell’escavatorista non escluderebbe la responsabilità di G. perché questi era il suo datore di lavoro e, in tale qualità (oltre che nella qualità di committente) aveva precisi obblighi riguardo alla individuazione delle modalità di scavo più sicure.
A questo proposito è utile ricordare che la parete dello scavo aveva una altezza variabile da un minimo di due a un massimo di tre metri e mezzo e che, «in caso di infortunio sul lavoro per omesso approntamento delle armature di sostegno di uno scavo profondo oltre un metro e mezzo, può essere esclusa la responsabilità del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti solo quando l’evento si sia verificato per cause occulte o lesioni interne del terreno preventivamente non riconoscibili né verificabili da tecnico specializzato tramite consulenza» (Sez. 4, n. 11132 del 19/12/2014, dep. 2015, Stafetta, I2v. 262704) Questo principio, che è stato affermato con riferimento ad una ipotizzata violazione dell’art. 119 d.lgs. n. 81/08 (che riguarda scavi di pozzi o trincee) opera anche con riferimento all’art. 118 comma 2 del d.lgs. n. 81/08.
Le due norme, infatti, sono espressione del medesimo criterio di cautela, secondo il quale il pericolo di seppellimento dei lavoratori conseguente a frane e smottamenti è insito nelle operazioni di scavo, salvo che il terreno dia tali garanzie di stabilità da consentire di escluderlo e l’evento si sia verificato per cause occulte; una situazione che neppure G. sostiene essersi verificata, atteso che attribuisce l’incidente a una condotta colposa dell’escavatorista.
3. Col secondo motivo di ricorso, G. si duole del modo in cui è stato eseguito il giudizio di comparazione tra circostanze e del fatto che la pena non è stata contenuta nei minimi. Il giudizio di comparazione tra le attenuanti generiche (che sono state riconosciute a G. come agli altri imputati) è stato eseguito in termini di equivalenza. Il ricorrente sostiene che nel motivare questa scelta la Corte territoriale avrebbe fatto riferimento a irregolarità urbanistiche che non hanno diretta relazione con le ipotizzate violazioni delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e non sono state accertate in giudizio.
Quando fa riferimento al contesto di «sostanziale irregolarità» nel quale l’opera fu realizzata, tuttavia, la sentenza impugnata non allude necessariamente a violazioni urbanistiche, ma opera un riferimento più generale che comprende, ad esempio, l’omissione di verifiche geologiche preventive e le carenze dei documenti obbligatori a fini di sicurezza quali sono il POS e il PSC. Si tratta, dunque, di motivazioni congrue che resistono ai rilievi del ricorrente.
Per giurisprudenza costante, infatti, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti sono censurabili in cassazione soltanto nell’ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 46343 del 26/10/2016, Montesano, Rv. 268473; Sez. 2, n. 4357 del 01/12/1981, Piemonti, Rv. 153425). La pena, determinata nella misura di anni due e mesi quattro di reclusione, è inferiore alla media edittale prevista dall’art. 589 cod. peri, e congruamente motivata con riferimento alla gravità del fatto e al grado, non modesto, della colpa.
È sufficiente ricordare, allora, che, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti e alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti e attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale assolve al relativo obbligo di motivazione se dà conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. O richiama alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197).
4. A.S.C. è stato ritenuto responsabile della morte di G.B. quale coordinatore della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione.
Col primo motivo di ricorso si sostiene che lo scavo nel quale B. stava lavorando quando si verificò l’infortunio non era oggetto di concessione edilizia sicché, rispetto a quel particolare lavoro, C. non aveva assunto alcun obbligo contrattuale e non aveva compiti di prevenzione.
Nel ricorso si osserva che, sulla base delle testimonianze raccolte, il giorno in cui fu eseguito lo scavo C. era presente in cantiere, ma questo non prova che egli abbia assunto una posizione di garanzia rispetto all’esecuzione di quel lavoro che era «abusivo» e si svolgeva in un’area non compresa nel contratto stipulato con la committenza (riferito alle sole opere oggetto di concessione).
Dalla sentenza impugnata emerge che, oltre ad essere presente in cantiere mentre gli scavi erano in corso, C. impartì disposizioni a riguardo perché fece misurare e picchettare l’area interessata. La Corte di appello ne desume che «di fatto» C. non si occupava solo delle opere oggetto di concessione, ma del cantiere nella sua interezza. Il ricorrente sostiene che tali conclusioni sarebbero frutto di travisamento della prova.
Tale vizio, però, è configurabile soltanto quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (Sez. 2, n. 27929 del 12/06/2019, Borriello, Rv. 276567; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499). Il ricorrente, invece, ne assume l’esistenza perché ritiene non condivisibili le conseguenze che i giudici di merito hanno tratto dalla deposizione di un testimone; chiede quindi alla Corte di cassazione di compiere operazioni estranee al giudizio di legittimità come la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa (sul punto, tra tante: Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747).
Le sentenze di merito, peraltro, non si limitano a sottolineare che C. era informato dell’esecuzione dei «lavori abusivi», fu presente alla loro esecuzione e in qualche modo vi contribuì. Più in generale, rilevano che le opere in relazione alle quali C. aveva assunto il ruolo di coordinatore per la sicurezza, riguardavano la realizzazione di tre villette; che tale attività comprendeva lavori di sbancamento e scavo; che il PSC predisposto da C. era del tutto insufficiente perché si limitava a richiamare le disposizioni del d.lgs. n. 81/08 ed era contraddittorio (indicava che i lavori non comportavano la realizzazione di scavi di entità tale da generare rischio di seppellimento, ma richiamava al rispetto delle norme in materia in ragione della «rilevante entità degli scavi»).
Sottolineano, inoltre, che C. non svolse in concreto alcuna attività di coordinamento e controllo; non formò i lavoratori e non li informò sui rischi specifici connessi alle operazioni di scavo (che comunque dovevano essere compiute); non si adoperò per evitare rischi interferenziali tra i lavori di carpenteria e i lavori di scavo; non verificò l’idoneità dei Piani Operativi di Sicurezza che le diverse imprese operanti in cantiere dovevano predisporre (nessuno dei quali si occupava del rischio di seppellimento). Si tratta di motivazioni non contraddittorie né illogiche, conformi ai principi giurisprudenziali che riguardano il ruolo del coordinatore per la progettazione e l’esecuzione dei lavori e l’area di rischio da lui governata. In più occasioni, infatti, questa Corte di legittimità ha precisato che «in tema di infortuni sul lavoro, i rischi connessi all’area e all’organizzazione del cantiere, in base ai punti 2.2.1. e 2.2.2. dell’allegato XV al d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, gravano sul coordinatore per la progettazione e sul coordinatore per l’esecuzione delle opere, competendo al primo la loro individuazione, analisi e valutazione nel piano di sicurezza e coordinamento, e, al secondo, l’organizzazione del cantiere» (cfr. Sez. 4, n. 10181 del 10/12/2020, 2021, Marulli, Rv. 280955; nello stesso senso, Sez. 4, n. 14179 del 10/12/2020, Costantino, Rv. 281014). Si è osservato, inoltre, che la funzione di alta vigilanza che grava sul coordinatore per la sicurezza dei lavori «comporta l’obbligo di ,adeguare il piano di sicurezza in relazione all’evoluzione dei lavori e di sospendere, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato ed immediatamente percettibile, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti da parte delle imprese interessate» (Sez. 4, n. 24915 del 10/06/2021, Paletti, Rv. 281489).
C. si rese inadempiente a tale obbligo di vigilanza atteso che constatò l’esecuzione di lavori di sbancamento nei quali il fronte di scavo non presentava idonea inclinazione, ma non intervenne, e consentì che, in quello scavo, i dipendenti della “M.C.” eseguissero lavori di carpenteria.
5. Col secondo motivo di ricorso C. lamenta carenza e contraddittorietà della motivazione con riferimento al trattamento sanzionatorio. Valgono, anche in questo caso, le considerazioni già svolte con riferimento al ricorrente G.: le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, infatti, appaiono adeguatamente motivate e non possono essere considerate arbitrarie né illogiche.
A ciò deve aggiungersi che la pena è stata determinata in misura non superiore alla media edittale dando rilievo alla gravità del fatto e al grado della colpa. Il ricorrente sostiene di essersi adoperato per risarcire il danno, ma non documenta tale circostanza, della quale le sentenze di merito non fanno menzione. Ne consegue che sul punto il ricorso non è autosufficiente (sul concetto di autosufficienza, tra le tante, Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, dep. 2021, Cossu, Rv. 280419).
6. G.V.M. era il datore di lavoro dell’infortunato e il legale rappresentante della «M.C.» che aveva ricevuto in appalto l’esecuzione dei lavori di carpenteria.
Le sentenze di merito sottolineano che, quale datore di lavoro, egli aveva l’obbligo di elaborare un Piano Operativo di Sicurezza adeguato e di assicurarsi che il luogo di lavoro non fosse fonte di pericolo, ma non adempì a questi obblighi perché dispose che i dipendenti (B. tra questi) eseguissero lavori di carpenteria alla base di una parete di scavo che, per le modalità con le quali lo scavo era stato realizzato, avrebbe potuto franare (come in effetti avvenne). Rilevano, inoltre, che egli non eseguì alcuna verifica sulle modalità di esecuzione dei lavori di sbancamento, e, pur consapevole che si trattava di uno scavo «estraneo ad ogni pregresso intervento progettuale», dispose che i suoi dipendenti vi si recassero a lavorare.
Sottolineano, infine, che, quale «capomastro di esperienza», M. era in grado di percepire la pericolosità di quel luogo di lavoro, ma omise ogni valutazione del rischio (pur doverosa) e non chiese a G. né a C. di fornire garanzie sul fatto che non vi fosse pericolo di frane e smottamenti. Il ricorrente contesta tali valutazioni. Osserva che l’art. 118 comma 5 d.lgs. n. 81/08 è destinato ad operare mentre gli scavi sono in corso e non quando, come nel caso di specie, lo scavo è completato. Sottolinea che l’esistenza di illeciti urbanistici penalmente rilevanti è stata esclusa con sentenza definitiva e che, quand’anche tali illeciti fossero stati sussistenti, ciò non estendeva certo gli obblighi di sicurezza facenti capo a M. (che si riferivano solo all’esecuzione delle opere di carpenteria e non anche alla fase dello scavo). Rileva che i lavori di scavo erano stati appaltati alla «C. s.r.I.», sul cui corretto operato M. poteva fare affidamento. Sostiene che il POS predisposto dalla «M.C.» non doveva valutare rischi da seppellimento (che erano collegati esclusivamente alla attività di scavo) e M. non era tenuto ad accertarsi delle caratteristiche geologiche del sito.
Nessuno di questi argomenti appare idoneo a scalfire il nucleo su cui si fonda l’affermazione della penale responsabilità. Lo scavo era, infatti, il luogo di lavoro nel quale M. inviò i propri dipendenti e le sentenze di merito sottolineano che quel luogo di lavoro non era sicuro: perché lo sbancamento non era frutto di un idoneo «intervento progettuale»; perché sul ciglio dello scavo era stato pericolosamente collocato, insieme a pietrame di cantiere, il terreno di risulta dello sbancamento; perché il fronte di attacco non era stato inclinato in modo tale da impedire franamenti.
A questo proposito si deve ricordare che «il datore di lavoro risponde dell’infortunio occorso al lavoratore, in caso di violazione degli obblighi, di portata generale, relativi alla valutazione dei rischi presenti nei luoghi di lavoro nei quali siano chiamati ad operare i dipendenti, e della formazione dei lavoratori in ordine ai rischi connessi alle mansioni, anche in correlazione al luogo in cui devono essere svolte» (Sez. 4, n. 45808 del 27/06/2017, Catrambone, Rv. 2;71079).
La circostanza che lo scavo fosse stato già concluso e fosse stato materialmente eseguito da altri, non faceva sì che M. Fosse estraneo alla gestione del rischio di seppellimento che egli poteva concretamente governare non consentendo ai propri dipendenti di operare all’interno di uno scavo che non garantiva condizioni di sicurezza. È coerente con tale impostazione che M. sia stato ritenuto responsabile per non aver verificato che le lavorazioni si svolgessero in un luogo sicuro e aver omesso di valutare i rischio connesso.
Quanto alla prevedibilità dell’evento, la stessa è stata ritenuta sussistente perché si trattava di operaio esperto, consapevole che lo sbancamento era stato eseguito in assenza di un progetto preliminare e tale valutazione non è affatto illogica, né presenta profili di contraddittorietà. Per quanto esposto, i primi due motivi del ricorso proposto da M. resistono alle censure del ricorrente e non possono trovare accoglimento.
7. Col terzo motivo, M. lamenta violazione di legge in relazione alla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen. Anche questo motivo di ricorso è infondato. Secondo un condivisibile indirizzo giurisprudenziale, infatti, la circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza, «presupponendo un apporto differenziato nella preparazione o nell’esecuzione materiale del reato, non è applicabile ai reati omissivi, in quanto il “non facere” è concetto ontologicamente antitetico alla sussistenza dei requisiti richiesti per il suo riconoscimento» (Sez. 3, n. 47968 del 14/09/2016, D’A., Rv. 268496; Sez. 4, n. 45119 del 06/11/2008, Crepaldi, Rv. 241762)
8. Col quarto motivo, M. si duole che non sia stata determinata la percentuale dell’apporto causale della sua condotta colposa rispetto al danno patito dalla parte civile M.B.. Osserva che il giudice di primo grado ha provveduto alla liquidazione del danno patito dalla B., sicché la Corte di appello avrebbe dovuto specificare quanta parte di quel danne sia riconducibile al comportamento colposo di M. e quanta invece al comportamento colposo dei coimputati.
Si osserva in proposito che l’art. 187, comma secondo, cod. pen., quando dispone che «i condannati per uno stesso reato sono obbligati in solido al risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale», stabilisce che le obbligazioni ex delicto siano indivisibili e solidali. Secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità «il presupposto unificante della responsabilità solidale civile deve essere colto nell’unicità dell’evento dannoso e non nell’unicità del fatto produttivo del pregiudizio». Per queste ragioni si è ritenuto che la responsabilità solidale sussista anche quando più condotte, sia pure a titolo diverso, abbiano concorso a cagionare un unico evento dannoso (Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi, Rv. 261940; Sez. 6, n. 8666 del 05/02/2019, I., Rv. 275644).
È coerente con questi principi l’affermazione contenuta nella sentenza Sez. 3, n. 16310 del 25/02/2009, Matiolo, Rv. 243392 secondo la quale dal principio di solidarietà «discende che il problema della determinazione delle colpe si porrà solo allorché nei rapporti interni tra i vari responsabili dell’illecito, si dovrà ripartire il danno». Il danneggiato da un fatto illecito imputabile a più persone, infatti, proprio in forza del principio di solidarietà, «può pretendere l’intero risarcimento anche da una sola delle persone obbligate, mentre la diversa gravità delle rispettive colpe e l’eventuale diseguale efficienza causale può avere rilevanza solo ai fini della ripartizione intera dell’obbligazione passiva di risarcimento tra i vari responsabili del concorso» (così testualmente, pag. 16 della motivazione). A differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, la sentenza Sez. 4, n. 45797 del 22/06/2017, Antoci, Rv. 271053 (citata nella memoria integrativa) non rileva in senso contrario perché si riferisce al caso (ben diverso) della quantificazione delle percentuali di concorso delle colpe del reo e della vittima nella determinazione causale dell’evento. Il vicolo della solidarietà tra più obbligati ritenuti responsabili del medesimo reato è dunque imposto dalla legge e non v’è ragione di ritenere che debba venire meno quando il giudice penale provvede alla liquidazione del danno.
9. Per quanto esposto, tutti i ricorsi devono essere rigettati, ne consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio di legittimità dalle parti civili costituite. Si tratta di B. M. e Parrino Vicenza, il cui difensore ha partecipato all’udienza e depositato conclusioni scritte, e dell’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) in persona del legale rappresentante pro tempore, nel cui interesse l’Avvocatura generale ha tempestivamente depositato conclusioni scritte.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio di legittimità dalle parti civili costituite, B. M. e P.V., che liquida in complessivi euro 3.600,00 oltre accessori come per legge, e lNAIL che liquida in euro 3.000,00 oltre accessori come per legge.