Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 27848 depositata il 24 giugno 2019
Evasione fiscale – Ristrutturazione di un immobile con il profitto del reato – Riciclaggio – Sussiste
RITENUTO IN FATTO
1. Deve, in via preliminare, rilevarsi che i procedimenti R.G.N. 2474/19 e N. 2485/2019 (chiamati separatamente all’odierna udienza ed in relazione ai quali le parti hanno presentato autonome conclusioni), sono stati riuniti con ordinanza di questa Corte trattandosi di impugnazioni proposte dallo stesso soggetto nei confronti del medesimo provvedimento.
2. Con ordinanza in data 6 dicembre 2018, a seguito di giudizio di riesame, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha rigettato il gravame presentato nell’interesse dalla società “L. S.r.l.” avverso il decreto di sequestro preventivo emesso in data 17 settembre 2018 dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo tribunale.
La vicenda trae origine da un procedimento penale promosso ai danni di C.D. e P.M. come persone fisiche e della società L. come ente giuridico ai sensi della d.Lgs. 231/2001.
Il primo reato ipotizzato è quello di cui all’art. 648-bis cod. pen. in quanto secondo la prospettazione accusatoria la D. quale legale rappresentante della sopra menzionata società, dopo avere ricevuto sul conto corrente della medesima società, mediante lo strumento di un simulato contratto preliminare di compravendita, somme di denaro per un importo di € 670.450,00 provenienti dal profitto dei delitti di cui agli artt. 2, 3 e 4 del d.Lgs. 74/2000 commessi negli anni dal 2009 al 2011 da P.M., in qualità di legale rappresentante del “Centro (omissis) e di T.F.” nell’ambito del proc. pen. 9134/2017 R.G.n.r., le trasferiva nella ristrutturazione di un immobile sito in (omissis) così compiendo operazioni tali da ostacolare l’identificazione della provenienza illecita delle somme stesse.
E’, poi, ipotizzato anche il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. (già art. 12-quinquies d.l. 306/92) a carico sia della D. che del M. per avere, mediante il contratto sopra menzionato, attribuito fittiziamente alla D., che agiva in nome e per conto della società L., la titolarità dei beni immobili (terreno e fabbricato) siti in (omissis).
A carico della società odierna ricorrente è, infine, ipotizzato l’illecito amministrativo di cui agli artt. 5, comma 1, lett. a), e 25-octies d.Lgs. 231/2001.
Deve essere ancora chiarito che il Giudice per le indagini preliminari emetteva in relazione alla medesima vicenda due decreti di sequestro preventivo (rispettivamente in data 17 settembre 2018 e 16 ottobre 2018), il primo in relazione al reato di riciclaggio ed all’illecito amministrativo, il secondo in relazione al reato di cui all’art. 512-bis cod. pen.
2. Ricorre per cassazione avverso la predetta ordinanza (con separati atti di contenuto sostanzialmente sovrapponibile) che hanno dato luogo all’iscrizione presso questa Corte dei due procedimenti sopra indicati il difensore della predetta società, deducendo con un unico articolato motivo la violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per erronea applicazione degli artt. 5, comma 1, lett. a), e 25-octies l. 231/2001 in relazione all’art. 648-bis cod. pen. e totale omissione di motivazione.
Premette il ricorrente che la società L. e la D. sarebbero rimaste coinvolte in questa vicenda familiare e processuale per essere legate professionalmente da anni al c.d. Gruppo M. e che la vicenda in contestazione aveva inizio il 23 aprile 2012 allorquando la D. quale legale rappresentante della società, aveva acquistato attraverso un contratto preliminare di compravendita da F.G. e M.L.P. un fabbricato con terreno siti in (omissis). Successivamente (4 settembre 2013) veniva stipulato un contratto preliminare di compravendita di cosa altrui tra L. S.r.l. (promittente venditrice) e le società del gruppo M. (promissarie acquirenti) per un corrispettivo di € 1.900.000 essendo il fabbricato stato nel frattempo ristrutturato e proprio con tale preliminare veniva previsto il versamento della somma asseritamente oggetto dell’attività di riciclaggio.
Rileva peraltro parte ricorrente che il Tribunale non avrebbe offerto alcuna motivazione circa la consapevolezza della D. in relazione alla provenienza illecita dell’importo contestato, svalutando anche la circostanza che tale importo sarebbe derivato dagli asseriti reati fiscali commessi anni prima dal M.
Il Tribunale non avrebbe tenuto conto del fatto che i saldi iniziali ed i movimenti bancari delle società del Gruppo M. erano assolutamente capienti e coerenti con i bonifici effettuati a favore del L. S.r.l. in esecuzione del menzionato contratto.
Tale rilievo mosso dalla difesa sarebbe rimasto totalmente privo di riscontro nella motivazione del provvedimento impugnato.
Un diverso profilo di censura che parte ricorrente opera nei confronti del provvedimento impugnato riguarda, poi, la circostanza che la difesa aveva già evidenziato che il contestato profitto illecito del reato di riciclaggio era già stato oggetto di sequestro per equivalente a seguito di provvedimento emesso il 27 giugno 2016 nell’ambito del procedimento penale n. 16368/15 R.G.n.r. a carico del M. per i reati tributari con la conseguenza che sarebbe stato impossibile il reimpiego di un profitto di fatto già posto sotto sequestro.
Ancora: la difesa della ricorrente aveva evidenziato l’irragionevolezza del richiamo operato dal Tribunale ad una perizia che aveva attribuito il valore di € 350.000 ai due immobili, essendo documentato che anche solo le spese per la ristrutturazione erano state ampiamente superiori.
Non sarebbe altresì corretto quanto affermato dal Tribunale circa il fatto che la condotta di riciclaggio ascritta alla D. non si sarebbe esaurita nella mera percezione delle somme da parte del Gruppo M. ma si sarebbe concretizzata nel loro reimpiego attraverso il versamento delle somme destinate al pagamento delle opere di ristrutturazione degli immobili, ciò in quanto tutti i passaggi di somme dal Gruppo M. a L. S.r.l. e da questa utilizzati per l’acquisto e ristrutturazione degli immobili sono assolutamente tracciati.
Inoltre anche l’illazione a sostegno della fittizietà, relativa alla mancata esecuzione del preliminare di vendita dalla società L. al Gruppo M. sarebbe documentalmente smentita dal fatto che il Gruppo M. (nella sua nuova gestione) ha posto in essere un atto di citazione per l’accertamento della simulazione e questa è la ragione per la quale non si potuti addivenire alla stipulazione di un contratto definitivo.
Infine, rileva la difesa della ricorrente che il Tribunale del riesame nell’ambito del proc. n. 557/18 ha confermato un sequestro che non è mai stato emesso dal Giudice per le indagini preliminari in quanto il delitto di cui all’art. 512-bis cod. pen. non è annoverato tra i reati presupposto di cui al d.Lgs. 231/2001.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso nella sua evidenziata duplicazione non è fondato.
Deve, innanzitutto, doverosamente ricordarsi che questa Corte Suprema, con una sentenza emessa in materia di misure di prevenzione ma con un principio certamente applicabile anche in questa sede stante l’identità del limite in relazione al quale è consentito il ricorso per cassazione in materia di misure cautelari reali, ha avuto modo di chiarire che «Nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3 ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575; ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma del predetto art. 4 legge n. 1423 del 56, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente» (In motivazione la Corte ha ribadito che non può essere proposta come vizio di motivazione mancante o apparente la deduzione di sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realtà, siano stati presi in considerazione dal giudice o comunque risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato). (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246).
Il sindacato demandato alla Corte di Cassazione in subiecta materia ha pertanto un orizzonte circoscritto, dovendo essere limitato, per espresso disposto normativo, alla assoluta mancanza di motivazione ovvero alla presenza di motivazione meramente apparente. E la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo altresì di evidenziare, con riferimento alla problematica del riesame delle misure cautelari, che il legislatore ha in tal modo inteso sanzionare l’elusione da parte del giudice del riesame del suo compito istituzionale di controllo “in concreto” del provvedimento impugnato, riconducibile alla prescrizione dell’obbligo di motivazione di cui all’art. 125 c.p.p., comma 3, sanzionato a pena di nullità, e dunque deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c).
Deve altresì aggiungersi che la verifica delle condizioni di legittimità della misura, da parte (prima) del Tribunale e (poi) della Corte di legittimità, non può tradursi in un’anticipata decisione della questione di merito, concernente la responsabilità del soggetto indagato, in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale ipotizzata, mediante una valutazione prioritaria dell’antigiuridicità del fatto.
I principi enunciati non comportano, però, che il sindacato giurisdizionale operato dal Tribunale del riesame e dalla Corte di Cassazione sulla compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale debba essere meramente astratto e puramente cartolare, disancorato da ogni valutazione della effettiva situazione concreta.
La Corte costituzionale con la sentenza n. 48/1994 in tema di misure cautelari reali aveva già affermato che “il controllo che il giudice è chiamato a operare è tutt’altro che burocratico, dovendosi invece incentrare sulla verifica della integralità dei presupposti che legittimano la misura”, precisando che “neppure è però a dirsi che il controllo del giudice non possa in alcun modo spingersi all’esame del fatto per il quale si procede”.
Sulla scia di queste importanti affermazioni, le Sezioni unite di questa Corte hanno meglio definito il potere del giudice in tema di sequestro probatorio o preventivo, affermando che il giudice, nel compiere il controllo di legalità che gli spetta, non deve limitarsi a “prendere atto” della tesi accusatoria, ma, senza spingersi sino a una verifica in concreto della sua fondatezza, deve valutare se gli elementi di fatto rappresentati consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipica, “tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull’esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando l’integralità dei presupposti che legittimano il sequestro” (Sez. U. n. 23 del 20.11.1996, dep. 1997, Bassi, rv. 206657; Sez. U. n. 7/2000).
2. Ciò doverosamente premesso, rileva l’odierno Collegio che nel caso di specie i Giudici del riesame hanno fatto corretta applicazione dei principi espressi dando atto di avere esaminato e valutato gli elementi accusatori e quelli prospettati dalla difesa e all’esito di essere pervenuti alla affermazione di sussistenza del fumus commissi delicti di cui hanno dato conto nel provvedimento in questa sede censurato che non è certo caratterizzato – come vorrebbe parte ricorrente – da una “totale assenza di motivazione” sui punti essenziali della questione in esame.
Il Tribunale del riesame ha, innanzitutto, dato conto della provenienza delittuosa delle somme utilizzate nelle operazioni nel dettaglio ricostruite, provenienza che la stessa parte qui ricorrente ha affermato di non contestare, ponendo invece l’accento sulla assenza di prova circa la consapevolezza in capo alla D. del fatto che le somme a lei versate dal Gruppo M. fossero frutto di provenienza delittuosa.
Ora, partendo dalla premessa in diritto che se anche per la configurabilità del delitto di riciclaggio (così come per quello di ricettazione) è necessaria la consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto sul quale poi vengono compiute le operazioni indicate nell’art. 648-bis cod. pen. non è tuttavia indispensabile che tale consapevolezza si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto, e la prova dell’elemento soggettivo del reato può trarsi anche da fattori indiretti, qualora la loro coordinazione logica sia tale da consentire l’inequivoca dimostrazione della malafede.
Ciò detto – contrariamente all’assunto di parte ricorrente – con una motivazione assai dettagliata riguardante la ricostruzione dei rapporti tra la società L. e le società del Gruppo M. i Giudici della cautela hanno dato atto dei numerosi indici di anomalia dell’operazione che non possono che sottendere il fumus non solo dell’elemento oggettivo ma anche di quello soggettivo del reato ipotizzato a carico della D. il tutto collocato in una operazione che – come adeguatamente la definisce il Tribunale del riesame – “non ha alcun significato da un punto di vista imprenditoriale né commerciale” operata da un’impresa di pulizie quale L. risulta essere, già legata alle società del Gruppo M. da un contratto per un servizio di pulizia a sua volta “curioso” (così lo definisce a ragion veduta lo stesso Tribunale) in quanto estremamente oneroso e caratterizzato da modalità anomale (cfr. pagg. da 6 a 8 dell’ordinanza impugnata), che ad un tratto diventa imprenditore immobiliare svolgendo un’illogica attività di intermediazione per l’acquisto e la ristrutturazione di un fabbricato, attività che ben avrebbe potuto essere compiuta direttamente dai pretesi acquirenti finali, con un’operazione di ristrutturazione che ha appalesato la volontà della D. di destinare l’immobile non alla finalità socio-assistenziale prevista dal Gruppo M. ma piuttosto quella di adibire il fabbricato a civile abitazione mediante l’investimento di ingenti somme di denaro nell’acquisto di lussuosi materiali.
In sostanza proprio dalle attività descritte nel provvedimento impugnato e dalle “anomalie” segnalate emerge per quello che in questa sede interesse un fumus tale da ritenere che ci si trovi in presenza di attività contrattuali simulate (in particolare quella tra la società L. ed il Gruppo M.) tali da consentire, attraverso un’apparente operazione immobiliare, la ripulitura di denaro di provenienza delittuosa. Del resto questa Corte di legittimità ha già avuto modo di chiarire che «il delitto di riciclaggio si consuma con la realizzazione dell’effetto dissimulatorio conseguente alle condotte tipiche previste dall’art. 648 bis, primo comma, cod. pen. (sostituzione, trasferimento o altre operazioni volte ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa di denaro, beni o altre utilità), non essendo invece necessario che il compendio “ripulito” sia restituito a chi l’aveva movimentato» (cfr. ex ceteris: Sez. 1, n. 32491 del 30/06/2015, Ghini, Rv. 264497).
La finalità illecita dell’operazione è palese non poteva di certo sfuggire alla D. proprio in relazione ai rapporti che la legavano al M. ed alle società del suo gruppo.
A ben vedere la condotta di riciclaggio formalmente contestata alla D. appare financo riduttiva laddove limitata all’importo di 670.450,00 euro sol ove si pensi al fatto che dalle casse delle società del “gruppo M.” è stata fatta uscire una somma ben più ampia di quella proveniente dai delitti di cui agli artt. 2, 3 e 4 del d.Lgs., somma comunque di fatto destinata a consentire l’acquisto di beni da parte di altra società – quale è L. – del tutto estranea al “gruppo M.” e per una finalità non legata alla costruzione di un immobile servente all’attività societaria, quanto piuttosto ad un immobile di lusso destinato ad abitazione. Situazione questa che consentirebbe astrattamente di ipotizzare anche il reato di appropriazione indebita che a sua volta può anch’esso costituire presupposto di quello di riciclaggio così come di fatto traspare nella penultima pagina dell’ordinanza impugnata nella quale si descrive un programmatico svuotamento delle casse sociali da parte di P.M.
E, valga il vero, a nulla rileva per escludere la ricorrenza dell’ipotizzato reato di riciclaggio la tracciabilità delle operazioni compiute perché per realizzare la condotta di riciclaggio, non è necessario che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso dei beni provento di reato, ma è sufficiente anche che essa sia solo ostacolata (cfr. Sez. 2, n. 26208 del 09/03/2015, Steinhauslin, Rv. 264369).
Ancora, deve essere evidenziato che risulta corretta l’affermazione contenuta nell’ordinanza impugnata relativa al fatto che un conto è la questione relativa alla confisca per equivalente relativa al reato finanziario del quale è chiamato a rispondere il M. ed altra cosa è il delitto di riciclaggio delle somme di provenienza illecita che sono state utilizzate da L. S.r.l. per incrementare illecitamente il proprio patrimonio aziendale.
Del resto l’unico che si potrebbe lamentare di un “doppio sequestro qualora ne ricorressero le condizioni (che in questa sede sono solo asserite ma non documentate) è solo il M. e non certo possono farlo la D. e/o la società della quale la stessa è la legale rappresentante.
Per il resto le censure mosse all’impugnato provvedimento con il motivo di ricorso che qui ci occupa (quali ad esempio la problematica della correttezza delle perizia di stima degli immobili), sotto l’apparente deduzione di vizi attinenti alla violazione di legge, prospettano una richiesta di rivalutazione del merito, inammissibile in questa sede dove deve essere apprezzata solo la presenza di seri indizi della sussistenza del fumus dei quali la piena prova è riservata al merito.
3. Quanto all’ultimo passaggio del ricorso deve solo rilevarsi che l’ordinanza impugnata riguarda il procedimento iscritto al n. 563/2018 e fa espresso riferimento alle violazioni amministrative di cui al d.Lgs. 231/2001 ed all’art. 648-bis cod. pen.
L’asserto difensivo secondo il quale il Tribunale del riesame nell’ambito del proc. n. 557/18 ha confermato un sequestro che non è mai stato emesso dal Giudice per le indagini preliminari in quanto il delitto di cui all’art. 512-bis cod. pen. non è annoverato tra i reati presupposto di cui al d.Lgs. 231/2001 non trova alcun fondamento in relazione al contenuto del provvedimento qui in esame.
4. Deve solo aggiungersi che quanto detto al coinvolgimento della D. in ordine ai reati alla stessa contestati è intimamente connesso e si ripercuote sulla infondatezza della richiesta di annullamento del provvedimento impugnato formulata nell’interesse della L. S.r.l. atteso che una volta che si è affermato che ricorre il fumus del reato di riciclaggio a carico della D. amministratrice e socio unico della società L. ne consegue – in assenza di qualsivoglia doglianza difensiva sullo specifico punto volta a separare il ruolo della D. quale persona fisica da quello di amministratore della predetta società – ricorre anche il fumus dell’illecito amministrativo contestato alla predetta persona giuridica.
5. Da quanto sopra consegue il rigetto del ricorso in esame, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.