Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 28158 depositata il 27 giugno 2019
Frode fiscale – Concorso del commercialista – A titolo di dolo eventuale – Sussiste
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 5 luglio 2017, la Corte di appello di Napoli ha parzialmente riformato la sentenza pronunciata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torre Annunziata, all’esito di giudizio abbreviato, nei confronti di A.C., B.S., L.N.T. e M.D.. In particolare, la Corte d’appello: 1) ha confermato la dichiarazione di penale responsabilità dei quattro imputati per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, con riferimento alle dichiarazioni presentate ai fini IVA nel 2009 per l’anno 2008, nel 2010 per l’anno 2009 e nel 2011 per l’anno 2010; 2) ha assolto i quattro imputati dal reato di partecipazione ad associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati concernenti l’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti; 3) ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dei quattro imputati per essere estinti per prescrizione i reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, con riferimento alle dichiarazioni presentate ai fini IVA nel 2007 per l’anno 2006 e nel 2008 per l’anno 2007; 4) ha limitato la confisca per equivalente fino alla concorrenza tra l’ammontare dell’IVA indebitamente detratta, pari a 21.199.621,88 euro, ed il controvalore dei beni indicati al punto b) del dispositivo del decreto di sequestro preventivo del G.i.p. del Tribunale di Torre Annunziata il 21 maggio 2012; 5) ha confermato la confisca dei beni indicati al punto b) del dispositivo del decreto di sequestro appena indicato. Le pene sono state rideterminate nella misura giudicata di giustizia, ritenuta la continuazione tra i reati, più grave quello costituito dalla presentazione della dichiarazione del 2010, e con conferma del diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Gli imputati sono stati condannati in relazione all’utilizzazione di fatture false nelle dichiarazioni della società “S.D. s.r.l.”, e precisamente in ordine: 1) alla dichiarazione presentata nel 2009 per l’anno fiscale 2008, concernente elementi passivi fittizi pari a 23.659.677,00 euro, e IVA indebitamente detratta pari a 4.731.935,40 euro; 2) alla dichiarazione presentata nel 2010 per l’anno fiscale 2009, concernente elementi passivi fittizi pari a 45.736.608,50 euro, e IVA indebitamente detratta pari a 9.147.321,70 euro; 3) alla dichiarazione presentata nel 2011 per l’anno fiscale 2010, concernente elementi passivi fittizi pari a 36.601.823,91 euro, e IVA indebitamente detratta pari a 7.320.364,78 euro. Le fatture false erano emesse da società con sede nella zona vesuviana, e riferite a ditte quasi tutte recanti nomi di soggetti cinesi. La sentenza ha precisato che, della “S.D. s.r.l.”, A.C. era il reale gestore, B.S. era l’amministratore legale, nonché stretto collaboratore di C., M.D. era il responsabile del settore amministrativo e contabile, e L.N.T. il consulente contabile e fiscale.
2. Hanno presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe gli avvocati M.K. e S.S., quali difensori di fiducia dell’imputato A.C., gli avvocati D.S. e M.F., con due distinti atti, quali difensori di fiducia dell’imputato B.S., l’avvocato R.B., con due distinti atti, quale difensore di fiducia degli imputati L.N.T. e M.D..
Hanno presentato motivo nuovo l’avvocato M.K. per l’imputato A.C. e memoria e motivi nuovi l’avvocato R.B. per gli imputati L.N.T. e M.D..
3. Il ricorso presentato nell’interesse di A.C. è articolato in tre motivi.
3.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 81 e 133 cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla determinazione della pena ittogata a titolo di aumento.
Si deduce che l’aumento per la continuazione – calcolato in sei mesi per ciascuna delle due annualità satellite e su una pena base pari a due anni e quattro mesi, e prima dell’applicazione della diminuente per il rito – è determinato in misura illogica, sproporzionata e sostanzialmente immotivata.
3.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 62-bis cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche.
Si deduce che il diniego delle circostanze attenuanti generiche è fondato su una motivazione di mero stile, che si limita a rappresentare la gravità delle condotte, la protrazione nel tempo delle stesse e l’entità dell’imposta evasa, senza considerare che le precisate circostanze possono essere concesse anche in relazione a fatti molto gravi, e che il ricorrente ha reso piena confessione in ordine agli addebiti.
3.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 322-ter cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla confisca.
Si deduce che la misura ablatoria è stata disposta senza alcuna indicazione delle ragioni giustificative, in contrasto con gli orientamenti della giurisprudenza.
4. Il motivo nuovo presentato nell’interesse di A.C. segnala il decorso del termine di prescrizione con riferimento al reato commesso mediante la presentazione nel 2009 e nel 2010 delle dichiarazioni relative agli anni d’imposta 2008 e 2009, con conseguente necessità di annullamento con rinvio per la rideterminazione della pena.
5. Il primo ricorso proposto nell’interesse di B.S., a firma dell’avvocato D.S., è articolato in due motivi.
5.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 40 e 110 cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla affermazione della responsabilità penale del ricorrente nella parte relativa all’elemento psicologico.
Si deduce che, con l’atto di appello, si era evidenziato che B.S. era «una testa di legno», il quale non aveva consapevolezza della situazione della società, né dell’obbligo giuridico di tenere una specifica condotta, e che, però, la sentenza impugnata si è limitata, in relazione ai capi in cui è contestato l’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, ad evocare la categoria del dolo eventuale, e a confermare per relationem le argomentazioni della sentenza di primo grado. Si aggiunge che la ritenuta sussistenza del dolo eventuale è in contrasto con il riconoscimento della condizione, appunto, di «testa di legno» del ricorrente, e che non sono indicati elementi dai quali desumere che lo stesso avesse la «netta percezione» della commissione di reati dolosi da parte di A.C..
5.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 62-bis e 133 cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche ed al trattamento sanzionatorio.
Si deduce che la sentenza impugnata, in relazione a tali punti, si è limitata a richiamare quanto già osservato dal giudice di primo grado in ordine alla gravità delle condotte, alla protrazione nel tempo delle stesse ed all’entità dell’imposta evasa, senza analizzare le diffuse censure contenute nel gravame.
6. Il secondo ricorso proposto nell’interesse di B.S., a firma dell’avvocato M.F., è articolato in tre motivi.
6.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 178, 125 e 438, comma 5, cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla mancata celebrazione del giudizio nelle forme del rito abbreviato condizionato.
Si deduce che, nonostante la richiesta di trattazione del processo nelle forme del rito abbreviato condizionato e, solo in via gradata, nelle forme del rito abbreviato cd. secco, il processo è stato definito nella seconda modalità, senza alcuna specificazione o motivazione, pure necessaria secondo la giurisprudenza costituzionale e delle Sezioni Unite (si citano Corte cost., sent. n. 169 del 2003, e Sez. U, n. 44711 del 27/10/2004, Wajib). Si aggiunge che erronea è la risposta della Corte d’appello, la quale ha respinto il pertinente motivo di gravame osservando che non erano stati indicati gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla definizione del processo nelle forme del rito abbreviato cd. secco.
6.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla affermazione della responsabilità penale del ricorrente nella parte relativa all’elemento psicologico.
Si deduce che non sono indicati elementi univoci da cui desumere il dolo eventuale: tali non sono né l’esistenza di rapporti del ricorrente con gli istituti di credito, né la provenienza delle fatture utilizzate da ditte cd. “fasioniste”, né il contenuto delle conversazioni intercettate, dal quale emerge solo l’interessamento dell’imputato alla contabilità delle società dei cinesi fornitori. Si aggiunge che l’attivazione del ricorrente in materia di rapporti bancari e di contabilità delle ditte fornitrici elide ogni significato indiziante all’accettazione, da parte dello stesso, del ruolo di mero prestanome di A.C. nell’amministrazione della società “S.D. s.r.l.”.
6.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 322-ter cod. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla confisca.
Si deduce che i beni confiscati sono intestati a terzi e non è stata fornita alcuna verifica in ordine alla completa disponibilità degli stessi da parte del ricorrente: di conseguenza, l’ablazione non poteva essere disposta per le quote dei beni in comproprietà con la moglie, in regime di separazione dei beni, e con la sorella. Si osserva, inoltre, che il rapporto di coniugio ed il regime di comunione dei beni, inesattamente affermato, non costituiscono certo indizi di disponibilità dei beni in capo al ricorrente.
7. Il ricorso proposto nell’interesse di M.D. dall’avvocato R.B. è articolato in cinque motivi.
7.1. Con il primi tre motivi, sviluppati congiuntamente, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 125, comma 3, 546, comma 1, 192 cod. proc. pen. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 e 110 cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla affermazione della responsabilità penale del ricorrente nella parte relativa al contributo concorsuale ed all’elemento psicologico.
Si deduce che la sentenza afferma la responsabilità dell’imputato senza indicare perché lo stesso fosse consapevole degli illeciti e in che modo abbia concorso negli stessi. Si rappresenta che le conversazioni intercettate non contengono riferimenti a false fatture, perché le preoccupazioni per la verifica, l’impegno per redazione dei verbali assembleari e lo sforzo di correggere le risultanze relative al contante di cassa e di renderle congrue con le fatture sono situazioni ed attività fisiologicamente connesse all’attività professionale svolta. Si aggiunge che anche gli incarichi in altre società del gruppo sono stati la conseguenza della posizione di lavoratore dipendente del ricorrente e che l’unica volta in cui lo stesso, dalle conversazioni intercettate, risulta aver chiesto conto di un documento mendace, una fattura per 120.000,00 euro, è stato immediatamente messo a tacere da A.C.. Si osserva, ancora, che la richiesta di chiarimenti appena citata smentisce l’ipotesi della consapevolezza della frode.
7.2. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 62-bis e 133 cod. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche ed al trattamento sanzionatorio.
Si deduce che la sentenza impugnata fornisce una motivazione «evasiva» rispetto alle censure formulate con l’atto di gravame, trascurando elementi come l’incensuratezza ed il comportamento processuale.
7.3. Con il quinto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 322-ter cod. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla confisca.
Si deduce che non è ammissibile far subire una confisca per equivalente ad un imputato per un profitto mai conseguito, sottoponendo ad ablazione una moto ed una Fiat 500; ciò tanto più se si considera il modestissimo reddito percepito, pari a 750,00 euro mensili.
8. Il ricorso proposto nell’interesse di L.N.T. dall’avvocato R.B. è articolato in cinque motivi.
8.1. Con il primi tre motivi, sviluppati congiuntamente, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 125, comma 3, 546, comma 1, 192 cod. proc. pen. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 e 110 cod. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla affermazione della responsabilità penale del ricorrente nella parte relativa al contributo concorsuale ed all’elemento psicologico.
Si deduce che la sentenza afferma la responsabilità dell’imputato a titolo di dolo eventuale, pur asserendo contraddittoriamente l’esistenza di una condotta «di concerto con il contribuente-reo», ed indicando, quale contributo causale, lo svolgimento di attività tipiche di un professionista, quali la tenuta della contabilità, la partecipazione ad assemblee, la somministrazione di consigli leciti.
Si aggiunge che la Corte d’appello, nell’affermare la consapevolezza di L.N.T. in ordine alle operazioni illecite, trascura di considerare: a) le dimensioni multinazionali della società, avente fatturato milionario, sede e piattaforma in Cina; b) la provenienza da questo paese della maggior parte dei materiali e dei prodotti finiti; c) la mancata disponibilità delle fatture da parte del ricorrente, sistemate in un luogo ben diverso dal suo studio professionale; d) l’assenza di qualunque contatto tra il medesimo e le società emittenti le false fatture. Si rappresenta, ancora, che non possono costituire elementi a carico la tenuta della contabilità aziendale dal 2005, l’irregolarità di questa e la precedente sottoposizione ad indagini, anche perché L.N.T. ha redatto il ricorso contro gli accertamenti nel 2010, perché A.C. ha assunto su di sé la responsabilità per quanto concerneva la fatturazione e perché le irregolarità sono emerse solo nel 2011. Si osserva, infine, che le conversazioni intercettate non hanno alcun valore indiziante.
8.2. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 62-bis e 133 cod. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche ed al trattamento sanzionatorio.
Si deduce che la sentenza impugnata fornisce una motivazione «evasiva» rispetto alle censure formulate con l’atto di gravame, trascurando elementi come l’incensuratezza ed il comportamento processuale.
8.3. Con il quinto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 322-ter cod. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla confisca.
Si deduce che non è ammissibile far subire una confisca per equivalente ad un imputato per un profitto mai conseguito, sottoponendo ad ablazione un immobile ereditato ed in comproprietà con un fratello; ciò tanto più se si considera la modestia degli introiti professionali percepiti.
9. I motivi nuovi presentati nell’interesse di M.D. e di L.N.T. denunciano violazione di legge in riferimento agli artt. 110 cod. pen. e 125 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla affermazione della responsabilità penale dei due ricorrenti nella parte relativa al contributo concorsuale ed all’elemento psicologico.
Si ribadisce che la sentenza impugnata non indica gli elementi dai quali desumere il contributo concorsuale dei due ricorrenti o il dolo dei medesimi, e che certamente non può avere funzione indiziarne l’attività di redazione delle dichiarazioni ritenute mendaci, in quanto computa nello svolgimento dell’ordinaria attività professionale. Si sottolinea che è stata del tutto trascurata la dichiarazione di A.C. di assunzione piena ed esclusiva delle responsabilità per la scelta di utilizzare le false fatture.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili per le ragioni di seguito precisate.
2. Prive di specificità e comunque manifestamente infondate sono le censure formulate nel ricorso e nel motivo nuovo di A.C..
2.1. Le critiche dedotte nel secondo motivo, il cui esame appare logicamente preliminare, contestano che, nel negare la concessione delle circostanze attenuanti generiche, la sentenza impugnata espone una motivazione sostanzialmente apodittica, la quale valorizza eccessivamente la gravità dei fatti e trascura la confessione resa.
Occorre rilevare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione delle stesse (cfr., tra le tantissime, Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269-01, e Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899-01). Inoltre, diverse decisioni hanno anche affermato che è legittimo il diniego delle circostanze attenuanti generiche anche se motivato con la valorizzazione negativa dell’ammissione di colpevolezza, in quanto dettata da intenti utilitaristici e non da effettiva resipiscenza (v., tra le tante, Sez. 1, n. 35703 del 05/04/2017, Lucaioli, Rv. 271454-01, e Sez. 6, n. 11732 del 27/01/2012, Di Lauro, Rv. 252229-01).
La sentenza impugnata ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche ad A.C. osservando che non è emerso alcun elemento favorevole dall’istruttoria dibattimentale, e che, invece, occorre tener conto della gravità della condotta in contestazione, caratterizzata da plurime violazioni della legge tributaria, prolungate nel tempo e per importi di considerevole rilievo patrimoniale. E, in concreto, il ricorrente è stato condannato, quale reale gestore della società “S.D. s.r.l.”, in relazione all’utilizzazione di fatture false nelle dichiarazioni presentata per tale società: 1) nel 2009 per l’anno fiscale 2008, con riferimento ad elementi passivi fittizi pari a 23.659.677,00 euro, e ad IVA indebitamente detratta pari a 4.731.935,40 euro; 2) nel 2010 per l’anno fiscale 2009, con riferimento ad elementi passivi fittizi pari a 45.736.608,50 euro, e ad IVA indebitamente detratta pari a 9.147.321,70 euro; 3) nel 2011 per l’anno fiscale 2010, con riferimento ad elementi passivi fittizi pari a 36.601.823,91 euro, e ad IVA indebitamente detratta pari a 7.320.364,78 euro. Inoltre, il medesimo ricorrente ha riportato sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, dopo condanna in primo grado, relativamente: 1) alla dichiarazione presentata nel 2007 per l’anno fiscale 2006, concernente elementi passivi fittizi pari a 9.854.758,66 euro, e IVA indebitamente detratta pari a 1.970.951,73 euro; 2) alla dichiarazione presentata nel 2008 per l’anno fiscale 2007, concernente elementi passivi fittizi pari a 15.974.291,00 euro, e IVA indebitamente detratta pari a 3.194.858,20 euro. Si può aggiungere che la sentenza indicata ha anche precisato che l’apporto di C. alla commissione dei reati deve ritenersi «massimo», e «sorretto da un dolo di eccezionale intensità».
Sulla base dei principi indicati e degli elementi addotti dalla Corte d’appello, deve concludersi che la sentenza impugnata, nella parte in cui nega la concessione del beneficio al ricorrente, è del tutto immune da vizi logici o giuridici. In particolare, non può ritenersi illegittima la scelta di non attribuire specifico valore positivo e dirimente alla confessione resa; né il ricorrente indica specifici elementi da cui inferire che la confessione, nella specie, sia stata decisiva ai fini dell’accertamento dei fatti o comunque preciso segno di resipiscenza.
2.2. Le critiche dedotte nel primo motivo contestano che gli aumenti per la continuazione sono stati determinati in misura illogica, sproporzionata e sostanzialmente immotivata.
La sentenza impugnata ha applicato ad A.C. la pena finale di due anni e quattro mesi di reclusione, così determinandola: la pena base è stata fissata in due anni e sei mesi di reclusione per il reato commesso nel 2010, in quanto più grave; la medesima pena base è stata poi aumentata di sei mesi di reclusione per ciascuna delle altre due annualità, e, infine, diminuita di un terzo per il rito abbreviato. La misura della pena, anche con riferimento agli aumenti, è stata espressamente commisurata alla gravità dei fatti in contestazione, al contributo fornito dal ricorrente alla commissione degli illeciti ed alla intensità del dolo.
Le argomentazioni addotte nella motivazione della sentenza impugnata sono sicuramente esaustive, specie in considerazione della lunga ed ininterrotta protrazione temporale delle condotte illecite e della gravità dei singoli reati.
2.3. Le critiche dedotte nel terzo motivo contestano che la sentenza impugnata non ha offerto alcuna indicazione delle ragioni giustificative dell’imposizione della confisca.
Come già puntualizzato in giurisprudenza, con riferimento ai reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, l’onere motivazionale del giudice che dispone la confisca di valore di beni dell’imputato, prevista dall’art. 12-bis, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, attesa la natura obbligatoria di detto provvedimento, è limitato alla indicazione della sussistenza dei presupposti legali della sua applicazione, consistenti nella impossibilità di disporre la confisca diretta del profitto o del prezzo del reato nel patrimonio della persona giuridica, nella disponibilità del bene oggetto di confisca per equivalente da parte dell’autore materiale del reato e nella corrispondenza del valore del bene al profitto o al prezzo del reato (Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Papini, Rv. 274816-06). Del resto, si è anche osservato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’art. 12-bis, comma 1, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., nella parte in cui consente la confisca e, quindi, il sequestro di valore nei confronti del legale rappresentante di una persona giuridica per il solo fatto che non sia possibile eseguire quello, diretto, del profitto del reato nei confronti dell’ente, in quanto la confisca, per la sua natura sanzionatoria, trova fondamento nella mera realizzazione del fatto di reato in cui si sostanzia la condotta della persona fisica realizzata nell’interesse o a vantaggio dell’ente (Sez. 3, n. 46973 del 10/05/2018, B., Rv. 274074-02). Resta solo da aggiungere, per completezza, che questi principi, sebbene espressamente riferiti all’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, sono predicabili anche all’art. 1, comma 143, ella legge 24 dicembre 2007, n. 244, applicato alla vicenda in esame per ragioni temporali, stante la continuità tra le due disposizioni (Sez. 3, n. 50338 del 22/09/2016, Lombardo, Rv. 268386-01, e Sez. 3, n. 35226 del 16/06/2016, D’Agapito, Rv. 267764-01).
Muovendo da questi principi, è agevole osservare che, nella vicenda in esame, occorreva semplicemente accertare l’entità dell’imposta evasa, e precisamente dell’IVA indebitamente detratta, per gli anni per i quali è stata confermata la sentenza di condanna, e decurtare tale importo del valore dei beni sottoposti a sequestro. Tali operazioni sono state puntualmente compiute dalla Corte d’appello, come risulta dalla motivazione e dal dispositivo.
2.4. L’inammissibilità delle censure formulate con l’originario ricorso determina automaticamente anche l’inammissibilità del motivo nuovo.
Invero, come si osserva in giurisprudenza, l’inammissibilità del ricorso per cassazione non può essere sanata dalla proposizione di motivi nuovi, in quanto si trasmette a questi ultimi il vizio radicale da cui sono inficiati i motivi originari per l’imprescindibile vincolo di connessione esistente tra gli stessi (Sez. 6, n. 9837 del 21/11/2018, dep. 2019, Montante, Rv. 275158-01, ma anche, tra le altre, Sez. 2, n. 34216 del 29/04/2014, Cennamo, Rv. 260851-01).
Peraltro, nella specie, il motivo nuovo è anche intrinsecamente inammissibile perché manifestamente infondato. Lo stesso, infatti, muove dalla premessa secondo cui i reati commessi mediante la presentazione delle dichiarazioni del 2009 e del 2010 sarebbero prescritti, senza tuttavia addurre elementi circa errori di computo nella sentenza di appello. Se però questo computo non è specificamente contestato, la maturazione della prescrizione per il decorso del tempo in epoca successiva alla pronuncia della sentenza impugnata, anche in disparte da ogni considerazione relativa all’amplissima durata dei periodi di sospensione da considerare, è esclusa dalla dichiarazione di inammissibilità del ricorso (cfr., per tutte, Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818-01, e Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266-01).
3. Non sorrette da interesse giuridicamente apprezzabile, manifestamente infondate o diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono le censure formulate nei due atti di ricorso di B.S..
3.1. Non sorrette da interesse giuridicamente apprezzabile sono le doglianze esposte nel primo motivo del ricorso a firma dell’avvocato F., e che contestano la decisione di definire il processo nelle forme del giudizio abbreviato “secco”, invece che in quelle del giudizio abbreviato “condizionato”, pur richiesto in via principale, in difetto di specifica motivazione.
Può essere utile premettere che, secondo la giurisprudenza di legittimità, è preclusa all’imputato il quale, dopo il rigetto della richiesta di rito abbreviato “condizionato”, abbia optato per il rito abbreviato “secco”, la possibilità di contestazione successiva della legittimità del provvedimento di rigetto, in quanto la sua opzione per il procedimento senza integrazione probatoria è equiparata al mancato rinnovo in limine litis, ai sensi dell’art. 438, comma 6, cod. proc. pen., della richiesta di accesso al rito subordinata all’assunzione di prove integrative (Sez. 1, 37244 del 13/11/2003, dep. 2014, Altamuta, Rv. 260532-01, ma anche Sez. 3, n. 27183 del 05/06/2009, Fabbricini, Rv. 248477-01).
Occorre poi rilevare, che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale, ordinanza n. 273 del 2003, citata anche da Sez. U, n. 44711 del 27/10/2004, Wajib, Rv. 229174-01, «la possibilità di proporre in via gradata, contestualmente alla richiesta di giudizio abbreviato “condizionato”, richiesta di giudizio abbreviato “semplice”, così da garantirsi comunque l’ammissione al rito speciale, non esclude la facoltà dell’imputato, che ritenga imprescindibile l’integrazione probatoria richiesta, di operare la diversa scelta, riconosciuta dalla sentenza n. 169 del 2003, di rinnovare al giudice del dibattimento la richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad una integrazione probatoria».
Anche muovendo dalla indicata elaborazione giurisprudenziale, e, in particolare, dall’indicazione offerta dalla Corte costituzionale, deve ritenersi, ad avviso del Collegio, che, quando l’imputato propone in via subordinata, contestualmente alla richiesta di giudizio abbreviato “condizionato”, richiesta di giudizio abbreviato “semplice”, la decisione del giudice di definire il procedimento senza procedere ad integrazione istruttoria è sindacabile solo per denunciare che la mancata assunzione degli elementi richiesti ha avuto concrete conseguenze sul merito della decisione.
Invero, l’imputato, se il procedimento è stato definito assicurandogli tutti i benefici previsti per il giudizio abbreviato, e in adesione alla sua scelta, sia pure subordinata, può vantare un concreto interesse a dolersi del mancato accoglimento della richiesta formulata in via prioritaria esclusivamente se contesta che l’omessa assunzione degli elementi istruttori indicati ha determinato per lui un effettivo pregiudizio in relazione a profili diversi da quelli concernenti l’impiego di prove non formate in contraddittorio, la sanatoria di nullità non assolute, o la concessione della diminuente per il rito. Ed infatti, come osservato anche dalle Sezioni Unite, nel sistema processuale penale, la nozione di interesse ad impugnare va individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un’utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo (cosi Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, dep. 2012, Marinaj, Rv. 251693, nonché Sez. 1, n. 8763 del 25/11/2016, dep. 2017, Attanasio, Rv. 269199-01).
Deve aggiungersi, inoltre, che la censura concernente il mancato accoglimento dell’istanza di giudizio abbreviato “condizionato”, siccome proposta mediante atto di impugnazione, deve fornire l’indicazione, a norma dell’art. 581 cod. proc. pen., tanto delle prove di cui si deduce l’omessa assunzione, quanto delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta, quindi anche avendo riguardo al pregiudizio subito.
Nella specie, la sentenza impugnata già ha evidenziato che l’atto di appello ha lamentato la nullità della sentenza impugnata per la mancata ammissione al giudizio abbreviato condizionato senza neppure indicare i potenziali effetti pregiudizievoli scaturiti per la difesa dell’imputato da tale decisione. Le censure formulate nel ricorso per cassazione ripropongono la questione nuovamente senza offrire alcuna indicazione del pregiudizio subito dall’imputato.
Può quindi concludersi che la censura concernente la decisione di definire i processo nelle forme del giudizio abbreviato “secco”, invece che in quelle del giudizio abbreviato “condizionato”, pur richiesto in via principale, in difetto di specifica motivazione, non è sorretta da interesse giuridicamente rilevante a norma dell’art. 591, comma 1, lett. a), cod. proc. pen.
3.2. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono le censure formulate nel secondo motivo del ricorso a firma dell’avvocato F. e nel primo motivo del ricorso a firma dell’avvocato S., e che contestano l’affermazione della responsabilità penale nella parte relativa all’elemento psicologico, deducendo che non sono stati acquisiti elementi univoci in ordine alla consapevolezza, nel ricorrente, della natura delle condotte realizzate dall’effettivo gestore della società “S.D.”, A.C..
La sentenza impugnata premette che B.S. era l’amministratore di diritto della “S.D. s.r.l.”, di cui era effettivo gestore A.C., con il quale egli aveva iniziato a lavorare sin dal 1988, si occupava dell’aspetto finanziario-bancario della società, ed ha sottoscritto le dichiarazioni fiscali dell’impresa predisposte mediante il supporto delle false fatture. Rileva, poi, che: a) il ricorrente, nello svolgimento della sua attività, e, in particolare, relazionandosi con gli istituti di credito, con C. e con gli impiegati, aveva una visione precisa dell’anomalia delle movimentazioni della società; b) le false fatture avevano ad oggetto acquisiti di prodotti finiti provenienti da aziende locali le quali, però, da un lato, erano ormai inattive o formalmente gestite da soggetti di nazionalità cinese non più reperibili da tempo, e, dall’altro, in precedenza, avevano svolto solo la diversa attività di assemblaggio di stoffe ed accessori forniti proprio dalla “S.D. s.r.l.”; c) le forniture di prodotti finiti alla “S.D. s.r.l.” provenivano, nei fatti, da grandi società, soprattutto estere; d) numerose conversazioni intercettate evidenziano come il ricorrente si occupasse dei «conteggi» a fare con i «cinesi» nonché della redazione delle relative fatture formalmente emesse da questi ultimi e manifestasse, anche con toni alterati nei confronti di C., una certa riluttanza a procedere allo svolgimento di tale attività. Conclude che B.S., «accettando il ruolo di prestanome – nella piena consapevolezza delle anomale modalità di gestione della contabilità e della predisposizione, ad opera dell’azienda, di falsa documentazione a sostegno della fiscalità aziendale – ha consapevolmente accettato il rischio di sottoscrivere dichiarazioni reddituali fraudolente, omettendo qualunque forma di controllo sull’attività svolta dall’amministratore di fatto».
Le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi logici e giuridici. In particolare, le stesse si fondano su di una corretta motivazione che evidenzia elementi specifici, e sostanzialmente non contestati nella loro ontologica verificazione, da cui è desunta, in applicazione di accettabili criteri di inferenza, la piena consapevolezza del ricorrente in ordine alla inesistenza delle operazioni documentate nelle fatture utilizzate per predisporre le dichiarazioni fiscali da lui medesimo materialmente sottoscritte. Si può anzi aggiungere che la congruenza degli elementi esposti dalla motivazione trova ulteriore risalto se si considerano sia la pluralità degli anni interessati dalle pratiche illecite, sia, e soprattutto, gli impressionanti importi documentati in maniera mendace.
3.3. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità o comunque manifestamente infondate sono le censure formulate nel secondo motivo del ricorso a firma dell’avvocato S., e che contestano il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la determinazione del trattamento sanzionatorio.
Si è già evidenziato, in precedenza al § 2.1., quali sono i principi giuridici condivisi in giurisprudenza per il diniego delle circostanze attenuanti generiche. Si può aggiungere che, secondo l’orientamento ampiamente consolidato, in nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, se il parametro valutativo è desumibile dal testo della sentenza nel suo complesso argomentativo (così tra le tantissime, Sez. 3, n. 38251 del 15/06/2016, Rignanese, Rv. 267949-01, e Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283-01).
La sentenza impugnata ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche a B.S. osservando che non è emerso alcun elemento favorevole dall’istruttoria dibattimentale, e che invece, occorre tener conto della gravità della condotta in contestazione, caratterizzata da plurime violazioni della legge tributaria, prolungate nel tempo e per importi di considerevole rilievo patrimoniale. Ha poi applicato al ricorrente la pena finale di un anno e dieci mesi di reclusione, così determinandola: la pena base è stata fissata in un anno e undici mesi di reclusione per il reato commesso nel 2010, in quanto più grave; la medesima pena base è stata poi aumentata di cinque mesi di reclusione per ciascuna delle altre due annualità, e, infine, diminuita di un terzo per il rito abbreviato. La misura della pena, anche con riferimento agli aumenti, è stata espressamente commisurata alla gravità dei fatti in contestazione, al contributo fornito dal ricorrente alla commissione degli illeciti ed alla intensità del dolo.
Le argomentazioni addotte nella motivazione della sentenza impugnata sono sicuramente esaustive, specie in considerazione della lunga ed ininterrotta protrazione temporale delle condotte illecite e della gravità dei singoli reati. Non va trascurato, inoltre, che la pena base è stata calcolata in misura molto inferiore alla media edittale, anzi molto prossima al minimo edittale, quest’ultimo essendo pari ad un anno e sei mesi di reclusione, e che gli aumenti per la continuazione, anche complessivamente considerati, sono nettamente inferiori alla metà della pena base.
3.4. Non sorrette da interesse giuridicamente apprezzabile sono le censure esposte nel terzo motivo del ricorso a firma dell’avvocato F., e che contestano l’applicazione della confisca, disposta in relazione alla proprietà per l’intero di un immobile sito in Angri e alla nuda proprietà per l’intero di due immobili siti in Pagani, il cui valore complessivo è pari 223.728,00 euro, deducendo, esclusivamente, l’illegittimità dell’affermazione della sentenza impugnata in ordine alla disponibilità, per l’intero, da parte del ricorrente, dei beni a lui confiscati, in quanto parzialmente cointestati anche alla moglie ed alla sorella.
Invero, in giurisprudenza si è condivisibilmente osservato che è inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso proposto avverso la confisca di un bene da parte dell’imputato del reato in riferimento al quale la confisca viene disposta, che non sia titolare o gestore del bene stesso (Sez. 5, n. 18508 del 16/02/2017, Fulco, Rv. 270209-01, nonché Sez. 6, n. 11496 del 21/10/2013, dep. 2014, Castellaccio, Rv. 262612-01). Questo principio, del resto, è pienamente coerente con quello applicato in materia di confisca di prevenzione, secondo cui il proposto ha interesse a negare l’interposizione fittizia e a dimostrare l’esclusiva appartenenza dei beni ai terzi presunti intestatari, solo là dove l’esclusione dei beni intestati ai terzi dalla sua sfera patrimoniale incida sul giudizio di sproporzione tra gli acquisti ed i redditi (cfr. tra le tantissime, Sez. 1, n. 50463 di 15/06/2017, Mangione, Rv. 271822-01, e Sez. 2, n. 40008 del 12/05/2016, Pomilio, Rv. 268232-01).
Stante il difetto di interesse all’impugnazione di questa parte della sentenza, diventa superfluo l’esame della correttezza della motivazione circa la disponibilità, da parte del ricorrente, delle quote dei beni immobili intestati alla moglie ed alla sorella. Saranno eventualmente queste ultime a far valere le loro ragioni mediante incidente di esecuzione.
4. Manifestamente infondate o diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono le censure formulate nel ricorso di M.D..
4.1. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono le censure formulate nei primi tre motivi di ricorso, nonché nei motivi nuovi, e che contestano l’affermazione della responsabilità penale nella parte relativa al contributo concorsuale ed all’elemento psicologico, deducendo, in particolare, che gli elementi addotti in ordine alla consapevolezza, nel ricorrente, della falsità delle fatture, sono in realtà indicativi della partecipazione del medesimo allo svolgimento dell’ordinaria attività aziendale e del totale affidamento alle decisioni di A.C.
4.1.1. Nella sentenza impugnata, si premette che M.D. era il responsabile amministrativo e contabile della “S.D. s.r.l.”, ed era strettamente legato sia ad A.C., tanto da essere amministratore di altre due aziende di questo, la “S.P.” e la “C.I.”, sia e L.N.T., il commercialista autore materiale delle fraudolente dichiarazioni fiscali oggetto di contestazione.
Si osserva, poi, che il «contributo logistico e fattuale garantito dall’imputato nella predisposizione della documentazione contraffatta destinata a supportare le fittizie appostazioni contabili nelle relative dichiarazioni» fiscali e la consapevolezza del medesimo del significato delle sue condotte emerge, oltre che dalla sua specifica posizione funzionale, dal contenuto di plurime conversazioni intercettate. In particolare, si richiamano: a) le conversazioni n. 4 e 211, intercorse tra il ricorrente ed il coimputato N.T., nel corso delle quali i due ammettono la necessità di «giustificare che la merce sta qua nel capannone, […] che ci stanno tutti questi movimenti e tutto il resto», e parlano di contratti da sottoscrivere e «far passare»; b) la conversazione n. 288, intercorsa tra il ricorrente ed il presidente del collegio sindacale della “S.D. s.r.l.”, nel corso della quale il primo manifesta preoccupazione per i possibili risvolti, anche di natura «penale», degli accertamenti della Guardia di Finanza, e concorda le modalità di redazione dei verbali assembleari, ferma restando la necessità di acquisire indicazioni da N.T.; c) la conversazione n. 396, intercorsa tra il ricorrente ed un’impiegata, la quale riferisce delle preoccupazioni insorte nello studio del presidente del collegio sindacale della S.D. dopo la richiesta di atti da parte della Guardia di Finanza; d) la conversazione n. 647, intercorsa tra il ricorrente ed un’impiegata della “S.D. s.r.l.”, nel corso della quale il primo invita la seconda ad effettuare «aggiustamenti» di cassa per far risultare il saldo «coerente».
Si rappresenta, ancora, che la conversazione n. 1192, segnalata dalla difesa, nel corso della quale il ricorrente discute con A.C. di una fattura recante l’importo di 120.000,00 euro, non è indicativa della buona fede del primo in ordine al mendace contenuto delle fatture: la richiesta di chiarimenti si spiega perché il documento contabile oggetto di discussione è emesso da un soggetto diverso dalle “solite” ditte «cinesi» con sede in Italia, ed ha ad oggetto un’operazione fisicamente realizzata all’estero, dichiaratamente diretta a simulare l’acquisto di capi di abbigliamento in luogo di «tessuti».
Si conclude, sulla base di questi elementi, che M.D. nell’esercizio delle funzioni di responsabile amministrativo e contabile della “S.D. s.r.l.”, ha contribuito alla realizzazione del disegno criminoso, operando in stretta collaborazione con N.T., autore materiale delle dichiarazioni fiscali mendaci, in diretta interlocuzione con i componenti del collegio sindacale per la “sistemazione” della documentazione societaria, ed impartendo «istruzioni […] al personale per i necessari aggiustamenti contabili».
4.1.2. Le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi logici e giuridici.
In particolare, le stesse si fondano su di una motivazione che evidenzia elementi specifici, e sostanzialmente non contestati nella loro ontologica verificazione, dai quali inferisce, in forza di criteri di inferenza accettabili, la piena consapevolezza del ricorrente in ordine alla inesistenza delle operazioni documentate nelle fatture utilizzate per predisporre le dichiarazioni fiscali da lui medesimo materialmente sottoscritte. Né può dirsi che risulta trascurato l’elemento segnalato dalla difesa come indicativo della buona fede del ricorrente: di tale elemento, la sentenza fornisce motivata spiegazione per escluderne ogni valenza favorevole all’imputato.
Si può aggiungere, poi, anche in riferimento al sindacato sulla responsabilità di M.D., che la correttezza della motivazione della Corte d’appello può essere ulteriormente apprezzata in considerazione del contesto complessivo delle condotte illecite, caratterizzato dal lunghissimo periodo di tempo interessato dalle pratiche delittuose, e dalla impressionante entità degli importi coperti da documentazione mendace nonché riportati nelle dichiarazioni.
4.2. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità o comunque manifestamente infondate sono le censure formulate nel quarto motivo del ricorso, e che contestano il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la determinazione del trattamento sanzionatorio.
Si è già evidenziato, in precedenza, al § 2.1. e al § 3.3., quali sono i principi giuridici condivisi in giurisprudenza per il diniego delle circostanze attenuanti generiche e per la determinazione della pena.
La sentenza impugnata ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche a M.D. osservando che non è emerso alcun elemento favorevole dall’istruttoria dibattimentale, e che, invece, occorre tener conto della gravità della condotta in contestazione, caratterizzata da plurime violazioni della legge tributaria, prolungate nel tempo e per importi di considerevole rilievo patrimoniale. Ha poi applicato al ricorrente la pena finale di un anno e quattro mesi di reclusione, così determinandola: la pena base è stata fissata in un anno e due mesi di reclusione per il reato commesso nel 2010, in quanto più grave; la medesima pena base è stata poi aumentata di cinque mesi di reclusione per ciascuna delle altre due annualità, e, infine, diminuita di un terzo per il rito abbreviato. La misura della pena, anche con riferimento agli aumenti, è stata espressamente commisurata alla gravità dei fatti in contestazione, al contributo fornito dal ricorrente alla commissione degli illeciti ed alla intensità del dolo.
Le argomentazioni addotte nella motivazione della sentenza impugnata sono sicuramente esaustive, specie in considerazione della lunga ed ininterrotta protrazione temporale delle condotte illecite e della gravità dei singoli reati. Non va trascurato, inoltre, che la pena base è stata calcolata in misura addirittura inferiore al minimo edittale, quest’ultimo essendo pari ad un anno e sei mesi di reclusione, e che gli aumenti per la continuazione, pur se complessivamente considerati, sono nettamente inferiori alla pena base.
4.3. Manifestamente infondate sono le censure esposte nel quinto motivo di ricorso che contestano l’applicazione della confisca, disposta con riferimento ad un motociclo del valore di 2.000 euro, e ad una vettura del valore di 5.800 euro, in ragione del mancato conseguimento di qualunque profitto da parte del ricorrente.
Invero, si può rinviare, sul punto, a quanto già evidenziato in precedenza, al § 2.3., e, quindi, all’elaborazione della giurisprudenza, secondo la quale: -) la confisca di valore nei confronti del legale rappresentante di una persona giuridica deve essere disposta per il solo fatto che non sia possibile eseguire quella, diretta, del profitto di reato nei confronti dell’ente, in quanto l’ablazione, per la sua natura sanzionatoria, trova fondamento nella mera realizzazione del fatto di reato in cui si sostanzia la condotta della persona fisica realizzata nell’interesse o a vantaggio dell’ente; -) è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di tale disciplina, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost.
5. Manifestamente infondate o diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono le censure formulate nel ricorso di L.N.T..
5.1. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità o comunque manifestamente infondate sono le censure esposte nei primi tre motivi di ricorso, nonché nei motivi nuovi, e che contestano l’affermazione della responsabilità penale nella parte relativa al contributo concorsuale ed all’elemento psicologico, deducendo, in particolare, che i dati richiamati come indicativi della consapevolezza, nel ricorrente, della falsità delle fatture attengono all’ordinario esercizio dell’attività professionale, che sono stati trascurati importanti elementi favorevoli al medesimo, come il profilo dimensionale ed internazionale delle operazioni e l’estraneità di N.T.. alle stesse, che le irregolarità contabili e fiscali sono emerse solo nel 2011, e che conversazioni intercettate non hanno alcun valore indiziante.
5.1.1. Ai fini dell’esame delle censure proposte, è utile premettere che il commercialista di una società può concorrere nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, agendo a titolo di dolo eventuale.
Innanzitutto, non risulta, almeno in giurisprudenza, alcuna controversia circa la configurabilità del concorso del commercialista con il contribuente né, in generale, nei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, né, più in particolare, nei reati connessi a dichiarazioni. Invero, sin dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 74 del 2000, si è affermato che il commercialista può concorrere, ex art. 110 cod. pen., nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, con l’emittente di queste ultime (Sez. 3, n. 28341 del 01/06/2001, Torturo, Rv. 219679-01). Lo stesso principio, inoltre, è stato affermato di recente in relazione al reato di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000 (Sez. 3, n. 1999 del 14/11/2017, dep. 2018, Addonizio, Rv. 272713-01). Più volte, inoltre, sono stati dichiarati inammissibili o rigettati ricorsi avverso decisioni di condanna del commercialista di una società per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, quale concorrente con il legale rappresentante dell’ente (cfr., ad esempio, Sez. 3, n. 39873 del 16/04/2013, Proserpi, non massimata, citata dalla sentenza impugnata, nonché, di recente, Sez. 3, n. 7384 del 27/02/2018, dep. 2019, Di Carlo ed altri, non massimata).
Per quanto concerne l’individuazione delle modalità di partecipazione concorsuale rilevanti ex art. 110 cod. pen., poi, è sufficiente rilevare che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, il contributo causale del concorrente può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa non solo in caso di concorso morale ma anche in caso di concorso materiale, fermo restando l’obbligo del giudice di merito di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti (cfr., per un precedente in tema di concorso materiale, Sez. 4, n. 1236 del 16/11/2017, dep. 2018, Raduano, Rv. 271755-01, nonché, per precedenti in tema di concorso morale, Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv. 226101-01, e Sez. 1, n. 7643 del 28/11/2014, dep. 2015, Villacaro, Rv. 262310-01).
Relativamente al profilo della colpevolezza, è incontestato, e condivisibile, l’indirizzo secondo cui il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA (così, in particolare, Sez. 3, n. 52411 del 19/06/2018, B., Rv. 274104-01, e Sez. 3, n. 30492 del 23/06/2015, Damiani, Rv. 264395-01).
5.1.2. La sentenza impugnata afferma l’attribuibilità a L.N.T. dei fatti di reato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, commessi tra il 2005 ed il 2011, con riferimento alle dichiarazioni presentate per gli anni 2006, 2007, 2008, 2009 e 2010, sulla base di una pluralità di elementi.
Si rappresenta, in primo luogo, che il ricorrente: a) era il consulente fiscale della “S.D. s.r.l.” e di tutte le società facenti capo alla famiglia di A.C., alcune delle quali avevano anche sede presso il suo studio; b) era preposto alla cura dei rapporti dei componenti della famiglia C. con le società fiduciarie S.I. s.p.a. e S. s.p.a.; c) ha rappresentato le due società in alcune assemblee della società “S.D. s.r.l.”; d) curava, unitamente a M.D., la predisposizione dei bilanci di esercizio della società “S.D. s.r.l.”; e) disponeva di un «accesso diretto in remoto al sistema informatico della società» per «ottenere dei report contabili periodici».
Si segnala, poi, che il ricorrente era a conoscenza di plurime anomalie concernenti la contabilità della società “S.D. s.r.l.” sin dal 2005, in quanto evidenziate da accertamenti della Guardia di Finanza. Si precisa, in particolare, che: -) gli indicati accertamenti erano culminati in un sequestro, effettuato il 14 dicembre 2005, concernente n. 71 fatture di acquisto della “S.D. s.r.l.” proprio per il reato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, ipotizzato per gli anni dal 2003 al 2005 in relazione ad operazioni inesistenti per un valore complessivo superiore a 17.000.000,00 di euro; -) le fatture in questione erano state emesse da società – come la “H.X. sas di H.D.M.”, la “S.P. s.r.l.”, la “I.C. s.a.s.”, e la “Y. s.a.s. di Y.Z. & C.” – le quali poi risultano emittenti di ulteriori false fatture, per svariati milioni di euro, utilizzate nelle dichiarazioni presentate tra il 2007 ed il 2011 dall’impresa gestita da A.C. e contestate nel processo in esame; -) N.T. già nel 2005 era consulente fiscale della società “S.D. s.r.l.”, ha utilizzato, nella dichiarazione presentata nel 2006, le fatture sequestrate e relative all’anno 2005, ed ha dichiarato di aver seguito il successivo contenzioso con l’Agenzia delle Entrate, ricevendo la materiale disponibilità delle copie di tali documenti contabili e degli assegni di pagamento.
Si osserva, quindi, che il ricorrente era da ritenersi perfettamente a conoscenza sia dell’omessa istituzione e tenuta della contabilità di magazzino, sia dell’irregolare tenuta del registro degli inventari, anche perché queste gravi violazioni erano periodicamente segnalate dal collegio sindacale, con il quale egli era in continuo contatto ed al quale forniva documentazione.
Si rileva, ancora, che numerose conversazioni telefoniche intercettate confermano la consapevolezza ed il coinvolgimento del ricorrente in ordine alla pratiche illecite. Si richiamano: a) le conversazioni n. 4 e 211, intercorse tra il ricorrente ed il coimputato M.D., nel corso delle quali i due ammettono la necessità di «giustificare che la merce sta qua nel capannone, […] che ci stanno tutti questi movimenti e tutto il resto», e parlano di contratti da sottoscrivere e «far passare»; b) la conversazione n. 288, intercorsa tra M.D. ed il presidente del collegio sindacale della “S.D. s.r.l.”, nel corso della quale il primo manifesta preoccupazione per i possibili risvolti, anche di natura «penale», degli accertamenti della Guardia di Finanza, e concorda le modalità di redazione dei verbali assembleari, ferma restando la necessità di acquisire indicazioni in proposito da N.T.; c) la conversazione n. 396, intercorsa tra M.D. ed un’impiegata, la quale riferisce delle preoccupazioni insorte nello studio del presidente del collegio sindacale della S.D. dopo la richiesta di atti da parte della Guardia di Finanza, e della necessità di acquisire documentazione presso lo studio di N.T..
Si aggiunge, infine, che il ricorrente, come da lui stesso ammesso, ha predisposto ed inoltrato la dichiarazione fiscale relativa all’anno 2010 utilizzando fatture per operazioni inesistenti concernenti elementi passivi fittizi pari a 36.601.823,91 euro (con IVA indebitamente detratta pari a 7.320.364,78 euro) ancora nell’ottobre 2011, sebbene «le conclamate modalità truffaldine di gestione contabile della società erano state acclarate, certificate e comunicate dalla Guardia di Finanza attraverso la verifica fiscale del luglio 2011».
5.1.3. Le conclusioni della sentenza impugnata, anche in ordine alla sussistenza del contributo concorsuale e della colpevolezza, sono immuni da vizi logici e giuridici.
Tenendo conto dei principi precedentemente richiamati, e dell’incontestata sussistenza dei fatti ritenuti accertati dalla Corte d’appello, può rilevarsi, in primo luogo, che, sotto il profilo materiale, il contributo causale del ricorrente alla commissione dei reati di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 è correttamente individuato già nelle azioni costituite dalla predisposizione e dall’inoltro delle dichiarazioni fiscali contenenti l’indicazione di elementi passivi fittizi supportati da fatture per operazioni inesistenti, trattandosi di condotte di sicura agevolazione materiale. Inoltre, un’ulteriore forma di contributo causale, rilevante se non altro come rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, è correttamente individuata nella complessiva attività di supporto per la “sistemazione” documentale di gravi violazioni contabili: la preoccupazione di «giustificare che la merce sta qua nel capannone, […] che ci stanno tutti questi movimenti e tutto il resto», o l’attivazione nel predisporre e «far passare» contratti, risultanti dalle conversazioni n. 4 e n. 211 intercorse con il coimputato D., risultano obiettivamente funzionali a supportare e rendere attendibili le fatture mendaci registrate in contabilità ed utilizzate per le dichiarazioni.
Per quanto riguarda la colpevolezza, molteplici sono gli indizi correttamente valorizzati per evidenziare la sussistenza del dolo, quanto meno eventuale. In particolare, di notevolissima forza logica sono gli indizi desumibili, in riferimento a tutte le dichiarazioni fiscali, dalla consapevolezza, da parte del ricorrente, quale consulente contabile della “S.D. s.r.l.”, degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza nel 2005 in ordine alle fatture emesse negli anni tra il 2003 ed il 2005 da quelle stesse ditte a cui sono riferibili plurime fatture, e per cospicui importi, negli anni dal 2007 al 2011, e, poi, con specifico riferimento alla dichiarazione presentata nel settembre/ottobre 2011, dalla consapevolezza, del medesimo ricorrente, anche degli ulteriori accertamenti compiuti, sempre dalla Guardia di Finanza, nel luglio del 2011. Non va trascurato, inoltre, che gli indizi evidenziati dalla Corte d’appello oltre ad essere molteplici e pienamente convergenti, sono desumibili da differenti fonti di prova. Ancora, le circostanze addotte nel ricorso per contestare la correttezza delle conclusioni della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza del dolo non si confrontano compiutamente con gli elementi da questa richiamati e, piuttosto che evidenziare vizi logici o giuridici, si pongono, al più, come argomenti propedeutici ad una richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie, non consentita in sede di legittimità.
5.2. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità o comunque manifestamente infondate sono le censure formulate nel quarto motivo ricorso, e che contestano il diniego delle circostanze attenuanti generiche e la determinazione del trattamento sanzionatorio.
Si è già evidenziato, in precedenza, al § 2.1. e al § 3.3., quali sono i principi giuridici condivisi in giurisprudenza per il diniego delle circostanze attenuanti generiche e per la determinazione della pena.
La sentenza impugnata ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche a L.N.T. osservando che non è emerso alcun elemento favorevole dall’istruttoria dibattimentale, e che invece, occorre tener conto della gravità della condotta in contestazione, caratterizzata da plurime violazioni della legge tributaria, prolungate nel tempo e per importi di considerevole rilievo patrimoniale. Ha poi applicato al ricorrente la pena finale di un anno e dieci mesi di reclusione, così determinandola: la pena base è stata fissata in un anno e undici mesi di reclusione per il reato commesso nel 2010, in quanto più grave; la medesima pena base è stata poi aumentata di cinque mesi di reclusione per ciascuna delle altre due annualità, e, infine, diminuita di un terzo per il rito abbreviato. La misura della pena, anche con riferimento agli aumenti, è stata espressamente commisurata alla gravità dei fatti in contestazione, al contributo fornito dal ricorrente alla commissione degli illeciti ed alla intensità del dolo.
Le argomentazioni addotte nella motivazione della sentenza impugnata sono sicuramente esaustive, specie in considerazione della lunga ed ininterrotta protrazione temporale delle condotte illecite e della gravità dei singoli reati. Non va trascurato, inoltre, che la pena base è stata calcolata in misura nettamente inferiore alla media edittale, anzi molto prossima al minimo edittale, quest’ultimo essendo pari ad un anno e sei mesi di reclusione, e che gli aumenti per la continuazione, anche complessivamente considerati, sono nettamente inferiori alla metà della pena base.
5.3. In parte manifestamente infondate e in parte non sorrette da un interesse giuridicamente apprezzabile sono le censure esposte nel quinto motivo di ricorso, e che contestano l’applicazione della confisca, disposta con riferimento a due immobili siti in Poggiomarino, per l’intero, e ad altri due immobili, anch’essi ubicati in Poggiomarino, per la quota del 50%, in ragione del mancato conseguimento di qualunque profitto da parte del ricorrente e della comproprietà di alcuni beni con il fratello.
Invero, per quanto attiene al profilo dell’asserito mancato conseguimento di profitti da parte del ricorrente, è sufficiente rinviare a quanto già evidenziato in precedenza, al § 2.3., e, quindi, all’elaborazione della giurisprudenza, secondo la quale: -) la confisca di valore nei confronti del legale rappresentante di una persona giuridica deve essere disposta per il solo fatto che non sia possibile eseguire quella, diretta, del profitto di reato nei confronti dell’ente, in quanto l’ablazione, per la sua natura sanzionatoria, trova fondamento nella mera realizzazione del fatto di reato in cui si sostanzia la condotta della persona fisica realizzata nell’interesse o a vantaggio dell’ente; -) è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di tale disciplina, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost.
Per quanto concerne, poi, l’asserita non riferibilità di parte dei diritti confiscati al ricorrente, si è rilevato in precedenza, al § 3.4., che è inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso proposto avverso la confisca di un bene da parte dell’imputato del reato in riferimento al quale la confisca viene disposta che non sia, né assuma di essere titolare o gestore del bene stesso.
6. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché di ciascuno di essi singolarmente – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro duemila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila ciascuno a favore della cassa delle ammende.
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