CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 29398 depositata il 25 luglio, 2022

Reato di sfruttamento del lavoro – Sequestro preventivo – Confisca del profitto del reato – Nesso di pertinenzialità tra il denaro sequestrato e l’attività illecita svolta – Sussistenza – Periculum in mora – Omessa motivazione

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 24 settembre 2021 il Tribunale per il riesame di Palermo ha rigettato la richiesta di riesame proposta nell’interesse di T. V. avverso il decreto di sequestro preventivo della somma di euro 442.761,54 emesso ai sensi degli artt. 603-bis.2 cod. pen. e 321, comma 2, cod. proc. pen. Il 2 settembre 2021 dal G.I.P. del Tribunale di Palermo nei confronti di T. L. e T. V., ritenendo tale somma il profitto del delitto ex art. 603-bis, commi 2, 3 e 4 n. 1, cod. pen., per cui i suddetti sono indagati per avere in concorso tra loro, quali procuratori e amministratori di fatto della S. s.r.l. (la T. anche in qualità di titolare dell’intero capitale sociale), utilizzato e impiegato manodopera di diversi lavoratori sottoponendoli a condizioni di sfruttamento con approfittamento del loro stato di bisogno. Tali condotte, in particolare, sarebbero consistite: nella corresponsione ai lavoratori di retribuzioni difformi da quelle previste dai contratti collettivi, in quanto di gran lunga inferiori rispetto al numero di ore di lavoro effettivamente prestate, con imposizione ai lavoratori di restituire parte delle somme dovute, come risultanti dalle buste-paga, nonché di firmare verbali di conciliazione con cui rinunciare a far valere i loro diritti in sede giudiziaria per il lavoro straordinario svolto; nell’aver violato le norme regolanti la disciplina del riposo, concedendo ai lavoratori una pausa pranzo solo di pochi minuti, consentendo ferie annuali retribuite in numero inferiore a quelle previste e richiamando i lavoratori in occasione dell’avanzata richiesta di permessi; nel violare le previste norme in materia di sicurezza e di igiene. Con l’aggravante di avere commesso il fatto in danno di un numero di lavoratori impiegati superiori a tre.

1.1. Il Tribunale del riesame ha, in particolare, rigettato la richiesta di riesame del T., confermando il sequestro di denaro disposto dal G.I.P., nella ritenuta concreta ricorrenza del fumus commissi delicti, nello specifico affermando che i plurimi elementi indiziari raccolti – attraverso escussione a s.i.t. di lavoratori, registrazione di colloqui, acquisizione di documenti – consentirebbero di ritenere superato lo standard probatorio richiesto dalla norma dell’art. 321 cod. proc. pen., ravvisandosi la sussistenza di gravi condotte di sfruttamento e di approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori presso la S. s.r.l.

Ritenuto corretto il calcolo del profitto lucrato nell’entità individuata dal consulente del P.M., i giudici del riesame hanno, poi, ritenuto legittimo il conseguente sequestro della indicata somma di euro 442.761,54, in quanto effettuato a fini di confisca obbligatoria ex art. 603-bis.2 cod. pen., a nulla valendo le doglianza difensive afferenti alla ritenuta insussistenza del nesso di pertinenzialità di tale somma rispetto al delitto contestato, atteso che per il Tribunale di Palermo non si tratterebbe di un’ipotesi di sequestro preventivo a fini di confisca diretta – come ritenuto dal G.I.P. -, bensì di confisca per equivalente, come riqualificato dallo stesso Tribunale in sede di riesame.

Non essendo possibile il sequestro in forma diretta nei confronti della S. s.r.I., in quanto non provvista di beni propri per essere stata messa in liquidazione e cancellata dal registro delle imprese, il sequestro del denaro sarebbe stato, poi, correttamente disposto a carico degli indagati, conformemente alla giurisprudenza espressa in proposito da questa Corte di legittimità. Per il Tribunale del riesame, infine, sarebbe stato corretto considerare nel profitto del reato, passibile di sequestro a fine di confisca, anche il risparmio di spesa derivato dalla perpetrazione delle condotte illecite, costituendo esso il principale vantaggio derivante dall’attività di sfruttamento dei lavoratori.

2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione T. V., a mezzo del suo difensore, deducendo sei motivi di doglianza.

Con il primo è stata eccepita inosservanza dell’art. 603-bis.2 cod. pen., in relazione alla riqualificazione per equivalente del sequestro preventivo, invece disposto in via diretta da parte del G.I.P.

A dire del ricorrente, infatti, una corretta interpretazione della norma dell’art. 603-bis.2 cod. pen., che esclude la possibilità, in caso di condanna, di confiscare le cose costituenti il profitto del reato solo nell’ipotesi di appartenenza delle stesse a terzi, induce a ritenere che il sequestro a fini di confisca sia stato disposto nei confronti dell’indagato in forma diretta, e non già per equivalente, come invece erroneamente ritenuto dal Tribunale del riesame, in conformità ai dettami resi dalla più recente interpretazione giurisprudenziale, anche a Sezioni Unite. L’erronea riqualificazione giuridica disposta dal Tribunale del riesame sarebbe stata effettuata, peraltro, in violazione dei diritti difensivi del ricorrente, in quanto non disposta all’esito del contraddittorio tra le parti.

Con il secondo motivo è stata dedotta inosservanza dell’art. 603-bis.2 cod. pen., in relazione alla ritenuta irrilevanza del nesso di pertinenzialità tra il reato contestato e i beni sottoposti a sequestro preventivo.

Dal momento che il sequestro sarebbe stato necessariamente disposto a fini di confisca diretta, il Tribunale del riesame avrebbe dovuto valutare la ricorrenza del suddetto nesso, dimostrando – diversamente da come invece effettuato – che le somme sequestrate al T. costituissero proprio il profitto del delitto ascrittogli.

L’individuazione del profitto del reato presupporrebbe sempre l’accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta criminosa, nel caso di specie insussistente, non essendovi stata esplicazione delle ragioni per cui le somme depositate presso i conti bancari del prevenuto fossero di provenienza illecita – peraltro essendo cessata la consumazione del reato nel giugno 2020 ed essendo stato eseguito il sequestro nel settembre 2021, su denaro, quindi, acquisito e depositato successivamente -.

Con la terza censura il T. ha lamentato inosservanza dell’art. 603-bis.2 cod. pen., in relazione al sequestro preventivo riguardante i c.d. “risparmi di spesa”.

La gran parte della somma sequestrata (euro 415.569,08) riguarderebbe, infatti, risparmi di spesa asseritamente conseguiti dall’indagato in conseguenza della mancata corresponsione di emolumenti conferiti in corrispettivo delle ore di lavoro prestate oltre quelle contrattualmente previste.

La nozione di profitto, tuttavia, riguarderebbe un risultato economico positivo, un ricavo introitato, uno spostamento reale di risorse economiche, ovvero un reale accrescimento patrimoniale mediante acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica.

Tutto ciò non sarebbe dato ravvisare nel caso di specie, mancando il necessario requisito dell’effettivo e materiale incremento patrimoniale.

Né, a tali fini, sarebbe corretto il richiamo effettuato nell’ordinanza impugnata alla giurisprudenza espressa in materia di reati tributari, poiché in tal modo si effettuerebbe un’estensione applicativa in malam partem, stante la natura afflittiva della confisca, altresì considerato che l’omesso pagamento dei tributi costituirebbe proprio un’ipotesi, diversa da quella in esame, di spostamento reale di risorse economiche. Il principio di tassatività imporrebbe, infatti, una chiara previsione legislativa dell’ablazione del risparmio di spesa, invero non rinvenibile né in relazione ai reati tributari né con riferimento al delitto ex art. 603-bis.2, cod. pen., tanto da far richiedere al ricorrente di rimettere tale questione alle Sezioni Unite, ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 603-bis.2 cod. pen. in relazione agli artt. 25 e 117 Cost., 7 CEDU, nella parte in cui non prevede la confiscabilità del profitto costituto dai risparmi di spesa.

Con il quarto motivo il T. ha dedotto inosservanza degli artt. 27 Cost, 40 e 110 cod. pen., 125, comma 3, cod. proc. pen. in relazione all’operata affermazione della sua responsabilità.

Contesta, in particolare, il ricorrente come, nel caso di specie, sarebbero state disattese le disposizioni che regolano il riconoscimento della responsabilità penale, non essendo state valutate circostanze astrattamente idonee ad escluderne ogni possibile configurazione a suo carico. Rispetto alla sua posizione, infatti, mancherebbe ogni riferimento, del tutto omesso nella sentenza impugnata, allo svolgimento da parte sua, sia pure in fatto, di funzioni gestorie tipiche dell’esercizio dell’attività imprenditoriale.

Sarebbe stato ritenuto responsabile, pertanto, solo perché fratello della coindagata T. L., senza la prova, neppure a livello indiziario, di un suo sistematico coinvolgimento nell’amministrazione della società.

Con la quinta censura il ricorrente ha eccepito inosservanza degli artt. 321 e 273 cod. proc. pen., in relazione alla sussistenza del fumus commissi delicti.

Per il T. non ricorrerebbe l’indicato requisito, per aver considerato il Tribunale solo parte delle dichiarazioni rese dai lavoratori e per aver valorizzato, quali indici del presunto sfruttamento, unicamente elementi costituenti violazioni formali della normativa giuslavoristica e non considerati nell’ambito del fatto tipico, come descritto dalla norma dell’art. 603-bis cod. pen.

Un’interpretazione siffatta, eccessivamente ampia e generica, sarebbe, allora, in contrasto con i principi regolanti la disciplina dettata dalla normativa interna e sovranazionale, così da indurre il T. a chiedere di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 603-bis cod. pen., in relazione agli artt. 25 e 117 Cost., tale ultimo con riferimento all’art. 7 CEDU, per violazione del principio di legalità, sub specie di tassatività della norma.

Con il senso motivo di ricorso il T. ha eccepito inosservanza degli artt. 321, comma 2, e 125, comma 3, cod. proc. pen., in relazione all’annessa motivazione sulla sussistenza del periculum in mora.

Lamenta il ricorrente che rispetto a tale indispensabile presupposto nulla sarebbe stato evidenziato nella motivazione sia del decreto di sequestro preventivo che della gravata ordinanza del Tribunale del riesame, che pure era tenuto a valutare l’indicato aspetto, stante la vigenza del principio di devoluzione piena nel procedimento di riesame.

Tale approccio sarebbe, inoltre, in contrasto con la più recente esegesi resa dalla giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite, per la quale la natura discrezionale del sequestro operato ai sensi dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen. renderebbe imprescindibile l’adozione della motivazione, con precisazione delle ragioni concrete per cui sussisterebbe il pericolo che, nelle more del procedimento, i beni possano venire modificati, dispersi, deteriorati o alienati, anche tenuto conto della natura cautelare del provvedimento, anticipatore di effetti limitativi di diritti.

Il giudice della cautela dovrebbe, pertanto, esplicitare gli elementi rivelatori del rischio che l’atto espropriativo, nelle more della definizione del processo, divenga concretamente inattuabile, come invece non effettuato nel caso di specie, in cui né il G.I.P. né il Tribunale del riesame avrebbero motivato alcunché in ordine al concreto pericolo che i beni del T. possano venire modificati, dispersi, deteriorati o alienati nelle more della celebrazione del procedimento.

3. Il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte, con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.

4. La difesa ha depositato successiva memoria di replica, con cui ha insistito per l’accoglimento del ricorso, in particolare ribadendo l’assenza di motivazione in ordine alla ricorrenza del requisito del periculum in mora.

Considerato in diritto

1. Il Collegio ritiene infondati i primi cinque motivi di ricorso proposti da T. V., dovendo, invece, essere accolta l’ultima censura dedotta, afferente alla carenza di motivazione in ordine alla sussistenza del requisito del periculum in mora – come interpretato dalla più recente interpretazione resa dalle Sezioni Unite di questa Corte -, cui consegue la pronuncia di annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Palermo.

2. In primo luogo, deve essere ribadito come, ai sensi dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen., il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio sia ammesso solo per vizio di violazione di legge. Per come reiteratamente chiarito da questa Corte di legittimità, in tale nozione devono essere compresi sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (cfr., per tutte, Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692-01).

Così delimitato il controllo riservato al giudice di legittimità, è necessario, altresì, osservare, con riferimento ai primi cinque motivi di ricorso, come, nel caso di specie, non sia dato riscontrare alcuna specifica violazione di legge nell’ordinanza impugnata, né sia possibile affermare che il percorso argomentativo seguito da parte del Tribunale sia del tutto mancante o apparente.

Di contro, l’ordinanza cautelare ha correttamente preso in considerazione le censure prospettate dal ricorrente, disattendendole con motivazione del tutto adeguata e congrua.

3. Con riguardo, quindi, all’esame dei primi due motivi di ricorso, attinenti all’esatta qualificazione dell’operato sequestro, in particolare allo scopo di verificare se esso sia stato disposto a fini di confisca diretta – come ritenuto dal G.I.P. in seno al suo decreto – ovvero di confisca per equivalente – come invece qualificato nell’ordinanza dal Tribunale del riesame -, altresì accertando se vi sia ricorrenza del nesso di pertinenzialità tra la somma di denaro sequestrata e l’indiziaria integrazione del delitto di cui all’art. 603-bis cod. pen., il Collegio ritiene indispensabile fare riferimento ai parametri interpretativi dettati dalla recente sentenza Sez. U, n. 42415 del 27/05/2021, C., Rv. 282037-01, per la quale la confisca del denaro costituente profitto o prezzo del reato, comunque rinvenuto nel patrimonio dell’autore della condotta, e che rappresenti l’effettivo accrescimento patrimoniale monetario conseguito, deve sempre essere qualificata come diretta, e non per equivalente, in considerazione della natura fungibile del bene, con la conseguenza che non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita della specifica somma di denaro oggetto di apprensione.

Dando continuità a quanto già espresso dalla sentenza Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264437-01 in tema di sequestro a fini di confisca del profitto monetario del reato, le Sezioni Unite hanno esplicato, nella suddetta sentenza, come la natura fungibile, tipica del denaro, renda del tutto irrilevante stabilire se quello specifico denaro sequestrato sia stato proprio quello conseguito in conseguenza dell’illecita attività svolta. E’ un bene numerano fungibile, è lo strumento corrispettivo per eccellenza, e perciò la sua peculiare natura e funzione rende recessiva la sua consistenza fisica, determinandone l’automatica confusione nel patrimonio del reo, che ne risulta correlativamente accresciuto.

La confisca, pertanto, opera non con riferimento alla materialità delle singole specifiche banconote acquisite, bensì come entità di denaro che ha incrementato il patrimonio dell’indagato. Solo ove il denaro non sia più rinvenuto nella disponibilità del reo potrà, allora, essere disposta la confisca per equivalente, che riguarderà, ove possibile, altri beni, di diversa tipologia nella disponibilità dell’indagato. La confisca per equivalente ha, infatti, natura surrogatoria, essendo applicabile solo quando il bene suscettibile di apprensione diretta non sia confiscabile.

In questo senso le Sezioni Unite hanno precisato come il sequestro preventivo a fini di confisca di una somma di denaro non possa che avere natura diretta, non essendo concepibile il sequestro di “un’altra” somma di denaro, surrogatoria di quella di cui non si è potuta effettuare l’apprensione diretta, così da acquisirla per equivalente.

Ed allora, traslando il principio al caso di specie, ne appaiono evidenti le dirette conseguenze, tanto da indurre ad affermare che il denaro sia stato sequestro al T. a fini di confisca diretta.

Tale denaro, infatti, rappresenta direttamente il profitto dell’attività illecita da costui perpetrata ai sensi dell’art. 603-bis cod. pen., non avendo senso parlare, come invece sostenuto dalla difesa, di denaro acquisito e subentrato successivamente nel suo patrimonio, trattandosi solo di un intervenuto accrescimento di esso, senza necessità di doversi identificare, per le ragioni esposte, con il denaro effettivamente ottenuto dallo svolgimento delle condotte di sfruttamento del lavoro, e potendo perfino avere una provenienza lecita.

3.1. Quanto, poi, alla richiesta sussistenza del nesso di pertinenzialità tra il perpetrato reato e la cosa sottoposta a sequestro, è la stessa sentenza del Supremo Collegio, sopra indicata, ad esplicare che l’esegesi da essa offerta «non determina la recisione del nesso di diretta derivazione causale tra il reato e il prezzo o profitto monetario sottoposto a confisca, bensì la necessaria conformazione di quel rapporto eziologico alla peculiare natura del reato e alla sua concreta funzione economica». E’ necessario, cioè, che il nesso di derivazione sussista, ma che si identifichi non con riferimento alle singole banconote acquisite, bensì al generale accrescimento patrimoniale conseguito dall’indagato.

Orbene, nel caso di specie, sia pure a livello di mera configurazione indiziaria, deve essere affermato che tale accrescimento patrimoniale vi è certamente stato, per come diffusamente esplicato dal Tribunale del riesame nell’ordinanza impugnata.

Di tale arricchimento non ha usufruito la struttura societaria – essendo stata messa in liquidazione, e perfino cancellata dal registro delle imprese, la incapiente S. s.r.l. – ma direttamente le persone degli indagati, a cui è stato conseguentemente sequestrato il denaro, conformemente ai principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, sia pur in materia di reati tributari commessi dall’amministratore di una società. E’ stato reiteratamente affermato, infatti, che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto, nei confronti dell’amministratore di una società, solo quando, all’esito di una valutazione allo stato degli atti sullo stato patrimoniale della persona giuridica, risulti impossibile il sequestro diretto del profitto del reato nei confronti dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato (così Sez. 4, n. 10418 del 24/01/2018, R., Rv. 272238; Sez. 3, n. 43816 del 01/12/2016, dep. 2017, D. F., Rv. 271254; Sez. 3, n. 35330 del 21/06/2016, N., Rv. 267649; Sez. 3, n. 41073 del 30/09/2015, S., Rv. 265028; Sez. 3, n. 1738 del 11/11/2014, dep. 2015, B., Rv. 261929).

L’indicato principio si attaglia perfettamente al caso di specie. Non rileva, infatti, in senso opposto, la doglianza difensiva per cui il principio può trovare applicazione solo con riferimento alla diversa e ben distinta materia dei reati tributari, ravvisandosi, invece, una perfetta analogia tra esso e la specifica condotta perpetrata nel caso di specie.

Emettere fatture per operazioni inesistenti o non versare il pagamento di tributi, e cioè compiere azioni fraudolente o omissive finalizzate a non depauperare, e quindi aumentare, il capitale sociale, presenta, infatti, una perfetta analogia con l’ipotesi in cui lo stesso identico fine venga perseguito adottando condotte del pari fraudolente o omissive, ad esempio non corrispondendo la retribuzione ai lavoratori per ore di lavoro straordinario prestate, ovvero facendosi restituire da essi parte dello stipendio percepito, loro elargito solo formalmente.

La riferibilità dell’arricchimento patrimoniale alle indicate condotte, comprovate dai plurimi riscontri indicati nell’ordinanza gravata, palesa appieno, pertanto, la sussistenza del nesso di pertinenzialità tra il denaro sequestrato e l’attività illecita svolta, necessario ai fini del sequestro a fini di confisca diretta, secondo i parametri espressi dalla indicata decisione delle Sezioni Unite.

4. Analogamente priva di fondamento è, poi, la terza doglianza eccepita dal ricorrente, con cui il T. ha lamentato che, essendo la maggior parte della somma sequestrata costituita da risparmi di spesa derivanti dalla mancata corresponsione di emolumenti, essa non rientrerebbe nella nozione di profitto di reato, passibile di successiva confisca, non corrispondendo ad un reale spostamento di risorse economiche, ovvero ad un effettivo accrescimento patrimoniale realizzato mediante l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica.

E’ indubbio che la condotta delittuosa ascritta all’indagato abbia comportato il godimento di prestazioni lavorative gratuite, ossia un vantaggio che, di per sé solo, non sarebbe idoneo ad integrare il profitto confiscabile. E’ anche vero, tuttavia, che tale condotta illecita ha impedito, quale conseguenza diretta del reato, l’uscita economica dal patrimonio del T. delle somme corrispondenti alle retribuzioni dovute e non corrisposte ai lavoratori, e ciò, di fatto, è equivalso a un incremento di natura patrimoniale valutabile in termini di profitto.

Tale risparmio di spesa ben rappresenta, infatti, un effettivo e materiale incremento del patrimonio dell’indagato, potendosi, altresì, fare richiamo al principio espresso in materia di reati tributari – per le ragioni in precedenza esposte ben accostabile alla fattispecie in esame – per cui il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario (cfr. Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, A., Rv. 255036-01 in tema di reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all’art. 11 d.lgs n. 74 del 2000).

E’ principio chiaro, logico e condivisibile, non determinativo di nessuna interpretazione in malam partem, né violativo del principio di tassatività, così da determinare il rigetto di ogni invocata istanza di rimessione della problematica alle Sezioni Unite, ovvero di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 603-bis.2 cod. pen..

5. Del tutto prive di fondamento sono, poi, le censure dedotte con il quarto ed il quinto motivo di ricorso, afferenti alla presunta insussistenza di profili di responsabilità gravanti a carico del T., nonché, in generale, per carenza di indicazione del fumus commissi delicti.

Le plurime emergenze processuali, come verificate e interpretate dal consulente del P.M., hanno, infatti, indotto a ritenere comprovata la ricorrenza della condotta indiziariamente ascritta all’indagato, così come del profitto che ne è direttamente conseguito, alla stregua di quanto, peraltro, dettagliatamente rappresentato dal Tribunale del riesame, che ha diffusamente rappresentato i numerosi riscontri acquisiti nel corso delle indagini, soprattutto attraverso le dichiarazioni rese da diversi lavoratori escussi.

Trattasi, comunque, di doglianze che, nella sostanza, afferiscono ad una presunta carenza motivazionale, invero non deducibile in questa sede in virtù del disposto dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen., che, come detto, consente il ricorso per cassazione contro le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio solo per vizio di violazione di legge.

6. Deve essere accolto, invece, l’ultimo motivo di ricorso dedotto dal T., con cui è stata lamentata violazione degli artt. 321, comma 2, e 125, comma 3, cod. proc. pen. in ragione dell’omessa motivazione in ordine alla sussistenza del periculum in mora.

In primo luogo corretta è l’argomentazione dedotta dalla difesa riguardo al fatto che, nel caso in esame, trova vigenza il principio della devoluzione completa del thema decidendum al Tribunale del riesame, cui è rimesso anche il compito di verificare la ricorrenza del necessario presupposto del periculum in mora.

Tale ultimo aspetto, alla stregua di quanto correttamente eccepito da parte del ricorrente, non è stato in alcun modo considerato da parte dei giudici del riesame, che hanno omesso di rappresentare le ragioni di pericolo per cui è stato disposto il sequestro preventivo del profitto del reato, in vista della confisca obbligatoria ex art. 603-bis.2 cod. pen..

6.1. Rispetto a ciò è, poi, necessario tener conto anche del principio di recente espresso dalla sentenza Sez. U, n. 36959 del 24/06/2021, E., Rv. 281848-01, in cui il Supremo Collegio ha esplicato come il provvedimento di sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., finalizzato alla confisca di cui all’art. 240 cod. pen., debba contenere la concisa motivazione anche del “periculum in mora”, da rapportare alle ragioni che rendono necessaria l’anticipazione dell’effetto ablativo della confisca rispetto alla definizione del giudizio, salvo restando che, nelle ipotesi di sequestro delle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisca reato, la motivazione può riguardare la sola appartenenza del bene al novero di quelli confiscabili “ex lege” (Fattispecie relativa a sequestro preventivo finalizzato alla confisca del profitto del reato in ordine al quale la Corte ha chiarito che l’onere di motivazione può ritenersi assolto allorché il provvedimento si soffermi sulle ragioni per cui, nelle more del giudizio, il bene potrebbe essere modificato, disperso, deteriorato, utilizzato od alienato).

A dire delle Sezioni Unite, la motivazione deve prevedere l’esplicita specificazione delle ragioni per cui si ritiene che, nelle more del giudizio, la cosa, suscettibile di confisca, possa essere modificata, dispersa, deteriorata, utilizzata o alienata, rendendone imprescindibile l’immediata apprensione, stante il rischio che la confisca possa successivamente divenire impraticabile.

La ratio della misura è, perciò, quella di preservare, anticipandone i tempi, gli effetti di una misura che, ove si attendesse l’esito del processo, potrebbero essere vanificati dal trascorrere del tempo.

Operando un parallelismo con l’istituto del sequestro conservativo ex art. 316 cod. proc. pen., l’indicata sentenza ha inequivocabilmente esplicato che, in definitiva, «è il parametro della “esigenza anticipatoria” della confisca a dovere fungere da criterio generale cui rapportare il contenuto motivazionale del provvedimento, con la conseguenza che, ogniqualvolta la confisca sia dalla legge condizionata alla sentenza di condanna o di applicazione della pena, il giudice sarà tenuto a spiegare, in termini che, naturalmente, potranno essere diversamente modulati a seconda delle caratteristiche del bene da sottrarre, e che in ogni caso non potranno non tenere conto dello stato interlocutorio del provvedimento, e, dunque, della sufficienza di elementi di plausibile indicazione del periculum, le ragioni della impossibilità di attendere il provvedimento definitorio del giudizio».

6.2. In tal maniera chiariti i principi espressi dalle Sezioni Unite, osserva il Collegio come di essi non sia stata fatta applicazione alcuna da parte del Tribunale del riesame nell’ordinanza impugnata, non essendo state in nessun modo precisate, in ossequio a quanto richiesto dal Supremo Collegio, le ragioni di attuale sussistenza di una situazione di periculum tale da rendere necessaria l’anticipazione dell’effetto ablativo della confisca rispetto alla definizione del giudizio.

I giudici del riesame non hanno, in particolare, esplicato le ragioni di sussistenza del periculum in mora, e cioè gli specifici motivi per cui è stato ritenuto che il confiscando bene – peraltro fungibile e non intrinsecamente illecito, trattandosi di una somma di denaro – possa, nelle more della celebrazione del giudizio, essere modificato, disperso, deteriorato, utilizzato od alienato.

7. In ragione della considerazione da ultima resa, deve, allora, essere disposto l’annullamento dell’ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Palermo.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Palermo.