Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 29651 depositata il 2 luglio 2018
omesso versamento – momento consumazione reato – causa di forza maggiore
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 28/2/2017, la Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della pronuncia emessa il 28/4/2016 dal Giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale, riduceva la pena inflitta ad A.L. a venti giorni di reclusione e 120,00 euro di multa; allo stesso era contestato il delitto di cui all’art. 2, comma 1-bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla I. 11 novembre 1983, n. 638, per aver omesso – nella qualità di legale rappresentante della “E. s.r.l.” – di versare all’INPS le ritenute assistenziali e previdenziali operate sulle retribuzioni dei dipendenti, in varie mensilità dell’anno 2010, per un importo superiore a 10.000,00 euro.
2. Propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
– inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen. La Corte di appello avrebbe erroneamente addebitato al ricorrente anche l’omissione contestata per la mensilità di luglio 2010, sebbene questi fosse cessato dalla carica suddetta il 5/8/2010; in epoca precedente, quindi, alla scadenza del termine per il pagamento, fissata per il giorno 16 dello stesso mese;
– inosservanza e/o erronea applicazione della norma contestata. La sentenza non avrebbe adeguatamente considerato che il ricorrente, al momento della ricezione dell’avviso INPS, si sarebbe trovato nell’impossibilità di adempiere, non ricoprendo più alcuna carica in seno all’ente. Diversamente ragionando, infatti, si dovrebbe immaginare che lo stesso avrebbe dovuto provvedere al pagamento con le proprie risorse personali, sì da determinare una palese disparità di trattamento – possibile fonte di dubbi di costituzionalità – con il soggetto che detto avviso riceva in costanza di qualifica legale;
– mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 131-bis cod. pen. La Corte di appello avrebbe negato la causa di non punibilità con argomento censurabile, con il quale, peraltro non avrebbe valutato il brevissimo arco temporale interessato dalla contestazione; difetterebbe, pertanto, l’abitualità della condotta. A ciò si aggiunga, peraltro, che l’eccedenza dell’omissione rispetto alla soglia di punibilità sarebbe minima, ossia pari a soli 1.912,00 euro; importo riducibile, poi, a soli 154,00 euro, qualora si eliminasse dalla contestazione il mese di luglio 2010, come richiesto con la prima censura;
– inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 53, l. n. 689 del 1981. La sentenza, pur riducendo la pena inflitta, non avrebbe speso alcuna motivazione quanto alla sostituzione della stessa con quella pecuniaria, sebbene richiesta in appello; misura che, peraltro, la Corte avrebbe potuto adottare anche d’ufficio.
Si chiede, pertanto, l’annullamento della pronuncia.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta fondato limitatamente alla prima censura.
In particolare, pacifico il mancato versamento delle ritenute effettuate sulle retribuzioni in tutte le mensilità di cui alla rubrica, osserva la Corte .che l’avvenuta cessazione dell’A.L. dalla carica sociale in data 5/8/2010 esclude, di per sé, ogni responsabilità quanto all’omissione relativa al luglio 2010; ed invero, poiché il giorno 16 del mese successivo costituisce il termine ultimo entro il quale effettuare il versamento, momento consumativo del reato in oggetto, l’eventuale omissione deve esser addebitata a colui che, per legge, sia tenuto ad effettuare il pagamento alla scadenza medesima. In forza di tale assunto, questa Corte ha dunque più volte affermato – indirizzo sorto con riguardo al delitto di cui all’art. 10-ter, d. Igs. n. 74 del 2000, ma applicabile anche al caso in esame – che non risponde del reato di omesso versamento chi, pur avendo presentato la dichiarazione annuale, non è poi tenuto, anche per fatti sopravvenuti, al pagamento dell’imposta nel termine previsto, salvo che il pubblico ministero non dimostri che il soggetto abbia inequivocabilmente preordinato la condotta rispetto all’omissione del versamento (ad esempio, dismettendo artatamente la carica di amministratore della persona giuridica soggetto IVA) ovvero abbia fornito un contributo causale, materiale o morale, da valutarsi a norma dell’art.110 cod. pen., all’omissione della persona obbligata, al momento della scadenza, al versamento dell’imposta dichiarata (tra le altre, Sez. 3, n. 53158 del 2/7/2014, Lombardi, Rv. 261596; Sez. 3, n. 12248 del 22/1/2014, Faotto, Rv. 259808).
Quel che la sentenza impugnata non deduce affatto, tanto meno prova, sì da doversi annullare senza rinvio, in parte qua, la pronuncia medesima, per non aver l’imputato commesso il fatto. Con rideterminazione della pena, che questo Collegio può di certo compiere alla luce del tenore della pronuncia sul punto, nella misura di giorni sedici di reclusione e 90,00 euro di multa.
4. A conclusioni diverse, invece, perviene poi la Corte quanto alla seconda doglianza, con la quale si sostiene che il legale rappresentante – una volta cessato dalla carica – non dovrebbe più rispondere del reato quanto alle omissioni compiute in pendenza della carica stessa, non potendo più attingere al patrimonio sociale per beneficiare della causa di non punibilità di cui al comma 1- bis dell’art. 2 contestato, e dovendo, quindi, far affidamento sul solo patrimonio personale, a differenza di quanto consentito al legale rappresentante nel pieno delle funzioni.
Orbene, questa tesi è del tutto priva di fondamento.
5. Al riguardo, infatti, occorre richiamare il principio – più volte affermato dal Giudice di legittimità (tra le ultime, Sez. 3, n. 39072 del 18/7/2017, Falsini) – a mente del quale nel reato in oggetto la forza maggiore (che di fatto qui si invoca) impone la prova che non sia stato altrimenti possibile reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentire il corretto e puntuale adempimento dell’obbligazione contributiva, pur avendo – il soggetto obbligato – posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055).
6. Ne consegue che l’argomento utilizzato dal ricorrente a sostegno della fondatezza della oggettiva impossibilità di adempiere risulta all’evidenza infondato. La forza maggiore, come indicato, esclude la “suitas” della condotta. Secondo l’impostazione tradizionale, è la “vis cui resisti non potest”, a causa della quale l’uomo “non agit sed agitur” (Sez. 1, n. 900 del 26/10/1965, Sacca, Rv. 100042; Sez. 2, n. 3205 del 20/1271972, Pilla, Rv. 123904; Sez. 4, n. 8826 del 21/0471980, Ruggieri, Rv. 145855). Per questa ragione, essa sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è dovuta all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, mai quando egli si trovi già in condizioni di illegittimità (Sez 4, n. 8089 del 13/0571982, Galasso, Rv. 155131; Sez. 5, n. 5313 del 26/03/1979, Geiser, Rv. 142213; Sez. 4, n. 1621 del 19/01/1981, Sodano, Rv. 147858; Sez. 4 n. 284 del 18/02/1964, Acchiardi, Rv. 099191). Poiché la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente, questa Suprema Corte ha dunque sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante. (Sez. 3, n. 4529 del 4/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 5/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez 3, n. 24410 del 5/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 7/05/1984, Anderi, Rv. 165822).
7. A ciò si aggiunga – con particolare incidenza al caso di specie – che la causa di forza maggiore deve sussistere al momento della scadenza del termine previsto per il pagamento del singolo versamento da essa impedito, non anche con riguardo alla possibile applicazione della causa di esclusione della punibilità richiamata nel ricorso che, come tale, quand’anche operante, non impedisce comunque la consumazione di un delitto già perfezionato nei suoi termini oggettivi e soggettivi; con riguardo ai quali – si ribadisce – il ricorrente non deduce alcuna assoluta impossibilità di versare il dovuto. E senza che rilevino, in senso contrario, i rapporti “interni” tra la persona fisica chiamata a rispondere dell’addebito penale (anche successivamente alla cessazione della carica) e l’ente di riferimento, atteso che questi potranno eventualmente esser poi regolati in altre sedi; quel che, in ogni caso, non impedirà l’affermazione di responsabilità nei confronti di chi era tenuto all’adempimento dell’obbligazione al momento della sua scadenza, quale legale rappresentante in carica a quella data, indipendentemente dal successivo variare dei medesimi rapporti “interni” (tra le altre, Sez. 3, n. 2741 del 10/10/2017, Turina, Rv. 272027; Sez. 3, n. 3541 del 16/12/2015, Faranda, Rv. 265937).
5. Palesemente infondata, infine, risulta anche la doglianza concernente la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., negata dalla Corte di appello alla luce del carattere non esiguo del danno arrecato all’istituto previdenziale, in uno con la gravità della condotta omissiva tenuta, connotata da peculiare reiterazione (numerose mensilità).
Orbene, rileva il Collegio che tale ultimo argomento – del tutto congruo – risulta invero decisivo per la questione in esame, evidenziando nell’illecito riscontrato un carattere di abitualità (id est: assenza di occasionalità), peraltro non connaturale al reato, che, per espressa previsione normativa, impedisce di accedere all’istituto in esame.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla mensilità di luglio 2010 per non aver l’imputato commesso il fatto e ridetermina la pena finale in giorni sedici di reclusione ed euro 90,00 di multa. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
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