CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 29870 depositata il 3 luglio 2018
Violazioni – Evasione fiscale – Reati di compensazione di crediti tributari inesistenti
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 1.06.2017, depositata in data 24.07.2017, il tribunale del riesame di Milano, in accoglimento dell’appello cautelare presentato dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Milano avverso il provvedimento con cui il GIP, in data 20.02.2017, respingeva la richiesta di applicazione del sequestro preventivo nei confronti della M., indagata per i reati di cui agli artt. 110, 81 cpv, c.p. e 10 quater, comma 2, 13 bis, comma 3, d. lgs. n. 74 del 2000 (indebita compensazione in concorso), disponeva il sequestro preventivo per equivalente di beni mobili ed immobili nella disponibilità dell’indagata medesima fino alla concorrenza della somma di € 42.558.848,56.
2. Giova precisare, per migliore intelligibilità dell’impugnazione proposta in questa sede, che il procedimento penale in questione trae origine dall’attività d’indagine che aveva condotto il p.m. a contestare l’imputazione di cui sopra con cui si ascriveva all’indagata ricorrente, unitamente ad altri soggetti non impugnanti in questa sede, di aver (la M. in qualità di consulente fiscale e di amministratore di diritto e/o di fatto della M.D. s.r.l. e della F.F.C. s.r.I., società di consulenza alle imprese, alla stessa riconducibili), ideato e commercializzato “modelli di evasione fiscale” attraverso cui sarebbero stati commessi più reati di compensazione di crediti tributari inesistenti, per il totale di € 42.558.848,56 nel periodo dal 1.01.2013 al 2.9.2016, compensazioni che alcuni soggetti (M.M., sia nella qualità di titolare dell’omonima ditta individuale che quale legale rappresentante della M.D. s.r.l. dal 27.05.2014 al 1.09.2015 e della F.F.C. s.r.l. dal 16.09.2015, T.F. quale legale rappresentante della M.D. s.r.l. fino al 27.05.2014 e P.A. quale legale rappresentante della M.D. s.r.l. dal 1.09 al 31.12.2015) effettuavano mediante la trasmissione telematica di modelli F24, accollandosi il debito tributario riferibile a terzi, in ciò consentendo loro l’apparente regolarizzazione della propria posizione fiscale, il tutto utilizzando crediti fittizi.
3. Contro l’ordinanza emessa dal tribunale del riesame di Milano, ha proposto ricorso per cassazione la M., a mezzo del difensore di fiducia iscritto all’albo ex art. 613 c.p.p., prospettando un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
3.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di cui all’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., per violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 321 e 322-ter c.p.p., 12-bis, d. lgs. n. 74 del 2000 e 48 c.p. In sintesi, sostiene, anzitutto, la difesa della ricorrente che, nel caso di specie, essendosi in presenza di un reato proprio, esso può essere commesso esclusivamente da parte del contribuente, alla luce della efficacia interna e non nei confronti del Fisco del rapporto terzo/contribuente (discendente dalla natura del c.d. accollo tributario ex art. 8, co. 2, I. n. 212 del 2000), con la conseguenza che l’accollante non potrebbe mai assumere la veste di contribuente o di soggetto passivo del rapporto tributario, non potendo ad esso applicarsi i principi di solidarietà tributaria ma semmai la sola veste di obbligato in forza del titolo negoziale sottoscritto solo nei confronti del debitore originario ovvero dell’accollato; si osserva, peraltro, che se è ben vero che in astratto potrebbe profilarsi una responsabilità per il terzo o per l’intermediario ex art. 110 c.p., non sarebbe ipotizzabile alcun concorso nel caso concreto, in assenza di una condotta penalmente imputabile al contribuente, soggetto destinatario della previsione normativa; si aggiunge che se il legislatore avesse voluto includere ed estendere la responsabilità del reato di cui all’art. 10- quater, d. lgs. n. 74 del 2000 a terzi soggetti diversi dal contribuente, lo avrebbe espressamente previsto, cosa che invece non è avvenuta laddove ha previsto all’art. 17, d. lgs. n. 241 del 1997 il contribuente quale soggetto passivo di imposta e non altri; quanto sopra sarebbe supportato dalla disciplina in tema di confisca tributaria di cui all’art. 12-bis, n. 2, d. lgs. n. 74 del 2000 dove il riferimento alla figura del “contribuente” non può essere estesa al terzo che in forza di uno schema negoziale siasi accollato il debito fiscale, osservandosi che, diversamente, la legge avrebbe previsto anche per il coobbligato solidale la possibilità di avvalersi dei benefici previsti dall’art. 12-bis citato mentre, secondo la normativa attuale, anche se il contribuente originario pagasse il proprio debito tributario i benefici dell’art. 12-bis, n. 2, d. lgs. n. 74 del 2000 sarebbero paradossalmente inapplicabili al terzo accollante; le due figure, dunque, non sarebbero sovrapponibili, con la conseguenza che in capo all’accollante non potrebbe mai essere configurata una responsabilità per il delitto di cui all’art. 10-quater, d. lgs. n. 74 del 2000; per quanto, poi, concerne il profitto del reato tributario contestato, costituito dal risparmio di “spesa” rappresentato dall’ammontare del credito inesistente opposto in compensazione, si afferma che erronea è l’affermazione secondo cui il fatto sarebbe imputabile alla persona dell’accollante considerato nel caso di specie debitore solidale; sul punto si sostiene che l’autore della compensazione illecita, comunque soggetto diverso rispetto al contribuente, non potrebbe aver causato alcun danno all’Erario poiché non ha estinto alcun debito tributario, essendo rimasto in capo al debitore originario l’obbligo del pagamento del tributo, essendo irrilevante la circostanza del risparmio tributario sul debito originario ottenuta in seguito al contratto di accollo; infine, si sostiene che erroneo sarebbe il richiamo da parte del tribunale del riesame all’art. 48 c.p., ossia alla figura del c.d. autore mediato, ipotesi sostenuta in alternativa nell’ordinanza impugnata per individuare la responsabilità dell’indagata; l’affermazione sarebbe contraddittoria, in quanto da un lato, si affermerebbe la responsabilità diretta per il delitto in esame del c.d. accollante e, dall’altro, si richiama l’art. 48 c.p., prospettando comunque un’induzione in errore del contribuente che, a sua volta, integrerebbe la condotta di indebita compensazione; per affermare la responsabilità dell’autore mediato, si osserva, occorrerebbe pur sempre che l’altrui condotta integri il fatto punibile, laddove invece dalla motivazione del tribunale del riesame emergerebbe una ipotesi di reato impossibile.
Considerato in diritto
4. Il ricorso è infondato e dev’essere rigettato.
5. Il tribunale del riesame, in accoglimento dell’appello del PM, ha infatti esaminato i profili oggetto di doglianza, pervenendo a conclusioni del tutto corrette in diritto.
Ed invero, così procedendo ad esaminare i profili di doglianza dianzi illustrati, ha anzitutto escluso la tesi dell’estraneità della ricorrente; in particolare, sotto il profilo materiale, ha sottolineato come la M. abbia fornito un apporto essenziale al meccanismo fraudolento descritto, posto che la stessa indagata personalmente e la M.D. s.r.l. risultavano aver esposto nei modelli di dichiarazione relativi agli ultimi anni di imposta ingenti crediti di imposta inesistenti, creati mediante semplice indicazione nei modelli fiscali, nei quali erano indicate altresì acquisizioni di crediti d’imposta trasferiti sia alla M. che alla M.D. s.r.l. da parte di soggetti societari sprovvisti dei crediti ceduti; risultavano poi ben 47 i soggetti che avevano fatto ricorso alla M. con trasmissione di ben 229 modelli di pagamento per compensazioni per milioni di euro; inoltre, si legge sempre nell’ordinanza, risulta pacifico come la creazione del meccanismo fosse pacificamente riconducibile alla M., come anche pacifica fosse la fattiva attività da questa svolta per convincere i potenziali clienti della bontà ed esistenza dei crediti, mediante la falsa documentazione loro esibita.
6. Nessun dubbio, poi, in ordine alla corretta qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 10 quater, co. 2, d. lgs. n. 74 del 2000. Anche su tale punto, il tribunale del riesame si sofferma osservando correttamente come il reato de quo sia un reato proprio, in cui l’agente-intraneus viene descritto dalla norma come “chiunque”, essendo essenziale rimarcare ad avviso del tribunale che la norma pone l’accento non tanto su una qualifica soggettiva ma su un soggetto qualsiasi che peraltro si qualifica in base a ciò che compie, ossia non versa le somme dovute utilizzando in compensazione crediti inesistenti.
Il richiamo è alla norma dell’art. 17, d. lgs. n. 241 del 1997, che così recita: “1. I contribuenti eseguono versamenti unitari delle imposte, dei contributi dovuti all’INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali, con eventuale compensazione dei crediti, dello stesso periodo, nei confronti dei medesimi soggetti, risultanti dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche presentate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.
Tale compensazione deve essere effettuata entro la data di presentazione della dichiarazione successiva. La compensazione del credito annuale o relativo a periodi inferiori all’anno dell’imposta sul valore aggiunto, per importi superiori a 5.000 euro annui, può essere effettuata a partire dal decimo giorno successivo a quello di presentazione della dichiarazione o dell’istanza da cui il credito emerge”.
La norma in questione fa necessariamente riferimento al concetto di contribuente, poiché muove dal presupposto che colui che ricopre una posizione passiva versoi il Fisco (appunto, il contribuente), può scegliere di compensare crediti anziché versare le imposte: il contribuente è, cioè, nella normalità il debitore, che, se assomma su di sé anche la posizione di creditore verso il Fisco, può compensare le due poste; l’art. 10 quater, riferendosi a chi “non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione” crediti inesistenti si riferisce ai soggetti legittimati, ex artt. 17 ss. d. lgs. n. 241 del 1997, ad effettuare pagamenti di imposta utilizzando in compensazione crediti verso l’Erario, ed in tale categoria devono farsi necessariamente rientrare anche coloro che, in virtù del contratto di accollo, agiscono come debitori proprio in virtù del fatto che, con l’accollo, si sono volontariamente fatti carico di debiti altrui.
7. Trattasi, peraltro, di operazione fiscalmente illecita e penalmente rilevante.
In sostanza, detta operazione prevede che il debito del contribuente (accollato) venga pagato da una terza società (accollante), che lo onora non pagandolo direttamente bensì mediante compensazione con un proprio credito, credito che a sua volta l’accollante ha acquistato da soggetti che, per varie ragioni, non potevano monetizzarlo. Nel modello F24, vengono indicati due codici fiscali, inserendo il codice “62”, denominato “soggetto diverso dal fruitore del credito” (ris. Agenzia delle Entrate 22 dicembre 2009 n. 286). Infine, il contribuente (accollato) corrisponde all’accollante una percentuale del valore del proprio debito, risparmiando così la differenza.
Ad ulteriore conferma di quanto sopra, ai fini della configurabilità del reato, peraltro, deve essere evidenziato come la stessa Agenzia delle Entrate, con la recente risoluzione n. 140 pubblicata in data 15 novembre 2017 (la cui rilevanza ha in questa sede solo valenza interpretativa), nel prendere posizione sulla legittimità del pagamento dei debiti fiscali mediante compensazione con crediti d’imposta a seguito del c.d. “accollo fiscale”, ha fornito una risposta negativa. L’operazione in questione, osserva l’Ufficio, deve infatti essere ritenuta elusiva (e, nel caso di specie, precisa il Collegio, ha rilevanza penale, essendo stato commesso il fatto attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale) non solo della disciplina sulla compensazione, ma anche di quella relativa alla cessione dei crediti d’imposta. L’Agenzia delle Entrate richiama innanzitutto l’art. 8, comma 2, della L. 212/2000, secondo cui è ammesso l’accollo del debito d’imposta, senza liberazione del contribuente originario. Tuttavia, nel momento in cui l’accollante paga mediante compensazione con un proprio credito, entra in gioco la compensazione, disciplinata dalla normativa tributaria di riferimento (in primis dall’art. 17 del D.lgs. 241/97), che, allo stato attuale, non solo non prevede il caso dell’accollo, ma richiede che la compensazione avvenga unicamente tra i medesimi soggetti. Come rammentato più volte dalla giurisprudenza, peraltro, l’estinzione del debito mediante compensazione può avvenire, nel settore tributario, solo ove la legge lo ammetta espressamente. Si è infatti affermato che, in materia tributaria, la compensazione è ammessa, in deroga alle comuni disposizioni civilistiche, soltanto nei casi espressamente previsti, non potendo derogarsi al principio secondo cui ogni operazione di versamento, riscossione e rimborso ed ogni deduzione sono regolate da specifiche e inderogabili norme di legge. Tale principio non può considerarsi superato per effetto dell’art. 8, comma primo, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (cd. statuto dei diritti del contribuente), il quale, nel prevedere in via generale l’estinzione dell’obbligazione tributaria per compensazione, ha lasciato ferme, in via transitoria, le disposizioni vigenti, demandando ad appositi regolamenti l’estensione di tale istituto ai tributi per i quali non era contemplato, a decorrere dall’anno di imposta 2002 (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 17001 del 09/07/2013, Rv. 627180 – 01; Sez. 5, Sentenza n. 10207 del 18/05/2016. Rv. 639988 – 01).
Dunque, non essendo tale modalità consentita dalla legge, l’operazione è illecita e, nei casi come quello qui esaminato, assume anche rilevanza penale, atteso che, per pacifica giurisprudenza di questa Corte, l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis I. 27 luglio 2000, n. 212, che, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi (v., sul punto: Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015 – dep. 07/10/2015, Mocali, Rv. 264950; Sez. 3, n. 38016 del 21/04/2017 – dep. 31/07/2017, Ferrari, Rv. 270550).
8. Orbene, proprio analizzando i modelli F24, il c.t. del PM, ricorda il tribunale del riesame, evidenzia come nella sezione “contribuente” vengono riportati sia i dati identificativi del soggetto debitore d’imposta, sia i dati del soggetto coobbligato, ossia del soggetto che effettua il pagamento delle imposte, mediante compensazione, in veste di coobbligato, figura, quest’ultima, prevista dal modello F24 che prevede anche l’utilizzo di un codice che identifichi l’operazione (in particolare, il cod. 62 si riferisce a “soggetto diverso dal fruitore del credito”, ossia quando il debito tributario venga pagato da un soggetto diverso dall’effettivo debitore, come nel caso dell’accollo); è dunque evidente come nello stesso modello F24 è espressamente indicato un soggetto coobbligato, che riveste necessariamente la posizione di debitore, anche se, in via derivata, tanto da operare la compensazione con i propri crediti.
9. Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto: «Integra il delitto di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il pagamento dei debiti fiscali mediante compensazione con crediti d’imposta inesistenti a seguito del c.d. “accollo fiscale” commesso attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale, in quanto l’art. 17 del D.lgs. 241/97 non solo non prevede il caso dell’accollo, ma richiede che la compensazione avvenga unicamente tra i medesimi soggetti».
10. Quanto, poi, al profilo afferente al profitto del reato il tribunale ritiene condivisibile l’impostazione del PM; si osserva, in particolare, che se nei reati tributari il profitto del reato si identifica nel c.d. risparmio di spesa, nel caso in esame esso coincide con il totale dell’importo portato a compensazione, ossia con il 100% del debito, proprio perché il credito è inesistente; con la compensazione, cioè, l’agente ottiene un beneficio, il risparmio totale di spesa, utilizzando crediti inesistenti; tale 100% indebitamente risparmiato viene ripartito tra accollante e accollato con una regolamentazione tra privati antecedente rispetto alla materiale compensazione; essa infatti, precisa il tribunale, costituisce il comportamento tipico che fa conseguire il risparmio del 100%, che viene ripartito anticipatamente, nella misura del 30% all’accollato, pari al risparmio ottenuto con l’accollo, e nella misura del 70 % all’accollante, con il pagamento ottenuto dall’accollato.
Orbene, che di tale meccanismo e, dunque, del danno cagionato all’erario, debba rispondere anche la ricorrente, deriva dall’impostazione sopra data alla partecipazione della stessa alla commissione del reato, quale autore diretto in quanto il soggetto agente è soggetto che assomma in sé la figura di debitore coobbligato e creditore, a prescindere dal rapporto di debito originario tra debitore ed Erario.
Se, cioè, il debitore ritorna a essere per l’Erario, l’unico referente per il debito tributario originario (non essendo l’accollo liberatorio), l’autore dell’indebita compensazione, e, dunque, l’autore del reato, dovrà comunque rispondere verso l’Erario per le conseguenze economiche derivanti dal fatto—reato da lui commesso, per un quantum determinato in base al debito totale indebitamente compensato.
L’Erario, dunque, potrebbe essere legittimato nel processo di merito a costituirsi parte civile nei confronti degli autori del reato, soggetti diversi dall’originario debitore, rispetto al quale la pretesa resta ancorata al titolo originario, in quanto responsabili di una condotta fraudolenta penalmente rilevante che ha comportato l’indebito azzeramento della propria pretesa verso il debitore originario, estraneo alla condotta fraudolenta medesima. Sarebbe del tutto illogico, del resto, ipotizzare che sia proprio l’autore della condotta fraudolenta, cui il debitore è estraneo, a beneficiare della permanenza del debito in capo al debitore accollato, quando, invece, è proprio la condotta fraudolenta da lui posta in essere ad avere cagionato un danno all’Erario.
11. Alla stregua di quanto sopra, pertanto, deve pertanto respingersi il motivo di ricorso che ruota attorno alla presunta estraneità della M. rispetto ai fatti contestati, essendo evidente per le ragioni esplicitate quindi che la responsabilità della stessa discenda proprio dalla natura dell’operazione di accollo fiscale posta in essere, dovendosi differenziare l’ascrivibilità a titolo diretto o per effetto del disposto dell’art. 48 c.p. a seconda che il debitore sia o meno consapevole dell’inesistenza del credito da compensare; nel primo caso, infatti, come evidenziato nell’ordinanza, è il soggetto agente che assomma in sé la figura di debitore coobbligato e creditore, dunque non è necessario il ricorso al c.d. autore mediato (come, ad esempio, si legge nell’ordinanza, nel caso del P.A., debitore iscritto nel registro degli indagati per cui è stato ritenuto ipotizzabile il concorso, insieme al P. ed alla M.); diversamente, ove il debitore sia inconsapevole, trova applicazione l’art. 48 c.p., in quanto, in quest’ultimo caso, l’accollante stipula il contratto con il debitore accollato ingannandolo sull’esistenza dei crediti, con ciò inducendolo in errore circa la liceità dell’operazione; in tal modo, agendo attraverso l’apporto del debitore inconsapevole della fraudolenza del meccanismo – essendo stato appositamente ingannato attraverso una vera attività truffaldina basata su documentazione falsa – questi pone in essere la condotta di indebita compensazione quale autore mediato, in quanto il debitore originario opera la compensazione perché ingannato dal suo coobbligato/accollante circa l’esistenza dei crediti, condotta di cui deve rispondere ex art. 48 c.p. colui che l’ha indotto in errore; nessun vizio di quelli evocati dalla ricorrente, dunque, è ipotizzabile nel richiamo “alternativo” operato dal tribunale alla responsabilità diretta o per effetto dell’art. 48 c.p., operando quest’ultima previsione con riferimento ai debitori non iscritti nel registro degli indagati essendo stati ritenuti inconsapevoli dell’inesistenza dei crediti.
12. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, dunque, rigettato. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ex art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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