CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 30032 depositata il 2 agosto 2021
Reati tributari – Utilizzo in compensazione di crediti non spettanti – Concorso apparente tra i reati di indebita compensazione e di bancarotta impropria
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 26 febbraio 2020, la Corte d’appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano, con la quale l’imputato era stato condannato alla pena di mesi otto di reclusione, per il reato di cui all’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, perché, in qualità di amministratore unico della V. s.r.I., non versava le somme dovute, utilizzando in compensazione, nell’anno 2012, ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. 9 luglio 1997 n. 241, crediti IRES non spettanti o comunque fittizi, per l’importo complessivo di euro 2.326.511,60.
In particolare, la Corte d’Appello ha ritenuto provata la colpevolezza sulla base delle dichiarazioni del testimone funzionario dell’Agenzia delle Entrate, nonché dalla verifica comprata tra dichiarazioni dei redditi e bilanci depositati in Camera di Commercio. Infatti, dalla disamina del Mod. 770 e degli F24, per l’anno di imposta del 2012, a fronte di un credito IRES di euro 2.326.511,60 era stato dichiarato un imponibile a debito di euro 419.000,00; di talché la Corte territoriale aveva ritenuto irragionevole che, per lo stesso anno d’imposta, la società avesse maturato il credito IRES dedotto in compensazione.
2. Contro la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione formulando quattro motivi di doglianza, nonché una preliminare istanza di riunione di procedimenti, ex art. 610 cod. pen., con il fascicolo pendente presso la Sezione Quinta di questa Corte, RG. n. 8673/2020, avente ad oggetto il ricorso avverso la condanna dell’imputato per il reato di cui all’art. 223, secondo comma, del r.d. n. 267 del 1942, in quanto tra i due sussisterebbe una connessione monosoggettiva, realizzatasi attraverso una medesima condotta, identica ed integratice di più reati in concorso apparente tra loro o, comunque, legati dal vincolo della continuazione, rilevante ex art. 12 cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo di ricorso, la difesa deduce il travisamento della prova, nonché la manifesta illogicità della motivazione e la violazione dell’art. 10- quater del d.lgs. n. 74 del 2000, in quanto il debito oggetto di compensazione non avrebbe riguardato l’imposta sul valore aggiunto, ma prestazioni previdenziali, come tali escluse dal citato art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997, norma integratrice dell’art. 10-quater.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta la manifesta illogicità della motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto provata la colpevolezza dell’imputato, oltre ogni ragionevole dubbio, esclusivamente sulla scorta di prove documentali derivanti da verifiche automatizzate.
2.3. In terzo luogo, la difesa censura l’illogicità della motivazione, il travisamento della prova, nonché la violazione degli artt. 15 cod. pen., 223, secondo comma, l. fall. e 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, nella parte in cui si è negata la configurabilità del concorso apparente tra i reati di indebita compensazione e di bancarotta impropria, nonostante la condotta di indebita compensazione si inserisca in un unico disegno criminoso, inteso consapevolmente a danneggiare la tenuta societaria e quindi il credito dello Stato.
2.4. Con un ultimo motivo di ricorso, la difesa prospetta la manifesta illogicità della sentenza, in relazione agli artt. 62-bis e 133 cod. pen., nella parte in cui le circostanze attenuanti generiche non sono state riconosciute, trascurando elementi di fatto che avrebbero potuto indurre a ritenere meno gravi la condotta o il profilo soggettivo dell’imputato.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
Preliminarmente, va dichiarata inammissibile la richiesta di riunione di procedimenti per motivi di continuazione, poiché tale facoltà è riservata alla competenza funzionale del giudice di merito, ed è quindi sottratta ai poteri della Corte di Cassazione, in quanto l’accertamento della unicità del disegno criminoso implica una valutazione di fatto, inammissibile in sede di legittimità (Sez. 4, n. 3191 del 20/01/1993, Rv. 193643). Analoghe considerazioni valgono quanto all’accertamento dell’identità tra più fatti oggetto di distinte imputazioni, perché non è deducibile per la prima volta davanti alla Corte di cassazione la violazione del divieto del ne bis in idem sostanziale, in quanto l’accertamento relativo alla identità del fatto oggetto dei due diversi procedimenti, intesa come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, implica un apprezzamento di merito, né è consentito alle parti produrre in sede di legittimità documenti concernenti elementi fattuali; in altri termini, il giudizio richiesto postula comunque un apprezzamento storico-naturalistico del fatto, che, pertanto, esula dal perimetro del sindacato di legittimità (ex plurimis, Sez. 2, n. 6179 del 15/01/2021, Rv. 280648; Sez. 3, n. 57912 del 21/09/2017, Rv. 273606).
1.1. Fatta questa premessa, deve rilevarsi che il primo motivo di ricorso è doppiamente inammissibile.
1.1.1. In primo luogo, esso è formulato in modo non sufficientemente specifica, in quanto, deducendo il vizio di travisamento della prova, la difesa si limita a riferire come, in sede testimoniale, la funzionaria dell’Agenzia delle Entrate T. abbia affermato che l’imputato utilizzava crediti IRES non spettanti in compensazione non di debiti IVA, ma di debiti natura previdenziale. Il ricorrente, tuttavia, non specifica quali passaggi dell’esame testimoniale sarebbero stati travisati da parte della Corte territoriale, né specifica di avere già prospettato la questione come motivo di appello. D’altronde, anche dalla sentenza impugnata, non contestata sul punto dal ricorrente, appare che egli ha sottoposto al vaglio di merito esclusivamente la questione giuridica avente ad oggetto debiti diversi dalle imposte dirette, e non anche il travisamento della prova.
1.1.2. A prescindere dalla genericità del motivo, esso deve comunque ritenersi manifestamente infondato, in quanto la più recente giurisprudenza ritiene che il reato di indebita compensazione possa configurarsi sia in caso di compensazione “verticale”, riguardante crediti e debiti afferenti alla medesima imposta, sia in caso di compensazione “orizzontale”, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa, in quanto può avere ad oggetto tutte le somme dovute che possono essere inserite nell’apposito modello F24, incluse quelle relative ai contributi previdenziali e assistenziali. Infatti, la ratio dell’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000 va ricercata nella necessità, per il legislatore, di punire tutti quei comportamenti che, attraverso l’indebito ricorso all’istituto della compensazione tributaria, si concretizzino in un omesso versamento di quanto dovuto allo Stato e, conseguentemente, nel conseguimento di un indebito risparmio d’imposta da parte del soggetto contribuente. Tale ingiustificato risparmio non può essere limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta. Pertanto, l’omesso versamento può avere ad oggetto somme di denaro attinenti a tutti i debiti, sia tributari, sia di altra natura, il cui pagamento sia effettuato attraverso il modello di versamento unitario; rileva quindi, tanto sul lato attivo quanto sul lato passivo del rapporto obbligatorio, qualunque tributo o contributo che possa essere opposto in compensazione secondo le norme generali (ex plurimis Sez. 3, n. 13149 del 03/03/2020, Rv. 279118; Sez. 3, n. 5934 del 12/09/2018, Rv. 275833; Sez. 3, n. 8689 del 30/10/2018, Rv. 275015).
1.2. Il secondo motivo di ricorso è anche esso inammissibile per genericità. Il ricorrente opera un sommario riferimento al mancato raggiungimento, da parte del giudice di merito, della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, senza meglio precisare quali passaggi della motivazione della sentenza impugnata siano lacunosi o illogici. E giova sul punto ricordare che il parametro di valutazione indicato nell’art. 533 c.p.p. opera in modo diverso nella fase di merito e in quella di legittimità: solo innanzi alla giurisdizione di merito tale parametro può essere invocato per ottenere una valutazione alternativa delle prove sulla base delle allegazioni difensive; diversamente in sede di legittimità tale regola rileva solo nella misura in cui la sua inosservanza si traduca in una manifesta illogicità del tessuto motivazionale (Sez. 2, n. 18313 del 09/01/2020). Anche a prescindere da tali assorbenti considerazioni, deve in ogni caso rilevarsi che la sentenza impugnata reca una motivazione sufficientemente logica e coerente sulla responsabilità penale, laddove evidenzia: a) che la ricostruzione dei fatti di reato è avvenuta principalmente sulla base delle dichiarazioni rese dalla testimone T., funzionario dell’Agenzia delle Entrate; b) che l’inesistenza del credito IRES trova conferma nel fatto che esso non risulta neanche dalle precedenti dichiarazioni o dalle denunce periodiche di cui all’art. 17 d.lgs. 9 luglio 1997; c) che, dalla verifica comparata tra dichiarazioni dei redditi e bilanci depositati in camera di commercio, non sono emersi ricavi che potessero giustificare in credito in contestazione; d) che C., a seguito della ricezione della comunicazione di irregolarità da parte dell’Agenzia delle Entrate, non ha svolto alcun rilievo né ha dato spiegazioni circa la deduzione in compensazione del credito presuntivamente maturato, né ha prodotto documenti o fornito una diversa ricostruzione della vicenda che potesse dimostrare l’insussistenza dei fatti di reato.
1.3. Il terzo motivo di ricorso, relativo alla configurabilità, nel caso di specie, di un concorso apparente di norme tra il reato in questione e il reato di bancarotta impropria di cui all’art. 223, secondo comma, l. fall., è parimenti inammissibile. A prescindere dalla totale genericità della prospettazione difensiva, che non identifica in concreto i pretesi elementi di coincidenza tra i due fatti, deve comunque rilevarsi che il suddetto reato fallimentare ben può concorrere con quello tributario in ragione della diversità, sia dei beni tutelati che della struttura dei reati. Questa Corte ha, in particolare, evidenziato che è configurabile il concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000) e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, giacché le relative norme incriminatrici non regolano la “stessa materia” ex art. 15 cod. pen., data la diversità del bene giuridico tutelato (interesse fiscale al buon esito della riscossione coattiva, da un lato, ed interesse della massa dei creditori al soddisfacimento dei propri diritti, dall’altro), della natura delle fattispecie astratte (di pericolo quella fiscale, di danno quella fallimentare) e dell’elemento soggettivo: dolo specifico quanto alla prima, generico quanto alla seconda (Sez. 3, n. 3539 del 20/11/2015, dep. 27/01/2016, Rv. 266133). Né è configurabile un rapporto di specialità tra il delitto di occultamento e distruzione di documenti contabili, previsto dall’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, e quello di bancarotta fraudolenta documentale, previsto dall’art. 216, primo comma, n. 2), l. fall., richiedendo la disposizione penal-tributaria l’impossibilità di accertare il risultato economico delle sole operazioni connesse alla documentazione occultata o distrutta, ed invece quella fallimentare – oltretutto caratterizzata dalla specifica volontà dell’agente di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recar pregiudizio ai creditori – la determinazione di un evento da cui discende la lesione degli interessi di questi ultimi, da valutarsi in rapporto all’intero corredo documentale, indipendentemente dall’obbligo normativo della relativa tenuta; così che può acquisire rilievo anche la sottrazione di scritture meramente facoltative (Sez. 3, n. 18927 del 24/02/2017, Rv. 269910). E più volte si è affermato che è configurabile il concorso tra il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000) e quello di bancarotta impropria mediante operazioni dolose previsto dall’art. 223, secondo comma, n. 2), l. fall., quando l’evasione dell’imposta abbia determinato l’insorgenza di consistenti debiti a carico della società, dovuti a sanzioni, interessi ed oneri accessori, oltre all’IVA, con conseguente incapacità della stessa società di fare fronte alle proprie obbligazioni e conseguente fallimento (ex multis, Sez. 5, n. 43976 del 14/07/2017, Rv. 271612).
Tali considerazioni possono essere richiamate anche in relazione ai reati di cui all’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, perché diretti all’acquisizione di un indebito risparmio di imposta attraverso la compensazione, o con crediti non spettanti (comma 1), o addirittura con crediti non esistenti (comma 2), che ben può collegarsi all’insorgenza di una situazione di insolvenza, con conseguente fallimento.
1.4. Anche il quarto motivo ricorso è inammissibile per genericità. L’esclusione delle circostanze attenuanti generiche, infatti, risulta adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, con la precisazione che potrà legittimamente motivarne il diniego con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo (ex Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Rv. 270986; Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Rv. 260610). Alla luce di tali principi, non è ravvisabile la lacuna motivazionale lamentata dal ricorrente, avendo la Corte d’appello congruamente valorizzato in senso negativo i plurimi precedenti penali (per i reati di detenzione illegale di armi, minaccia, lesioni, falsità ideologica in atto pubblico, falsità materiale in atto pubblico, appropriazione indebita), nonché alla luce del considerevole ammontare del credito dedotto in compensazione e, quindi, del significativo importo dell’imposta evasa. Peraltro, sarebbe stato onere del ricorrente indicare gli specifici elementi di segno positivo atti a consentire al giudice di giungere a conclusioni diverse da quelle adottate.
2. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.
P.Q.M
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Si dà atto che, ai sensi dell’art. 546, comma 2, cod. proc. pen., conformemente alle indicazioni contenute nel decreto del Primo Presidente, n. 163/2020 del 23 novembre 2020 – recante “Integrazione linee guida sulla organizzazione della Corte di cassazione nella emergenza COVID-19 a seguito del d.l. n. 137 del 2020” – la presente sentenza viene sottoscritta dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore.