CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 30179 depositata il 7 luglio 2018
INPS – Omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti – Reato – Sanzione penale – Superamento della soglia di punibilità ammonta a soli 2.500,00 euro – D.Lgs. 8/2016
Ritenuto in fatto
1. La Corte di appello di Milano, con sentenza dell’11/7/2017 ha parzialmente riformato, riducendo la pena originariamente inflitta, la decisione con la quale, in data 22/3/2016, il Tribunale di Monza aveva riconosciuto M.A. responsabile del reato di cui agli artt. 81 cod. pen., 2, comma 1, legge n. 638/1983 perché, quale legale rappresentante della società “N.G.S. s.r.l.”, aveva omesso di versare all’INPS le ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, nel periodo compreso tra il marzo ed il dicembre 2010, per un importo complessivo di euro 12.563,00.
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc.
2. Con un unico motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla mancata applicazione, da parte del giudice del merito, della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.
Precisa di aver sollecitato l’applicazione di tale disposizione facendo presente che la condotta contestata sarebbe stata posta in essere per cause del tutto estranee alla sua volontà (motivi di salute e disdetta di ordini che avevano poi portato al fallimento della società) e che il superamento della soglia di punibilità ammonta a soli 2.500,00 euro.
A fronte di ciò, osserva, la Corte territoriale, pur riducendo la pena in considerazione della struttura unitaria del reato contestato, conseguente alle modifiche normative introdotte con il d.lgs. 8/2016, ha negato l’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. ritenendo la condotta abituale, perché gli omessi versamenti riguardano plurime mensilità, considerando anche non esiguo l’importo, ma quantificando la pena in misura prossima al minimo edittale e pervenendo, così, a conclusioni palesemente contraddittorie.
Insiste, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Come ricordato recentemente dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 10424 del 18/1/2018, Del Fabro, Rv. 272163), l’art. 2, comma 1 – bis del decreto legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito con modificazioni dalla L. 11 novembre 1983, n. 638, nella sua attuale formulazione, conseguente alle modifiche apportate dall’art. 3, comma 6 del d.lgs. 5 gennaio 2016, n. 8, stabilisce che l’omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032,00, mentre, se l’importo è inferiore, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. Il datore di lavoro non è tuttavia punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione.
L’art. 8 del d.lgs. 8/2016 stabilisce l’applicazione delle disposizioni che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto (6 febbraio 2016), sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili, nel qual caso il giudice dell’esecuzione provvede alla revoca della sentenza o del decreto penale.
Il successivo articolo 9 disciplina le modalità di trasmissione all’autorità amministrativa competente degli atti dei procedimenti penali relativi ai reati trasformati in illeciti amministrativi, salvo che il reato risulti prescritto o estinto per altra causa alla medesima data.
Prima dell’intervento modificativo, l’omesso versamento era penalmente sanzionato senza alcuna considerazione degli importi.
La giurisprudenza, ricordano sempre le Sezioni Unite, ha preso atto delle richiamate modifiche normative, osservando che, nello stabilire la soglia di punibilità, il legislatore ne ha configurato il superamento, collegato al periodo temporale dell’anno, quale specifico elemento caratterizzante il disvalore di offensività, che consente anche di individuare il momento consumativo del reato, da ritenersi perfezionato nel momento e nel mese in cui l’importo non versato, calcolato a decorrere dalla mensilità di gennaio dell’anno considerato, abbia superato i 10.000 euro, escludendo peraltro, proprio in ragione della connessione con il dato temporale dell’anno, che eventuali successive omissioni nell’arco del medesimo anno e fino al mese finale di dicembre possano dare luogo ad ulteriori reati.
Richiamando, dunque, analoghe situazioni configuragli in relazione ad altre ipotesi delittuose, segnatamente, la corruzione e l’usura, la sentenza individua una fattispecie caratterizzata dalla progressione criminosa nel cui ambito, una volta superato il limite di legge, le ulteriori omissioni nel corso del medesimo anno rappresentano momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata, la cui definitiva cessazione viene a coincidere con la scadenza prevista dalla legge per il versamento dell’ultima mensilità, individuata con il termine del 16 del mese di gennaio dell’anno successivo (Sez. 3, n. 37232 del 11/5/2016, Lanzoni, Rv. 268308).
Negli stessi termini, altra pronuncia qualifica il reato come avente struttura unitaria, rispetto alla quale la condotta omissiva può configurarsi anche attraverso una pluralità (eventuale) di omissioni, che possono di per sé anche non costituire reato, con la conseguenza che la consumazione può essere, secondo i casi, tanto istantanea quanto di durata e, in quest’ultimo caso, ad effetto prolungato, sebbene nel solco del periodo annuale di riferimento, sino al termine del quale può realizzarsi o protrarsi il momento consumativo del reato (Sez. 3, n. 35589 del 11/5/2016, Di Cataldo, Rv. 268115).
3. Chiarito dunque l’ambito di operatività della disciplina in esame nell’attuale configurazione, pare opportuno ricordare anche che, riguardo alla causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., si è affermato che per la sua applicazione è richiesto al giudice di rilevare se, sulla base dei due «indici-requisiti» della modalità della condotta e dell’esiguità del danno e del pericolo, valutati secondo i criteri direttivi di cui al primo comma dell’articolo 133 cod. pen., sussista l’«indice-criterio» della particolare tenuità dell’offesa e, con questo, coesista quello della non abitualità del comportamento. Solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità.
Con specifico riferimento all’indice-criterio della non abitualità della condotta, inoltre, questa Corte (Sez. 3, n. 29897 del 28/5/2015, Gau, Rv. 264034) ha già avuto modo di formulare alcune precisazioni che pare opportuno richiamare testualmente anche nella presente occasione.
Si è osservato, in particolare, che secondo la relazione illustrativa del d.lgs. 28/2015, il ricorso all’espressione «non abitualità del comportamento» per definire tale indice-criterio è il risultato della scrupolosa osservanza della legge delega da parte del legislatore delegato e si pone su un piano diverso rispetto alla «occasionalità» utilizzata dal d.P.R. 448/1988 e dal d.lgs. 274/2000, cosicché, pur lasciando all’interprete il compito di meglio delinearne i contenuti, si è ipotizzato che esso faccia sì «che la presenza di un precedente giudiziario non sia di per sé sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in presenza ovviamente degli altri presupposti».
Il riferimento al «comportamento», che deve risultare «non abituale», va poi posto o in relazione con quanto indicato nel terzo comma dell’art.. 131 – bis cod. pen., il quale prende in considerazione alcune situazioni, che indica, premettendo l’espressione «il comportamento è abituale nel caso in cui…»
Sempre secondo la relazione, tale comma, aggiunto su sollecitazione espressa nel parere della Commissione giustizia della Camera dei deputati, descriverebbe soltanto alcune ipotesi in cui il comportamento non può essere considerato non abituale, ampliando quindi il concetto di «abitualità», entro il quale potranno collocarsi altre condotte ostative alla declaratoria di non punibilità.
In effetti, nel parere della Commissione giustizia risulta chiaro l’intento di prevedere una sorta di «presunzione di non abitualità» laddove, escludendo un contrasto con la legge delega, si auspica l’inserimento di una disposizione la quale specifichi «che il comportamento è considerato non abituale nel caso in cui…» e, successivamente, nell’esprimere parere favorevole, si indica nelle condizioni il testo del comma da inserire, il quale inizia con la frase «il comportamento risulta abituale nel caso in cui…»
Sempre con riferimento al terzo comma dell’art. 131 -bis, va posto in evidenza che esso, per come è strutturato, sembra fare riferimento a tre distinte situazioni («il comportamento è abituale nel caso in cui […] ovvero […] nonché […]»).
Inoltre, il riferimento all’ipotesi del soggetto che sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza, come chiaramente emerge dal tenore letterale della disposizione, si riferisce a condizioni specifiche di pericolosità criminale che presuppongono un accertamento da parte del giudice (come, del resto, in caso di recidiva – reiterata o specifica – anch’essa ostativa, diversamente da quella semplice, presupponendo la commissione di più reati o di altro reato della stessa indole), mentre altrettanto non può dirsi per ciò che concerne le ulteriori ipotesi, riferite al soggetto che abbia «commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate».
In tali ipotesi, infatti, non vi è, nel testo, alcun indizio che consenta di ritenere, considerati i termini utilizzati, che l’indicazione di abitualità presupponga un pregresso accertamento in sede giudiziaria ed, anzi, sembra proprio che possa pervenirsi alla soluzione diametralmente opposta, con la conseguenza che possono essere oggetto di valutazione anche condotte prese in considerazione nell’ambito del medesimo procedimento, il che amplia ulteriormente il numero di casi in cui il comportamento può ritenersi abituale, considerata anche la ridondanza dell’ulteriore richiamo alle «condotte plurime, abituali e reiterate».
4. Sulla base di tali argomentazioni si è, conseguentemente, considerato operante lo sbarramento del terzo comma dell’art. 131 -bis cod. pen. anche nel caso di reati avvinti dal vincolo della continuazione (Sez. 3, n. 43816 del 1/7/2015, Amodeo, Rv. 265084; Sez. 5, n. 4852 del 14/11/2016 – dep. 2017, De Marco, Rv. 269092; Sez. 2, n. 1 del 15/11/2016 – dep. 2017, Cattaneo, Rv. 268970; Sez. 2, n. 28341 del 5/4/2017, Modou, Rv. 271001; Sez. 5, n. 48352 del 15/5/2017, P.G. in proc. Mogoreanu, Rv. 271271; Sez. 1, n. 55450 del 24/10/2017, Greco, Rv. 271904. In senso difforme dal prevalente orientamento, v. Sez. 2, n. 19932 del 29/3/2017, Di Bello, Rv. 270320, che esclude ogni automatismo rispetto alla non applicabilità dell’istituto in presenza di un reato continuato, nonché Sez. 5, n. 35590 del 31/5/2017, P.G. in proc. Battizocco, Rv. 270998, riferita a fattispecie relativa ad azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo e di luogo); in tema di reati permanenti, finché la permanenza non sia cessata (Sez. 3, n. 30383 del 30/3/2016, Mazzoccoli e altro, Rv. 267589; Sez. 3, n. 50215 del 8/10/2015, Sarli, Rv. 265435); di reati abituali (Sez. 2, n. 23020 del 10/5/2016, P, Rv. 267040; Sez. 3, n. 48318 del 11/10/2016, P.M. in proc. Halilovic, Rv. 268566, cit.; Sez. 3, n. 48315 del 11/10/2016, Quaranta, Rv. 268498; Sez. 7, n. 13379 del 12/1/2017, Boetti, Rv. 269406; Sez. 6, n. 6664 del 25/1/2017, Ferretti, Rv. 269543; Sez. 3, n. 30134 del 5/4/2017, Dentice, Rv. 270255; Sez. 3, n. 38849 del 5/4/2017, Alonzo, Rv. 271397).
5. Ciò posto, è di tutta evidenza che, avuto riguardo ai condivisibili principi appena richiamati, ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., l’attuale struttura del reato di omesso versamento dei contributi previdenziali non impedisce al giudice del merito di prendere in considerazione, in relazione alla sussistenza o meno del necessario requisito della non abitualità del comportamento, il numero delle mensilità nelle quali la condotta omissiva si è verificata, assumendo in tal caso rilievo la eventuale reiterazione della condotta tipica.
Nel caso di specie, dunque, la Corte di appello ha, del tutto correttamente, valorizzato a tal fine il fatto che le omissioni contributive riguardavano sei mensilità.
6. La decisione impugnata risulta inoltre immune da censure anche nella parte in cui valuta negativamente, ai medesimi fini, il superamento della soglia di punibilità in misura a circa il 25% dell’importo di 10.000,00 euro annui fissato dal legislatore.
La questione è stata già presa in considerazione dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento ai reati tributari, pervenendo a conclusioni che il Collegio condivide e che intende far proprie anche per quanto attiene il reato oggetto di contestazione nel presente procedimento.
Si è in particolare osservato, riguardo al reato di omesso versamento dell’lVA, che l’eventuale particolare tenuità dell’offesa deve esser valutata in rapporto alla condotta nella sua interezza e non anche con riferimento alla sola eccedenza rispetto alla soglia di punibilità prevista dal legislatore (Sez. 3, n. 51020 del 11/11/2015, Crisci, Rv. 265982) e che la causa di non punibilità potrebbe applicarsi soltanto alla omissione per un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità (fissata a 250.000 euro dall’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000), in considerazione del fatto che il grado di offensività che dà luogo a reato è già stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale (Sez. 3, n. 13218 del 20/11/2015 (dep. 2016), Reggiani Viani, Rv. 266570; Sez. 3, n. 40774 del 5/5/2015, Falconieri, Rv. 265079).
Va altresì considerato quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 13681 del 25/2/2016, Tushaj, Rv. 266589), secondo le quali non è, in astratto, incompatibile, con il giudizio di particolare tenuità, la presenza di soglie di punibilità all’interno della fattispecie tipica (nella fattispecie esaminata, relativa al reato di guida in stato di ebbrezza, rapportate ai valori di tassi alcolemici accertati), anche nel caso in cui, al di sotto della soglia di rilevanza penale, vi è una fattispecie che integra un illecito amministrativo, specificando, in motivazione, che quanto più ci si allontana dal valore-soglia tanto più è verosimile che ci si trovi in presenza di un fatto non specialmente esiguo, sebbene nessuna conclusione possa trarsi in astratto, senza considerare cioè le peculiarità del caso concreto, poiché nessuna presunzione può ritenersi consentita.
7. Alla luce di tali principi può pertanto affermarsi che riguardo al reato di omesso versamento dei contributi previdenziali la sussistenza della particolare tenuità dell’offesa deve essere verificata attraverso una valutazione globale che tenga conto dell’importo complessivo dei contributi non versati e della consistenza del superamento della soglia di punibilità.
Anche sul punto, dunque, la sentenza impugnata risulta del tutto immune da censure.
8. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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