CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 30626 depositata il 3 novembre 2020
Reati tributari – Omesso versamento IVA – Soglia di rilevanza penale – Punibilità – Legale rappresentante della società
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 27 novembre 2018 la Corte d’appello di Perugia, provvedendo sulla impugnazione proposta da G.M. nei confronti della sentenza del 16 ottobre 2017 del Tribunale di Perugia, con la quale la stessa era stata condannata alla pena di nove mesi di reclusione, in relazione a due contestazioni del reato di cui all’art. 10 ter d.lgs. 74/2000 (per avere, quale legale rappresentante della B. Costruzioni di M.G. & C. S.a.s., omesso di versare l’imposta sul valore aggiunto dovuta da tale società per gli anni 2009 e 2010, pari, rispettivamente, a euro 506.862,00 e a euro 1.853.674,00), e con cui era anche stata disposta la confisca dei beni sottoposti a sequestro preventivo (somme di denaro e beni immobili del valore complessivo di euro 1.194.709,0, oltre alla somma ulteriore di euro 587,98, ove effettivamente appresa), ha dichiarato non doversi procedere in relazione all’omesso versamento relativo all’imposta dovuta per l’anno 2009 (capo 1 della rubrica), per essere estinto per prescrizione il relativo reato, riducendo la pena per il residuo reato concernente l’omissione relativa all’imposta dovuta per l’anno 2010, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, a quattro mesi di reclusione, e confermando nel resto la sentenza impugnata, compresa la statuizione di confisca, confermata integralmente.
2. Avverso tale sentenza G.M. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, ha lamentato, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) et e), cod. proc. pen., la violazione dell’art. 649 cod. proc. pen., la mancanza di motivazione e il travisamento di una prova, con riferimento al procedimento tributario relativo alle medesime omissioni, non essendo stato considerato che un ramo dell’azienda appartenente alla società amministrata dalla ricorrente era stato ceduto alla S.r.l. V., che si era anche accollata i relativi debiti tributari, il cui accertamento era divenuto definitivo, con la conseguente infondatezza del primo argomento mediante il quale la Corte d’appello aveva disatteso il motivo di impugnazione relativo alla violazione del divieto di un secondo giudizio per i medesimi fatti.
Ha censurato anche l’affermazione della Corte territoriale, fondata sul richiamo alla sentenza n. 23839 del 2017, della inapplicabilità del divieto del ne bis in idem quando diversi siano i destinatari della sanzione tributaria e di quella penale, sottolineando l’identità del fatto naturalistico che era stato oggetto dell’accertamento tributario e del giudizio penale, e anche dello scopo perseguito mediante l’applicazione della sanzione tributaria e di quella penale, oltre che la natura sanzionatola, sulla base dei criteri Engel elaborati dalla giurisprudenza della Corte EDU, delle sovrattasse imposte con l’accertamento tributario.
Ha ribadito l’insussistenza di una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta tra i due procedimenti idonea a escludere la violazione del divieto, secondo quanto affermato dalla Corte EDU nella sentenza del 15 novembre 2016 A e B c Norvegia, sottolineando come il procedimento tributario di evasione dell’iva fosse stato definito già negli anni 2011 – 2012, con la evidente non coesistenza cronologica dei due procedimenti, in quanto nel procedimento penale il decreto di citazione a giudizio era stato emesso nel 2015 e il giudizio non si era ancora concluso, accertamenti privi anche di connessione in termini di circolazione della prova, evidenziando anche la mancanza di prevedibilità delle conseguenze della violazione tributaria.
2.2. Con il secondo motivo ha denunciato, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) et e), cod. proc. pen., l’errata applicazione degli artt. 43 e 45 cod. pen. e la manifesta illogicità della motivazione, per l’insufficiente considerazione dello stato di difficoltà finanziaria in cui si trovava la società amministrata dalla ricorrente, che aveva determinato l’impossibilità di soddisfare tutte le pretese creditorie e la necessità di provvedere prioritariamente al pagamento di maestranze e fornitori, aventi natura privilegiata, ex art. 2777 cod. civ., giacché il loro mancato soddisfacimento avrebbe determinato una possibile contestazione di bancarotta preferenziale, essendo poi la società stata dichiarata fallita, cosicché il mancato versamento dell’iva non poteva essere ritenuto sorretto da dolo o, in alternativa, doveva considerarsi dovuto a una situazione di forza maggiore.
2.3. Infine, con il terzo motivo, ha lamentato, nuovamente ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) et e), cod. proc. pen., l’errata applicazione dell’art. 12 bis d.lgs. 74/2000 e la mancanza di motivazione, con riferimento alla conferma della confisca disposta con la sentenza di primo grado, nonostante la dichiarazione di prescrizione del reato di cui al capo 1).
Ha evidenziato che con la sentenza impugnata era stata confermata la confisca delle somme in sequestro (pari a euro 252.962,76), degli immobili sequestrati (del valore di euro 941.746,61) e della somma di euro 587,98, nonché delle somme di denaro depositate su conti correnti riferibili alla M. e alla B. Costruzioni (dell’ammontare complessivo di euro 1.165,826,63) e, per equivalente, in caso di mancata liquidità, sui beni della ricorrente fino alla concorrenza della somma di euro 1.165.826,63, omettendo di considerare l’avvenuta estinzione per prescrizione di uno dei reati contestati e in relazione al quale era anche stata disposta la confisca, che avrebbe dovuto determinarne quantomeno una revoca parziale, essendo la stessa stata disposta in relazione a entrambi i reati contestati alla ricorrente e dei quali uno (quello di cui al capo 1) era stato dichiarato estinto per prescrizione.
1. Il ricorso, peraltro riproduttivo dell’atto d’appello, adeguatamente considerato e motivatamente disatteso dalla Corte territoriale, è manifestamente infondato.
2. Il primo motivo, mediante il quale è stata lamentata, peraltro genericamente, senza approfondita illustrazione dello stato del procedimento tributario nei confronti dell’ente amministrato dalla ricorrente, che sarebbe relativo alle medesime violazioni, e in assenza di confronto con quanto esposto sul punto nella motivazione della sentenza impugnata, la violazione del divieto di bis in idem convenzionale, è manifestamente infondato, sussistendo la diversità di soggetti e la connessione tra i due procedimenti richiesta dalla giurisprudenza convenzionale e comunitaria per escludere la violazione del divieto di bis in idem convenzionale lamentata dalla ricorrente.
2.1. Questa stessa Sezione ha già affermato (v. Sez. 3, n. 5934 del 12/09/2018, dep. 07/02/2019, Giannino, Rv. 275833 – 04), e si tratta di principio che il Collegio condivide pienamente e ribadisce, che non sussiste la violazione del ne bis in idem convenzionale nel caso della irrogazione, per il medesimo fatto per il quale vi sia stata condanna a sanzione penale, di una sanzione formalmente amministrativa, della quale venga riconosciuta la natura sostanzialmente penale, ai sensi dell’art. 4, Protocollo n. 7, CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle cause “Grande Stevens e altri contro Italia” del 4 marzo 2014, e “Nykanen contro Finlandia” del 20 maggio 2014, quando le sanzioni siano state inflitte a soggetti diversi e tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, tale che le due sanzioni siano parte di un unico sistema sanzionatorio, secondo il criterio dettato dalla suddetta Corte nella decisione “A. e B. contro Norvegia” del 15 novembre 2016 (la violazione di tale divieto è stata così esclusa nel caso di una sanzione amministrativa non ancora irrevocabile al momento della decisione di secondo grado del procedimento penale per reati tributari relativi ai medesimi fatti; nel medesimo senso v. Sez. 3, n. 24309 del 19/01/2017, Bernardoni, Rv. 270515; Sez. 3, n. 35156 del 01/03/2017, Palumbo, Rv. 270913; Sez. 3, n. 23839 del 07/11/2017, dep. 28/05/2018, Passaro, Rv. 273107; Sez. F, n. 42897 del 09/08/2018, C., Rv. 273939).
2.2. Ora, nel caso in esame la Corte d’appello, oltre a rimarcare il dato, decisivo, della diversità soggettiva tra la imputata, alla quale è stata contestata la violazione del precetto penale (come tale possibile destinataria della sanzione per il caso di accertamento della sua responsabilità), e la società dalla stessa amministrata (la B. Costruzioni di M.G. & C. S.a.s.), nei cui confronti è stato iniziato l’accertamento tributario, ha evidenziato che nei confronti di detta società era solamente stato avviato l’accertamento tributario, mediante quella che da un dipendente della società (B.) è stata definita comunicazione di irregolarità relative all’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto dichiarata, alla quale avrebbe potuto fare seguito l’adempimento volontario da parte della contribuente o, in difetto, l’iscrizione a ruolo del tributo non corrisposto, con il conseguente avvio del procedimento di riscossione coattive di imposte, accessori e sanzioni; la società aveva poi provveduto a corrispondere le prime cinque rate del proposto pagamento rateale di detto tributo, con la conseguente mancanza di elementi certi sia in ordine alla definitività dell’accertamento tributario, sia, soprattutto, riguardo alla irrogazione alla società di una sanzione dovuta al mancato pagamento di detto tributo.
Correttamente, dunque, la Corte territoriale ha escluso la configurabilità della preclusione derivante dalla irrogazione di una sanzione allo stesso soggetto per il medesimo fatto in mancanza della necessaria connessione, in considerazione della diversità soggettiva dei soggetti e della mancanza di definitività dell’accertamento tributario, alla luce, dunque, della sussistenza della necessaria stretta connessione tra il procedimento penale e quello di accertamento tributario, sia sul piano cronologico, sia su quello della circolazione della prova (non risultando che i due accertamenti siano fondati su elementi diversi), sia su quello della prevedibilità delle sanzioni (certamente ben presenti nella rappresentazione dell’amministratore di una società commerciale).
La deduzione, da parte della ricorrente, della definitività dell’accertamento tributario nei confronti S.r.l. V., alla quale la società amministrata dalla ricorrente medesima avrebbe ceduto un ramo d’azienda e, con esso, anche tutti i debiti tributari della cedente, attiene a un aspetto di fatto (la conclusione e la validità di tale cessione e la definitività dell’accertamento tributario nei confronti della cessionaria), di cui non vi è menzione nella motivazione della sentenza impugnata e che risulta, comunque, genericamente dedotto, attraverso la mera asserzione della conclusione di tale cessione, di cui non sono stati precisati oggetto e contenuto, senza alcun riferimento ai debiti tributari né alle sanzioni che sarebbero state inflitte alla cessionaria (soggetto, peraltro, estraneo alle condotte contestate alla ricorrente), con la conseguente inammissibilità di tale deduzione, sia a causa della sua genericità, sia perché attiene ad aspetti di fatto non esaminabili nel giudizio di legittimità.
2.3. Ne consegue, in definitiva, la manifesta infondatezza dei, peraltro generici e in parte di contenuto non consentito, rilievi formulati dalla ricorrente con il primo motivo di ricorso.
3. Il secondo motivo, mediante il quale è stata prospettata l’inesigibilità della condotta, peraltro genericamente, attraverso la sola deduzione del pagamento delle retribuzioni ai dipendenti e della successiva dichiarazione di fallimento della società, disgiunta dalla necessaria analisi della sua situazione patrimoniale e finanziaria e delle cause del dissesto, è manifestamente infondato.
3.1. Va, in premessa, rammentato che l’art. 10 ter d.lgs. 74/2000 (omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto) prevede come reato il fatto di chi non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo.
Tale reato si consuma nel momento in cui scade il termine previsto dalla legge per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo (Sez. U., n. 37424 del 28/03/2003, Romano, Rv. 25575); ciò che rileva è, quindi, l’indicazione nella dichiarazione di un debito d’imposta e l’inadempimento alla conseguente e corrispondente obbligazione di pagamento, rimanendo prive di rilievo, ai fini della configurabilità del reato e del superamento della soglia di punibilità, sia l’effettiva riscossione delle somme-corrispettivo relative alle prestazioni effettuate (tranne che nei casi di applicabilità del regime di “Iva per cassa”, cfr. Sez. 3, n. 6220 del 23/01/2018, Ventura, Rv. 272069; Sez. 3, n. 19099 del 06/03/2013, Di Vora, Rv. 255327), sia la condotta successiva dell’obbligato, stante la natura del reato, che è omissivo proprio a consumazione istantanea (v. Sez. 3, n. 8521 del 21/09/2018, dep. 27/02/2019, Pistilli, Rv. 275010; Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263126).
Quanto all’elemento soggettivo e alla punibilità va ricordato il consolidato orientamento interpretativo di questa Corte in proposito, secondo cui, al fine della dimostrazione della assoluta impossibilità di provvedere ai pagamenti omessi, occorre l’allegazione e la prova della non addebitabilità all’imputato della crisi economica che ha investito l’impresa e della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità che ne sia conseguita tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (cfr. Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi, Rv. 259190; Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128; Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015, Mondini, Rv. 265262).
Per escludere la volontarietà della condotta è, dunque, necessaria la dimostrazione della riconducibilità dell’inadempimento alla obbligazione verso l’Erario a fatti non imputabili all’imprenditore, che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128; conf. Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055; Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014).
3.2. Nel caso in esame, come accennato, non sono stati allegati elementi specifici idonei a dimostrare né la verificazione di eventi che abbiano determinato la assoluta impossibilità di provvedere ai pagamenti omessi, né la non addebitabilità alla ricorrente della crisi economica che aveva investito l’impresa dalla stessa amministrata, né le misure adottate per farvi fronte, con la conseguente inammissibilità della doglianza a causa della sua genericità intrinseca.
3.3. Quanto al rilievo della inesigibilità della condotta doverosa omessa, a causa dell’obbligo di pagare prioritariamente le retribuzioni dei dipendenti, pur prescindendo dal rilievo che, anche a questo proposito, nulla è stato dedotto circa il numero dei dipendenti della società amministrata dalla M., le loro retribuzioni, le condizioni finanziarie e patrimoniali della società, va osservato che il debito nei confronti dell’Erario per le imposte è il solo a ricevere, secondo una scelta del legislatore non irragionevole, tutela penalistica per mezzo della previsione di una fattispecie incriminatrice (cfr., in tal senso, Sez. 3, n. 36421 del 16/05/2019, Tanghetti, Rv. 276683, in materia di omesso versamento di ritenute previdenziali, trattandosi di fattispecie avente struttura analoga e volta anch’essa a salvaguardare interessi erariali). Per effetto della previsione di una sanzione penale, l’imprenditore, che in conseguenza della previsione di tale sanzione ha anche un interesse personale al pagamento delle imposte, non può limitarsi a prendere atto della esistenza di crediti aventi privilegio anteriore e della insufficienza delle risorse finanziarie a disposizione, ma deve, ove non dichiarato fallito personalmente, provvedere al pagamento delle imposte con le proprie personali risorse finanziarie (Sez. 3, n. 29616 del 14/06/2011, Vescovi, Rv. 250529; Sez. 3, n. 26712 del 14/04/2015, Vismara, Rv. 264306), e, comunque, è tenuto a ripartire le risorse esistenti all’atto dell’erogazione degli emolumenti in modo da poter assolvere al debito fiscale, anche se ciò comporti l’impossibilità di pagare le retribuzioni nel loro intero ammontare (Sez. 3, n. 19574 del 21/11/2013, dep. 13/05/2014, Assirelli, Rv. 259741; Sez. 3, n. 43811 del 10/04/2017, Agozzino, Rv. 271189).
Ne consegue l’infondatezza della tesi difensiva della ricorrente, in quanto l’eventuale esistenza di crediti aventi privilegio di grado anteriore rispetto a quello tributario non determina, neppure in presenza di uno stato di insolvenza, l’inesigibiiità della condotta di versamento dell’imposta sul valore aggiunto, al cui obbligo l’imprenditore è egualmente tenuto a fare fronte, senza che ciò determini la realizzazione di una condotta di bancarotta preferenziale, stante il carattere anche personale di tale obbligo e la preferenza a esso accordata dal legislatore attraverso la previsione di una sanzione penale.
3.4. Ne consegue, in definitiva, la manifesta infondatezza della censura formulata con il secondo motivo di ricorso.
4. Il terzo motivo, relativo alla conferma della disposta confisca nonostante la dichiarazione di estinzione per prescrizione del reato di cui al capo 1) è, anch’esso, manifestamente infondato, avendo la Corte territoriale chiaramente e correttamente escluso la necessità di ridurne l’ammontare per effetto della dichiarazione di improcedibilità del reato di cui al capo 1), a causa della sua estinzione per prescrizione, alla luce del fatto che l’ammontare dell’imposta sul valore aggiunto per la residua annualità 2010, pari a euro 1.853.674,00, è ampiamente superiore al valore dei beni confiscati, pari a complessivi euro 1.194.709,0, oltre alla somma ulteriore di euro 587,98, ove effettivamente appresa, con la conseguente sussistenza dei presupposti per il mantenimento della confisca su tutti i beni sequestrati.
5. Il ricorso in esame deve, dunque, essere dichiarato inammissibile, a causa della manifesta infondatezza di tutte le censure cui è stato affidato.
L’inammissibilità originaria del ricorso esclude il rilievo della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità, e preclude l’apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266; conformi, Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n. 19601, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Rasizzi Scalora, Rv. 261616; nonché Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 14/02/2017, Aiello, Rv. 268966).
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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