Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 31002 depositata il 16 luglio 2019
Evasione fiscale – Confisca – Ridotta in presenza di accordo conciliativo con il fisco – Non sussiste
Massima
Durante un’inchiesta per reati fiscali l’entità della confisca dei beni dell’imprenditore non è ridotta in presenza di un accertamento con adesione. Infatti l’Agenzia tende a ridurre gli importi per abbreviare la procedura di riscossione ma il processo penale segue una strada autonoma
RITENUTO IN FATTO
1. Con decreto del 08/10/2015, il Gip del Tribunale di Brindisi disponeva nei confronti di F.C. e da F.A., legali rappresentanti della F. Arredi Megastore s.r.l., il sequestro preventivo, anche per equivalente, sino a concorrenza dell’importo di Euro 6.090.694,24 pari alla sommatoria delle imposte evase per come contestate al capo A) dell’imputazione (di cui Euro 3.180.272,97 a titolo di IRES, Euro 2.910.421,32 a titolo di IVA), per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3, in relazione alle dichiarazioni dei redditi della su indicata società relative agli anni 2011, 2012, 2013, 2014 nonché dell’importo di Euro304.500,00 pari all’IVA contestata come evasa nei capi B) e C) (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, contestato agli odierni ricorrenti).
2. Con istanza depositata il 04/04/2018, gli indagati chiedevano la riduzione del sequestro rappresentando come gli stessi e la società fossero addivenuti a tre accordi conciliativi con l’Agenzia delle Entrate per gli anni di imposta 2010, 2011 e 2012 e ad un accertamento con adesione per il 2013. In ragione di ciò, a fronte delle somme contestate come evase ai fini IRES ed IVA nell’imputazione, veniva rideterminata una complessiva somma pari ad Euro 4.072.014, a titolo di IRES, IRAP ed IVA per gli anni 2010-2012 (oggetto di avviso di accertamento) ed Euro 994.294,00 a titolo di IRES, IRAP ed IVA per l’anno 2013.
In ragione delle anzidette procedure conciliative, gli indagati chiedevano in particolare la riduzione del sequestro pari ad Euro 2.337.462,71, corrispondente alla differenza tra la maggiore imposta determinata dall’A.d.E., pari ad Euro 7.384.570,00 e la somma di Euro 5.047.107,29 oggetto di determinazione con le suddette procedure conciliative e in sede di adesione.
Con ordinanza del 10/04/2018, il Gip rigettava l’istanza osservando come nessun rilievo potesse attribuirsi a sopravvenuti accordi conciliativi con l’A.d.E. potendosi disporre la riduzione della somma in sequestro solo a fronte dell’effettivo pagamento delle imposte evase.
Il Tribunale del riesame, adito ex art. 322-bis c.p.p., confermava l’ordinanza del Gip sul presupposto che gli accordi e il volontario accesso dei ricorrenti all’accertamento con adesione o a procedure conciliative, con la determinazione, in contraddittorio con l’Agenzia delle Entrate, del quantum da corrispondere a titolo di imposta evasa (interessi e sanzioni), non pregiudichino affatto l’accertamento della responsabilità sul piano penal-tributario, non elidendo il potere-dovere dell’Autorità giudiziaria penale di procedere ad un autonomo accertamento. Chiarito che l’accertamento con adesione e gli accordi conciliativi intervenuti non incidono sul “versante” penale, né impediscono il potere/dovere di accertamento e l’autonoma valutazione dei fatti del giudice penale, va da sé, sosteneva il provvedimento del Tribunale poi annullato, che il sequestro e la eventuale confisca ben possono essere disposti sull’intero ammontare dell’imposta evasa determinata in seno al procedimento penale quali che siano le eventuali diverse determinazioni dell’A.d.E.
L’ordinanza di cui si è testè dato conto veniva annullata dalla Terza Sezione di questa Corte di cassazione, la quale, pur confermando i principi fatti propri dal Tribunale, affermava il principio secondo cui, nel caso di accordi conciliativi con l’Erario, deve attribuirsi rilevanza alla quantificazione del profitto operata in sede amministrativa, ma il giudice penale, in forza dell’inesistenza di una pregiudiziale tributaria, ben può discostarsi dalla determinazione dell’ammontare del profitto come risultante nell’accordo, ma di ciò deve dare congrua motivazione.
3. Il Tribunale di Brindisi, in veste di giudice del rinvio, concludeva per il rigetto dell’appello, proposto ai sensi dell’art. 322-bis c.p.p. sull’assunto della piena autonomia del procedimento penale per l’accertamento del reato tributario. Osservava, in particolare, come, diversamente di quanto accade per l’attività di verifica, la ratio degli accordi conciliativi e dell’accertamento con adesione non sia quella di accertare in maniera analitica e puntuale i dati contabili e fiscali del contribuente, trattandosi di istituti attraverso i quali, in deroga al principio dell’indisponibilità della pretesa tributaria, si attribuisce all’A.d.E. il potere di “trattare” con il contribuente allo scopo di addivenire ad accordi finalizzati ad evitare possibili contenziosi o di porre fine agli stessi e comunque a ridurre i tempi e i rischi dell’azione di recupero erariale. Tale azione amministrativa, sostiene il Tribunale, opera secondo parametri, logiche e valutazioni che non possono trovare ingresso in sede penale ove l’accertamento dell’imposta evasa deve rimanere scevro da stime di convenienza, opportunità e rapidità della definizione delle procedure di recupero dell’evasione e deve seguire fisiologicamente regole diverse.
4. Avverso la prefata ordinanza F.C. e A., a mezzo del difensore, propongono ricorso con cui deducono violazione degli artt. 321 e 322-bis c.p.p., del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 48; D.Lgs. n. 218/1997, artt. 1 e ss. e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109; nonché motivazione mancante o meramente apparente.
Il Giudice muove dalla errata ricostruzione della natura giuridica degli accordi conciliativi: tanto la conciliazione giudiziale (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 48) quanto l’accertamento con adesione (D.Lgs. n. 218 del 1997) non consentono all’Agenzia di derogare all’indisponibilità dell’obbligazione tributaria. In sede di adesione o conciliazione, l’Agenzia non può mai, discrezionalmente e – per ragioni di convenienza – rinunciare, in un’ottica contrattualistica, alla pretesa impositiva che è sempre vincolata sia nell’an che nel quantum. A conferma dell’assunto, richiama la circolare ministeriale n. 65 del 28/06/2001 che, in ordine all’accertamento con adesione, impone agli Uffici una motivazione assai dettagliata la quale esclude a priori che l’Agenzia possa liberamente disporre dell’obbligazione tributaria. La conciliazione giudiziale, di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 48, ha carattere novativo delle precedenti opposte posizioni soggettive e comporta la sostituzione della pretesa fiscale originaria con una certa e concordata, tanto che il relativo processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute. Consegue, pertanto, che l’obbligazione tributaria precedente si estingue quando le parti sostituiscono l’obbligazione originaria con la nuova nella misura concordata. Va da sé, quindi, che l’obbligazione novata costituirà il nuovo thema disputandum delle parti. In particolare, il Tribunale sbaglia nel non rendersi conto che i conti non contabilizzati ontologicamente non possono trovare riscontro in alcun genere di documentazione in quanto, proprio perché “costi in nero”, per definizione non possono essere individuati con documentazione di vario genere. Si tratta, invero, di costi che vengono sempre ricostruiti a posteriori. Non ricorre, dunque, diversamente da quanto si assume nell’ordinanza impugnata, alcuna “disponibilità dell’obbligazione tributaria” dato che ai maggiori ricavi accertati corrispondono sempre dei maggiori costi. I maggiori costi riconosciuti in sede di accordi conciliativi erano necessariamente collegati ai soli ricavi accertati dai documenti extracontabili; viceversa, i costi dichiarati erano connessi logicamente ai soli ricavi dichiarati.
Ciò si dica anche con riguardo all’affermazione del Tribunale che non ha riconosciuto attendibili gli accordi conciliativi perché la percentuale di ricarico stimata in sede di accordi non era stata correttamente determinata, considerando questa il risultato del favor conciliationis. I ricorrenti si soffermano diffusamente sulle ragioni per cui l’assunto è errato, rilevando come l’Agenzia, in sede di accordi conciliativi, abbia più correttamente proceduto, sulla scorta dei documenti prodotti dalla società, a determinare una più attenta e puntuale percentuale di ricarico. Se il sequestro è a garanzia della confisca in relazione alla pretesa tributaria verso l’Erario e questo la quantifica in un determinato importo, inferiore a quello sequestrato in sede penale, non si comprende quale possa essere la giustificazione del vincolo sulla somma eccedente tale pretesa. Ciò si dica anche rispetto ai principi di proporzionalità e di adeguatezza che vigono anche in materia cautelare reale.
Quanto alla denunciata mancanza di motivazione, i ricorrenti osservano che, con riferimento alle diverse (rispetto a quelle compiute in sede transattiva) quantificazioni operate dalla p.g., la “congrua motivazione” non può ritenersi adempiuta quando, come nel caso di specie, ci si limiti ad una censura delle rideterminazioni, ma comporta il dovere di addentrarsi nelle singole poste contabili. Non può infatti consentirsi di reputare non corretta la quantificazione compiuta dall’Erario senza tuttavia specificare per quali ragioni si ritengano corrette quelle compiute dalla p.g.
Il mutato quadro normativo – a seguito della riforma del D.Lgs. n. 74 del 2000 ad opera del D.Lgs. n. 158 del 2015 – impone di rivalutare l’ambito di una ipotizzata “pregiudiziale tributaria”. Un dato è però certo: gli artt. 12-bis, 13 e 13-bis fissano conseguenze ineludibili dal pagamento di quanto accertato a seguito delle speciali procedure conciliative.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi devono essere rigettati.
2. Va premesso che il ricorso per cassazione avverso le ordinanze emesse in sede di appello contro i provvedimenti di sequestro preventivo è proponibile – ai sensi del combinato disposto degli artt. 322-bis e 325 c.p.p. – solo per violazione di legge, e che costituisce di “violazione di legge”, legittimante il ricorso per cassazione a norma dell’art. 325 c.p.p., comma 1, sia l’omissione assoluta di motivazione sia la motivazione meramente apparente (Sez. 3, n. 28241 del 18/02/2015, P.M. in proc. Baronio e altro, Rv. 264011; Sez 1, n. 6821 del 31/01/2012 Chiesi, Rv. 252430; Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710).
3. Così delineato l’ambito di valutazione, i ricorsi non sono fondati in forza delle considerazioni che si andranno esponendo.
Sotto un primo profilo, concernente il rapporto tra confisca (somma confiscabile e previamente sequestrabile) e accordo con l’erario, questa Corte di legittimità ha avuto modo di chiarire che in tema di reati tributari, la disposizione di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 12-bis, comma 2, introdotta dal D.Lgs. n. 158 del 2015, secondo cui la confisca diretta o di valore dei beni costituenti profitto o prodotto del reato “non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro”, deve essere intesa nel senso che la confisca – così come il sequestro preventivo ad essa preordinato – può essere adottata anche a fronte dell’impegno di pagamento assunto, producendo tuttavia effetti solo ove si verifichi l’evento futuro ed incerto costituito dal mancato pagamento del debito (Sez. 3, n. 42470 del 13/07/2016, Orsi, Rv. 268384; Sez. 3, n. 5728 del 14/01/2016, Orsetto, Rv. 266037). Si è specificato, in particolare, che la locuzione “non opera” non significa affatto che la confisca, a fronte dell’accordo rateale intervenuto, non possa essere adottata, ma che la stessa non divenga, più semplicemente, efficace con riguardo alla parte “coperta” da tale impegno salvo ad essere “disposta”, come recita il comma 2 dell’art. 12-bis cit., allorquando l’impegno non venga rispettato e il versamento “promesso” non si verifichi. Si è, altrettanto, specificato che solo l’integrale pagamento del debito tributario, in virtù della necessità di evitare la sostanziale duplicazione dello stesso, può condurre alla non operatività della confisca e, correlativamente, alla obliterazione del sequestro imposto a tal fine, essendo invece insufficiente la mera ammissione ad un piano rateale di pagamento o il parziale pagamento effettuato a tale ultimo titolo (Sez. 3, n. 5681 del 27/11/2013, Crocco, Rv. 258691). Ed infatti, solo col pagamento del debito viene meno qualsiasi indebito vantaggio da aggredire col provvedimento ablatorio, di talché un successivo provvedimento comporterebbe una inammissibile duplicazione della sanzione.
Sotto altro profilo, in relazione alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, suscettibile dapprima di sequestro e poi di confisca, è altrettanto pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui spetta esclusivamente al giudice penale il compito di accertare e determinare l’ammontare dell’imposta evasa, da intendersi come l’intera imposta dovuta, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria (Sez. 3, n. 28710 del 19/04/2017, P.G. in proc. Mantellini, Rv. 270476; Sez. 3, n. 15899 del 02/03/2016, Colletta, Rv. 266817; Sez. 3, n. 38684 del 04/06/2014, Agresti, Rv. 260389; Sez. 3, n. 37335 del 15/07/2014, Buonocore, Rv. 260188; Sez. 3, n. 36396 del 18/05/2011, Mariutti, Rv. 251280; Sez. 3, n. 5490 del 26/11/2008, Crupano, Rv. 243089). L’autonomia del processo penale da quello amministrativo, sancita dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 20, (secondo cui “Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”), non può non valere anche ai fini, che qui che qui rilevano, dell’individuazione dell’ammontare dell’imposta evasa per l’adozione e il mantenimento del provvedimento cautelare in funzione della confisca, nei casi di raggiunti accordi conciliativi con l’erario.
4. Ciò premesso, il Collegio osserva che l’ordinanza impugnata ottempera al principio di diritto espresso dalla sentenza di annullamento, la quale aveva affermato che il giudice penale ben possa, sulla scorta di elementi di fatto, discostarsi dalla quantificazione del profitto come risultante dalla conclusione di accordi conciliativi con l’agenzia delle entrate, poiché, diversamente ragionando si perverrebbe alla introduzione di una pregiudiziale tributaria non prevista nell’ordinamento giuridico, ma dell’esercizio di tale autonomo potere deve dare congrua argomentazione.
Il Tribunale brindisino ricorda come tutte e tre le procedure conciliative prendano le mosse dalla richiesta della società di vedersi riconosciuti costi non contabilizzati. Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate aveva considerato plausibile l’ipotesi che la società dei ricorrenti avesse rinunciato alla contabilizzazione e deduzione di un considerevole ammontare di costi in nero al mero fine di dissimulare i relativi ricavi di vendita. Il contenuto dei relativi atti, afferma il Tribunale, rende evidente come l’A.d.E., sulla scorta di proprie scelte discrezionali, anche di opportunità per avvantaggiarsi di una rapida e sicura riscossione, abbia “disposto” della obbligazione erariale, concordando con i contribuenti alcune valutazioni sulla determinazione dell’imposta evasa. Richiamato l’art. 109, comma 4, TUIR, ricorda come, nel caso di specie, i costi riconosciuti dall’Agenzia non fossero imputati nel conto economico, non si rinvenissero da esercizi precedenti, non rientrassero tra quelli imputabili al conto economico, ma fossero deducibili ex lege. Nella specie, i costi considerati dall’Agenzia non poggiano affatto su elementi caratterizzati da certezza e precisione (come prescrive l’ultima parte del citato comma 4), ma rappresentano il mero frutto dell’adesione dell’Amministrazione finanziaria alle argomentazioni della parte. Ciò a voler ulteriormente sottolineare, afferma l’ordinanza impugnata, il carattere “dispositivo” dell’azione amministrativa, nell’ottica di un favor conciliationis, che risulta palese laddove, pur in presenza di una contabilità inattendibile e di prospetti extracontabili, l’A.d.E. riconosceva al campione, unilateralmente disposto dalla società, “un buon grado di attendibilità”, estendendone la valenza anche ai due anni di imposta precedenti, rinunciando così ad utilizzare il criterio della semplice media operata dalla Guardia di Finanza. Il Tribunale evidenzia la mancanza di adeguati approfondimenti sulla rispettiva congruità delle valutazioni così operate. Al riguardo, sostiene che le argomentazioni induttive (pur in seno ad un originario accertamento analitico-induttivo) dell’ente riscossore, dettate dalle richiamate esigenze deflattive e di celere riscossione, non possano essere condivise dal Giudice ordinario. Tanto più che, nell’odierno procedimento penale rileva essenzialmente l’evasione dell’IRES e dell’IVA, mentre l’accertamento dell’A.d.E. ed i successivi accordi conciliativi e l’accertamento con adesione avevano investito anche l’IRAP.
5. L’ordinanza impugnata, pertanto, non è affetta da alcuna violazione di legge, neppure sotto il profilo della mancanza assoluta di motivazione o della mera presenza di una motivazione apparente, avendo il Giudice dato conto, con argomentazioni pienamente conformi ai richiamati principi, più volte espressi da questa Corte Suprema, degli elementi di fatto in ragione dei quali il Giudice penale ben può discostarsi dalla quantificazione del profitto come risultante dalla conclusione di accordi conciliativi con l’agenzia delle entrate.
6. In conclusione, i ricorsi devono essere rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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