CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 31195 depositata il 9 novembre 2020
Reati tributari – Dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000 – Responsabilità – Amministratore di fatto – Legale rappresentante – Misura cautelare – Sequestro preventivo a fini di confisca per equivalente
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza adottata in data 27 e 28 febbraio 2020, e depositata in data 5 marzo 2020, il Tribunale di Torino, pronunciando in sede di riesame su richiesta di O.C., E.C. e P.C., ha confermato il decreto emesso dal G.i.p. del Tribunale di Vibo Valentia che aveva disposto il sequestro preventivo a fini di confisca per equivalente dei beni mobili ed immobili e delle somme di denaro nella disponibilità dei precisati indagati sino a concorrenza di 770.128,00 euro nei confronti di O.C., sino a concorrenza di 442.667,7 euro nei confronti di E.C., e sino a concorrenza di 327.460,3 euro nei confronti di P.C..
Il sequestro è stato disposto per i reati di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000 relativi ai periodi di imposta 2015, 2016 e 2017 con riguardo ai redditi della società “E. s.a.s.”, e che sono attribuiti ad O.C. per tutti e tre gli anni in quanto ritenuto amministratore di fatto per tutto l’arco di tempo rilevante, ad E.C. per gli anni 2015 e 2016 in quanto legale rappresentante al momento di presentare le pertinenti dichiarazioni fiscali, e a P.C. per l’anno 2017 in quanto legale rappresentante al momento di presentare la pertinente dichiarazione fiscale.
2. Hanno presentato ricorso per cassazione avverso l’ordinanza indicata in epigrafe O.C., E.C. e P.C., con un unico atto sottoscritto dagli avvocati M.M. e M.F., articolando tre motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avendo riguardo al mancato rilievo della nullità dei decreti di proroga delle intercettazioni con riferimento al captatore informatico.
Si deduce che l’autorizzazione all’uso del captatore informatico è stata rilasciata per il reato di riciclaggio, e che, però, (a) questo reato, nella fase delle indagini, era ritenuto commesso fino al 4 marzo 2019, (b) il sequestro è stato disposto esclusivamente per il reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, (c) l’azione penale è stata esercitata per i reati di cui agli artt. 2 e 4 d.lgs. n. 74 del 2000 e per il reato di autoriciclaggio, ma non anche per il reato di riciclaggio. Si rileva che, in ragione di queste circostanze, e dei criteri indicati dalle Sezioni unite nella sentenza S., applicabili al momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione all’uso del captatore informatico, deve escludersi la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 266 cod. proc. pen., quanto meno per i provvedimenti emessi dopo il 4 marzo 2019.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., avendo riguardo al mancato rilievo della inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni effettuate mediante captatore informatico per i reati per cui.si procede.
Si deduce che, secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite (si cita la sentenza n. 51 del 2020), l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni disposte nell’ambito di un medesimo procedimento presuppone che i reati diversi da quelli per i quali il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato rientrino nei limiti di ammissibilità delle intercettazioni stabilite dalla legge. Si osserva che, però, nella specie non sussistono tali condizioni: da un lato, infatti, non è ammissibile alcuna attività di captazione per il reato di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000, e, dall’altro, per gli ulteriori reati di cui all’art., 2 d.lgs, n 74 del 2000 e di autoriciclaggio non ricorrono comunque i presupposti richiesti dall’art. 270, comma 1 -bis, cod. proc. pen. per l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni mediante captatore informatico in ordine a reati diversi da quelli per i quali dette operazioni investigative sono state specificamente disposte.
2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen,, avendo riguardo al difetto di motivazione sia in ordine al sequestro dei rami d’azienda della “M.G. s.r.l.”, società effettivamente operante e relativamente alla quale non è contestata alcuna ipotesi di reato, sia in ordine alla proporzione tra l’imposta evasa e quanto sottoposto a vincolo.
Si deduce, innanzitutto, che il sequestro, disposto esclusivamente per i reati di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 relativamente alla società “E. s.a.s.” per gli anni 2015, 2016 e 2017, è stato applicato senza alcuna analisi dei redditi dei singoli soci, e dei riflessi dell’evasione su questi ultimi, come invece richiede la circolare n. 1/2018 del Comando Generale della Guardia di Finanza, senza accertare chi abbia effettivamente sottoscritto le dichiarazioni fiscali ritenute infedeli, e senza ^piegare per quali ragioni O.C. deve ritenersi amministratore di fatto dell’impresa. Si deduce, poi, che i beni sequestrati (la somma di 165.330,00,euro, le quote della società “M.G. s.r.l.”, del valore nominale di 10.000,00 euro, i rami di azienda della società appena indicata, stimati dalla Guardia di Finanza di valore pari a 594.798,00 euro) sono tutti di O.C., in quanto proprietario della casa in cui è stato rinvenuto il denaro ed unico socio della “M.G. s.r.l.”, mentre i reati costituenti titolo per l’apposizione del vincolo riguardano le dichiarazioni di “E. s.a.s.”. Si deduce, ancora, che la “M.G. s.r.l.” non può essere ritenuta emanazione fittizia della “E. s.a.s.” o del suo amministratore, e che, prima di tutto, sarebbe stato necessario sottoporre a vincolo i beni della “E. s.a.s.”, in quanto è in relazione ai redditi di questa che si assume essere avvenuta l’evasione; ciò, tanto più se si considera che il patrimonio della “E. s.a.s “, secondo le stesse stime della Guardia di Finanza, era ampiamente superiore all’imposta evasa.
Si deduce, infine, che il valore dei cinque rami d’azienda della “M.G. s.r.l.” sottoposti a vincolo è anch’esso di molto superiore all’imposta evasa, come risulta dalla consulenza di parte, e come si desume anche applicando le premesse metodologiche del Nucleo operativo della Guardia di Finanza; si aggiunge, anzi, che, tenendo conto delle stime evidenziate dal G.i.p., l’importo evaso corrisponderebbe al denaro ed al valore di soli due dei cinque rami d’azienda da “M.G. s.r.l.” (precisamente il bar di via D., espressamente apprezzato pari a circa 326.547,36 euro, e la Sala Scommesse di via A., il cui valore di acquisto è indicato pari a circa 240.000,00 euro).
Considerato in diritto
1. I ricorsi sono inammissibili per le ragioni di seguito precisate.
2. Prive di specificità sono le censure esposte nei primi due motivi di ricorso, che contestano il mancato rilievo della nullità ovvero della inutilizzabilità dei decreti di proroga delle intercettazioni con riferimento al captatore informatico.
Costituisce infatti principio assolutamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello in forza del quale, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per difetto di specificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (così, per tutte, Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269218-01, nonché Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, De Matteis, Rv. 270303-01).
Nella specie, l’ordinanza impugnata premette che la misura cautelare reale è stata disposta esclusivamente per i reati di cui all’art. 4 d.lgs. n. 74 del 2000 relativamente ai redditi dichiarati per gli anni 2015, 2016 e 2017 dalla società “E. s.a.s “. Rappresenta, poi, che il fumus commissi delicti in ordine a tali fattispecie è desumibile dalle risultanze della documentazione contabile, ivi compresa quella sequestrata (in particolare: agende e scontrini non fiscali rinvenuti a seguito di perquisizioni), nonché delle numerose sommarie informazioni assunte presso i dipendenti degli esercizi commerciali facenti capo alla precisata azienda, e dei cedenti gli immobili acquistati dagli indagati e destinati alle attività aziendali, da tali elementi emerge sia la tenuta di una “contabilità parallela” per gli esercizi commerciali della “E. s.a.s.”, sia l’acquisto, da parte degli indagati, di beni immobili ad un prezzo significativamente superiore rispetto a quello indicato nei relativi atti pubblici, pagato, per la differenza, mediante versamenti in contanti. Precisa, quindi, espressamente, che «l’esistenza di una contabilità occulta non corrispondente a quella reale e, più in generale, l’esistenza, in capo alla E. s.a.s di elementi attivi ben maggiori di quelli indicati nelle dichiarazioni dei redditi relative ai periodi-di imposta 2015, 2016 e 2017» emerge dal complesso delle risultanze derivanti da documenti, perquisizioni, sequestri (sommarie informazioni, «ed indipendentemente dall’utilizzabilità, in questa sede contestata dalla Difesa, delle disposte intercettazioni telefoniche ed ambientali, che, ove utilizzabili, costituirebbero un ulteriore riscontro […]».
Questa motivazione, affermando espressamente di poter ravvisare il fumus commissi delicti indipendentemente dalle risultanze delle intercettazioni telefoniche ed ambientali e spiegando perché è possibile prescinderne, è di per sé sufficiente ad escludere qualunque rilevanza all’eventuale eliminazione, così come richiesta nei ricorsi, delle conversazioni intercettate mediante captatore informatico dal materiale utilizzabile ai fini del giudizio concernente la configurabilità dei reato.
In ogni caso, poi, i ricorrenti non si preoccupano in alcun modo di illustrare quale potrebbe essere l’incidenza dell’eliminazione di tali conversazioni dal compendio delle acquisizioni investigative ai fini della affermazione della sussistenza del fumus commissi delicti in ordine ai reati per i quali è stato disposto il sequestro.
3. In parte prive di specificità e in parte manifestamente infondate sono le censure esposte nel terzo motivo del ricorso le che contestano la mancata analisi dei riflessi dell’evasione sui singoli soci della “E. s.a.s.”, l’omesso accertamento su chi abbia sottoscritto le dichiarazioni della società, la mancata ricerca preventiva del profitto del reato nella disponibilità diretta della stessa, e la sproporzione tra quanto sequestrato e l’ammontare dell’imposta evasa.
3.1. La prima questione, concernente la mancata analisi dei riflessi dell’evasione sui singoli soci della “E. s.a.s.”, pur muovendo da una premessa corretta, è formulata in termini astratti e senza esplicitare quali sarebbero, nella specie, le concrete ricadute della denunciata omessa analisi.
Per una individuazione della disciplina penale tributaria applicabile alle società in accomandita semplice, sembra utile un inquadramento normativo.
L’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, nell’elencare le definizioni dei termini e dei sintagmi qualificanti la «Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto», prevede, alla lett. c), che «per “dichiarazioni” si intendono anche le dichiarazioni presentate in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società […] nei casi previsti dalla legge», e, alla lett. f), che «per “imposta evasa” si intende la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione […]».
Queste previsioni implicano, anche esplicitamente, un rinvio alla legislazione tributaria. In forza di questa disciplina, innanzitutto, a norma dell’art. 6 d.P.R. 29 settembre 1973, n.,600, le società in accomandita semplice, come tutte le società di persone, sono tenute a presentare la dichiarazione «agli effetti dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche dovute dai soci […]», Inoltre, secondo quanto prevede l’art. 1 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, la precisata dichiarazione deve essere sottoscritta dal legale rappresentante dell’ente, o, in mancanza, da chi ne ha l’amministrazione anche di fatto. Ancora, in ragione dell’art. 40, secondo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, già citato, alla rettifica delle dichiarazioni presentate dalle precisate società, conseguente agli accertamenti delle Autorità preposte, «si procede con unico atto ai fini dell’imposta locale sui redditi [attualmente abrogata] dovuta dalle società stesse e ai fini delle imposte sul reddito delle persone fisiche o delle persone giuridiche dovute dai singoli soci […]». Infine, per effetto dell’art. 5 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, i redditi delle società in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili; muovendo da questa disposizione, la giurisprudenza civile di legittimità afferma che il maggior reddito operato in rettifica nei confronti della società in accomandita semplice ed imputato al socio ai fini dell’IRPEF, in proporzione della relativa quota di partecipazione, comporta anche l’applicazione allo stesso socio della sanzione per infedele dichiarazione prevista dalla legislazione tributaria (così, tra le altre, Sez. 5 civ., n. 16116 del 28/06/2017, Rv. 644702-01, e Sez. 5 civ., n. 21570 del 07/11/2005, Rv. 585141-01).
In conseguenza del sintetizzato sistema normativo, le società in accomandita semplice sono tenute a presentare le dichiarazioni ai fini delle imposte sui redditi, ma il risultato di esercizio deve essere imputato direttamente ai singoli soci, ovviamente ciascuno per la sua quota di partecipazione. Ne deriva che il reato di cui all’art. 4 d.P.R. n. 74 del 2000 può essere integrato anche mediante la presentazione della dichiarazione in nome della società in accomandita semplice, e che, però, in tal caso, l’imposta sui redditi evasa deve essere calcolata avendo riguardo al reddito dei singoli soci.
Ora, nella specie, i ricorrenti, pur correttamente prospettando che l’imposta evasa andava calcolata avendo riguardo al reddito dei singoli soci, hanno omesso del tutto di indicare le conseguenze pratiche derivanti dall’applicazione di tale regola. La circostanza non è irrilevante, perché, anzi, se il reddito da partecipazione non dichiarato sia imputabile ad un unico socio, quale unico effettivo dominus della società, come nella specie risulta contestato nell’imputazione provvisoria con riferimento a O.C., e questi abbia anche altri redditi, l’imposta evasa, in ragione della progressività delle aliquote, potrebbe essere persino maggiore di quella calcolata avendo riguardo al solo risultato di esercizio dell’impresa.
3.2. La seconda questione relativa all’omesso accertamento su chi abbia sottoscritto le dichiarazioni della società “E. s.a.s., ed alla riferibilità delle stesse ad O.C., è formulata anch’essa in termini privi di specificità.
Va premesso che: a) le dichiarazioni presentate negli anni 2016, 2017 e 2018 per gli anni 2015, 2016 e 2017 sono state riferite a O.C. quale dominus e amministratore di fatto di “E. s.a.s.”, b) le dichiarazioni presentate negli anni 2016 e 2017 per gli anni 2015 e 2016 sono state riferite a E.C. quale legale rappresentante di “E. s.a.s.” fino al dicembre 2017; c) la dichiarazione presentata nell’anno 2018 per l’anno 2017 è stata riferita a P.C. quale legale rappresentante di “E. s.a.s.” dal dicembre 2017.
Per quanto riguarda la riferibilità delle dichiarazioni ad E.C. e a P.C., ovviamente ciascuno per il periodo in cui era legale rappresentante della “E. s.a.s.’, risulta sufficiente richiamare l’art. 1 del d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322. Secondo questa disposizione, infatti, le dichiarazioni in materia di imposte sui redditi delle società di persone, e quindi anche delle società in accomandita semplice debbono essere sottoscritte dal legale rappresentante della società. D’altro canto, non è nemmeno semplicemente allegato un elemento da cui desumere l’inosservanza di questa disposizione. Le censure in argomento, quindi, risultano prive.di specificità, perché non ancorate a puntuali elementi di fatto.
Per quanto attiene, poi, alla riferibilità delle dichiarazioni ad O.C., quale dominus e amministratore di fatto di “E. s.a.s.”, innanzitutto si deve rilevare come ripetutamente la giurisprudenza abbia precisato che dei reati in materia di dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, l’amministratore di fatto risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l’azione dovuta, mentre l’amministratore di diritto, quale mero prestanome, è responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell’evento (artt. 40, comma secondo, cod. pen. e 2932 cod, civ.), a condizione che ricorra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice (cfr,. ad esempio, Sez 3, n. 38780 del 14/05/2015, Biffi, Rv. 264971-0.1, e Sez. 3, n. 23425 del 28/04/2011, Ceravolo, Rv. 25096201, entrambe in relazione al reato di omessa dichiarazione). Inoltre, l’attribuibilità ad O.C. della qualifica di dominus e amministratore di fatto di “E. s.a.s.” è oggetto di puntuale giustificazione nell’ordinanza impugnata, la quale rappresenta che il ricorrente-appena indicato, secondo le convergenti dichiarazioni dei dipendenti della società, analiticamente riportate, era colui che, nel corso dell’intero periodo temporale in contestazione, ha impartito !e disposizioni relative alla gestione della contabilità ed allo svolgimento dell’attività imprenditoriale. Le censure in proposito, pertanto, non sì confrontano con la pertinente parte di motivazione dell’ordinanza impugnata.
3.3. La terza questione, riguardante la mancanza di una preventiva ricerca del profitto del reato nella disponibilità diretta della società “E. s.a.s.”, è formulata anch’essa in termini meramente assertivi.
Va infatti segnalato che, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza, in tema di reati tributari, il pubblico ministero è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, invece che in quella “diretta”, all’esito di una valutazione allo stato degli atti della capienza patrimoniale dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 35330 del 21/06/2016, Nardelli, Rv. 267649-01, e Sez. 3, n. 41073 del 30/09/2015, Scognamiglio, Rv. 265028-01). Inoltre, le Sezioni Unite hanno precisato che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto anche quando l’impossibilità del reperimento dei beni, costituenti il profitto dei reato, sia transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della richiesta e dell’adozione della misura, non essendo necessaria la loro preventiva ricerca generalizzata (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258648-01).
Ciò posto, l’ordinanza impugnata rappresenta che occorre disporre il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti dei soci di “E. s.a.s.”, in quanto il denaro provento di evasione fiscale è stato, almeno in parte, reinvestito in attività economiche, e non è nota l’esatta entità di tale reinvestimento, sicché non è possibile determinare l’ammontare delle somme rimaste nelle casse della società.
Questa motivazione, che risulta corretta, deve anzi ricevere una integrazione, alla luce della specifica disciplina fiscale relativa alle società di persone. Secondo questa disciplina (v. supra, § 3.1), i redditi dell’attività di un ente collettivo appartenente a tale categoria debbono essere imputati direttamente ai soci, ciascuno in relazione alla propria quota di partecipazione. Di conseguenza, è ragionevole ritenere che anche la liquidità rinvenuta nella disponibilità del socio della società in accomandita semplice costituisca profitto del reato tributario di evasione, ovviamente nei limiti degli utili dell’ente spettanti al medesimo socio.
3.4. La quarta questione, afferente alla sproporzione tra quanto sequestrato e l’ammontare dell’imposta evasa, è dedotta mediante una prospettazione non consentita in questa sede.
Il Giudice per le indagini preliminari, nel disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di cui si discute, ha precisato che egli era «tenuto ad indicare l’importo complessivo da sequestrare, ma non [al]l’individuazione specifica dei beni da apprendere» e che «la verifica della corrispondenza del loro valor e al quantum indicato nei sequestro [è] riservata alla fase esecutiva demandata ai pubblico ministero».
Tale decisione è del tutto in linea con l’ampiamente consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, il giudice che emette il provvedimento non è tenuto ad individuare concretamente i beni da sottoporre alla misura ablatoria, ma può limitarsi a determinare la somma di denaro che costituisce il profitto o il prezzo del reato o il valore ad essi corrispondente, mentre l’individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al quantum indicato nel sequestro è riservata alla fase esecutiva demandata al pubblico ministero (cfr., tra le tantissime, Sez. 6, n. 53832 del 25/10/2017, Cavicchi, Rv. 271736-01, e Sez. 3, n, 37848 del 07/05/2014, Chidichimo, Rv. 260148-01).
Di conseguenza, nella specie, essendo stata effettuata dal Pubblico Ministero la concreta individuazione dei beni da sottoporre a vincolo, le questioni relative alla ritenuta sproporzione tra il quantum oggetto di sequestro ed i beni vincolati sono da proporre al giudice dell’esecuzione, ma certo non sono deducibili mediante istanza di riesame avverso il provvedimento che ha disposto il sequestro.
Al più, può discutersi, ma ciò non influisce ai fini della decisione dei ricorsi in esame, se le contestazioni sulla corrispondenza fra il valore complessivo indicato nel decreto di sequestro ed il valore effettivo dei beni, che si risolvano in istanze di restituzione parziale, siano da rivolgere al giudice dell’esecuzione, o, invece, al pubblico ministero, che, in caso di mancato accoglimento, deve trasmettere la richiesta, corredata di parere ex art. 321, comma 3, cod. proc. pen., al giudice per le indagini preliminari, il cui provvedimento è impugnabile dinanzi al tribunale ex art. 322-bis cod. proc. pen., (cfr., per la seconda soluzione, Sez. 2, 17456 del 04/04/2019, Cerea, Rv. 276951-01).
4. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.