Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 31665 depositata il 2 agosto 2024
esclusa la responsabilità, di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, della società in assenza della diligenza del manager delegato alla sicurezza
Fatto
1. Con sentenza del 22 gennaio 2019 il GUP del Tribunale di Roma, all’esito di giudizio abbreviato, condannava gli imputati A.A., C.C., B.B., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, con la riduzione per il rito abbreviato, alla pena di anni 1 e mesi 10 di reclusione ciascuno, oltre al pagamento delle spese processuali, con concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna, in quanto riconosciutili colpevoli, in concorso con G.G. (giudicato separatamente) del delitto p. e p. dagli artt. 40, comma 2, 118, 589, cod. pen. 2381 e 2392 cod. civ., perché, quali componenti del Consiglio di Amministrazione della società D.D. Spa e perciò quali titolari della posizione pubblica di garanzia e cioè del dovere di individuazione e valutazione dei rischi aziendali e comunque di alta vigilanza sulle gestione della società e, pertanto, preposti ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro, per colpa, consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, omettevano – anche dopo che la società aveva partecipato ad una riunione presso il Ministero degli Esteri in data 12 febbraio 2015 ove veniva preannunciata l’imminente chiusura dell’Ambasciata italiana per il peggioramento delle condizioni di sicurezza” e venivano invitati a lasciare la Libia o in alternativa ad elevare al massimo le misure di sicurezza e dopo che la stessa D.D. Spa aveva trasferito, sempre per motivi di sicurezza, gli uffici amministrativi da T al cantiere di M in Libia in quanto protetto da servizio di sicurezza armata ed infine dopo che ENI Nord Africa aveva comunicato alla società un pericolo imminente per il personale in data 13 luglio 2015 – di dare disposizione alcuna circa la gestione del rischio per l’integrità fisica dei lavoratori durante il trasferimento presso i cantieri in Libia e, comunque, di effettuare ogni tipo ai controllo o verifica sull’ esistenza di direttive della società sul punto, ponendo così in essere un precedente – indipendente dall’ azione dei soggetti, appartenenti alle milizie locali che ponevano in essere il sequestro – nella serie causale di eventi che costituiva condizione senza la quale non vi sarebbe stato, in data 19 luglio 2015, il sequestro di H.H., I.I., J.J. e K.K. e che contribuiva, conseguentemente, a cagionare il decesso di H.H. e I.I. avvenuto in costanza di sequestro, durante il trasferimento da un luogo di restrizione ad un altro, nel corso di un conflitto a fuoco tra i sequestratori e soggetti terzi. Accertato in Libia il 3 marzo 2016.
Il Gup, ai sensi dell’artt. 444 e seguenti cod. proc. pen. applicava all’imputato M.M., su concorde richiesta delle parti, concessegli le circostanze attenuanti generiche e applicata la diminuente per il rito, la pena di anni 1 e mesi 10 di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena in relazione al delitto p. e p. dall’art. 589 cod. pen. perché, dando disposizioni, quale dirigente della società D.D. Spa, e perciò assumendo, in fatto una posizione di garanzia, sub specie obbligo di protezione in ordine alle modalità con cui, H.H., I.I., J.J. e K.K. avrebbero dovuto effettuare il trasferimento dall’ Italia verso il cantiere di M, in Libia – Paese dichiarato “non sicuro” dal Ministero degli Esteri (in ragione dei molteplici sequestri di persona di cui sono stati vittime tecnici occidentali ed in particolare italiani negli ultimi anni) e nel quale, dal 2014 è stata chiusa l’Ambasciata italiana per ragioni di sicurezza, e, infine, Paese nel quale la D.D. Spa ha trasferito, sempre per motivi di sicurezza, gli uffici amministrativi da T al cantiere di M in Libia in quanto protetto da servizio di sicurezza armato organizzato dalla medesima società – per colpa, consistita in negligenza imprudenza ed imperizia ordinando che gli stessi effettuassero il trasferimento dalla Tunisia al cantiere di M via terra, piuttosto che via mare, e su un automezzo condotto da un autista privato libico (preavvertito dell’arrivo dei quattro tecnici oltre 48 ore prima) senza alcuna scorta armata né altre cautele idonee a tutelarne l’integrità fisica e ciò solo sulla base di generiche rassicurazioni degli operai libici del cantiere in ordine al fatto che la zona di Sabrata era in quel momento “abbastanza tranquilla”, malgrado fosse fuori dalla zona sotto il controllo del Governo legittimo ed, invece, occupata dalle milizie fondamentalistiche islamiche che si riconoscono nell’Islam State e, infine, malgrado ENI Nord Africa lo avesse avvertito di un pericolo imminente per il personale italiano in data 13 luglio 2015, poneva in essere un precedente consistita – indipendente dall’ azione dei soggetti, appartenenti alle milizie locali che ponevano in essere il sequestro – nella serie causale di eventi che costituiva condizione senza la quale non vi sarebbe stato, in data 19 luglio 2015, il sequestro di H.H., I.I., J.J. e K.K. e che contribuiva, conseguentemente, a cagionare il decesso di H.H. e I.I. avvenuto in costanza di sequestro, durante il trasferimento da un luogo di restrizione ad un altro, nel corso di un conflitto a fuoco tra i sequestratori e soggetti terzi. Accertato in Libia il 3 marzo 2016.
Il Giudice di primo grado, infine condannava la società D.D. Spa, ritenuta l’ipotesi di cui al co. 2 dell’art. 12 D.Lgs. 231/2001, applicata la diminuzione per il rito, alla sanzione pecuniaria di Euro 150.000,00, oltre al pagamento delle spese processuali in relazione all’illecito di cui all’ art. 25-septies D.Lgs. 8 giugno 2001 n. 231 in relazione all’ art. 589 cod. pen. perché, A.A., B.B., G.G. e C.C., quali componenti del Consiglio di Amministrazione e quindi quali componenti dell’ organo apicale di D.D. Spa e perciò quali titolari della posizione pubblica di garanzia e cioè del dovere di individuazione e valutazione dei rischi aziendali e comunque di alta vigilanza sulla gestione della società, e, pertanto preposti ad adottare, nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza, e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro, in cooperazione colposa con il M.M., quale dirigente, nelle funzioni di operation manager per la Libia della suddetta società, che assumeva, in fatto una posizione di garanzia, sub specie obbligo di protezione, in ordine alle modalità con cui H.H., I.I., J.J. e K.K. avrebbero dovuto effettuare il trasferimento dall’Italia verso il cantiere di M, in Libia, per colpa, consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia omettevano – anche dopo che la società aveva partecipato ad una riunione presso il Ministero degli Esteri in data 12 febbraio 2015 ove veniva preannunciata l’imminente chiusura dell’Ambasciata italiana per il “peggioramento delle condizioni di sicurezza” e venivano invitati a lasciare la Libia o in alternativa ad elevare al massimo le misure di sicurezza e dopo che la stessa D.D. Spa aveva trasferito, sempre per motivi di sicurezza, gli uffici amministrativi da T al cantiere di M in Libia in quanto protetto da servizio di sicurezza armato ed infine dopo che ENI Nord Africa aveva comunicato alla società un pericolo imminente per il personale in data 13 luglio 2015 – i primi quattro omettevano di definire procedure e dare direttive in ordine alla gestione del rischio per l’integrità fisica dei lavoratori durante il trasferimento presso i cantieri in Libia e, comunque, di effettuare ogni tipo di controllo o verifica sull’ esistenza di direttive della società sul punto, ed il quinto ordinava che gli stessi effettuassero il trasferimento dalla Tunisia al cantiere di M via terra, piuttosto che via mare, e su un automezzo condotto da un autista privato libico (preavvertito dell’ arrivo dei quattro tecnici oltre 48 ore prima) senza alcuna scorta armata né altre cautele idonee a tutelarne l’integrità fisica e ciò solo sulla base di generiche rassicurazioni degli operai libici del cantiere in ordine al fatto che la zona di Sabrata era in quel momento “abbastanza tranquilla”, malgrado fosse fuori dalla zona sotto il controllo del Governo legittimo ed, invece, occupata dalle milizie fondamentalistiche islamiche che si riconoscono nell’Islam State e, infine, malgrado ENI Nord Africa lo avesse avvertito di un pericolo imminente per il personale italiano in data 13 luglio 2015, ponendo in essere cosi precedenti e indipendente dall’azione dei soggetti, appartenenti alle milizie locali che ponevano in essere il sequestro – nella serie causale di eventi che costituivano condizioni senza le quali non vi sarebbe stato, in data 19 luglio 2015, il sequestro di H.H., I.I., J.J. e K.K. e che contribuiva, conseguentemente, a cagionare il decesso di H.H. e I.I. avvenuto in costanza di sequestro, durante il trasferimento da un luogo di restrizione ad un altro, nel corso di un conflitto a fuoco tra i sequestratori e soggetti terzi. Accertato in Libia il 3 marzo 2016.
2. I fatti che hanno portato al presente processo,, per quello che rileva in questa sede e per come ricostruito dai giudici di merito, si riferiscono, dunque, alla morte dei due tecnici H.H. e I.I. dipendenti della D.D. Spa, destinati a lavorare negli impianti della società committente “M Oil and Gas” in territorio libico. Giunti insieme ad altri due colleghi, J.J. e K.K., dall’Italia a D, in Tunisia, alle 18 di domenica 19 luglio 2015 con volo con scalo a Malta, anziché essere trasferiti nell’impianto suddetto di M, in Libia, a mezzo di una nave messa a disposizione dalla committente, i quattro tecnici vennero trasportati via terra con autovettura con autista.
Si trattò di una variazione di programma rispetto a quanto di regola avveniva per gli spostamenti da e per il sito di M, che era di regola effettuato ogni mercoledì sera a mezzo di una nave messa a disposizione dalla società M Oil and Gas che copriva la tratta marittima D-M. Del cambiamento di programma i quattro tecnici vennero avvisati da M.M., operation manager della D.D. Spa in Libia, che aveva organizzato il viaggio alternativo, predisponendo l’autovettura pick-up e l’autista L.L., che già prestava questo servizio di autista da alcuni mesi per la D.D. Spa.
Uno dei due lavoratori superstiti, K.K., ha dichiarato di essere stato avvertito il 17 luglio del mutamento di programma, e ha aggiunto di averne informato i colleghi il successivo 19 luglio, allorquando li aveva incontrati all’aeroporto r di F per imbarcarsi sul volo per D con scalo a Malta.
I quattro tecnici, pertanto, giunti a D in Tunisia, vennero prelevati dall’autista libico, L.L. e fatti salire a bordo di un’autovettura pickup che li avrebbe condotti in territorio libico presso la citata destinazione.
Nel corso del tragitto in direzione M, però, intorno alle ore 21:40 circa, l’autovettura fu affiancata da altre due vetture i cui occupanti intimarono all’autista di fermarsi e, dopo aver fatto salire quest’ultimo su una delle loro vetture, lo abbandonarono, fuggendo con la stessa autovettura a bordo della quale si trovavano i quattro tecnici italiani.
Seguì, a tale episodio, un lungo periodo di prigionia, nel corso del quale i quattro tecnici italiani furono trasferiti in diversi rifugi e sottoposti a una lunga e costante privazione della loro libertà personale.
Il (Omissis) si registrò l’epilogo tragico. I.I. e H.H. vennero separati dai compagni per essere condotti in un altro rifugio, e morirono perché raggiunti da numerosi colpi da arma da fuoco, in quanto il convoglio sul quale gli stessi si trovavano insieme ai loro sequestratori venne attaccato da soggetti armati non identificati. Il J.J. ed il K.K., nel frattempo, rimasti soli all’interno del rifugio dov’erano stati imprigionati, riuscirono a scappare forzando la porta del locale e, una volta raggiunta la strada, intercettarono le forze di polizia libiche, che li consegnarono alle autorità italiane.
2.1. Il Giudice di primo grado ha riconosciuto la responsabilità per l’omicidio colposo di I.I. e H.H. – in cooperazione colposa nell’omicidio doloso commesso dai sequestratori e da chi ha materialmente esploso i colpi d’arma da fuoco da cui è derivato il decesso – dei componenti del consiglio di amministrazione della B. s.p,a. e ha accolto la richiesta di patteggiamento dell’operation manager della società, M.M., al quale l’organo amministrativo aveva conferito la delega per la sicurezza nel compound, affidandogli autonomi poteri di gestione e di spesa, nonché quello di adottare ogni misura idonea a garantire la sicurezza dei lavoratori in quel contesto.
Era stato il M.M., pur essendo ben al corrente della pericolosità della situazione geo-politica e in particolare degli spostamenti all’interno del territorio libico, contravvenendo a quella che era la prassi adottata fino allora, che aveva disposto che il trasferimento dei quattro tecnici avvenisse via terra, poiché l’attesa della prima nave disponibile da D a M si sarebbe protratta per diversi giorni, il che avrebbe posposto l’inizio del lavoro nell’impianto libico. Tuttavia, il Gup aveva ritenuto che, nel verificarsi dell’evento, avesse assunto rilevanza causale non solo la suddetta condotta del M.M., ma anche quella dei componenti del consiglio di amministrazione della D.D. Spa, A.A., C.C. e B.B. che, omettendo di analizzare il rischio specifico e di prevedere le relative misure di prevenzione nel documento di valutazione dei rischi, avevano creato le condizioni perché tale condotta potesse attuarsi.
2.2. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 5 luglio 2023, in riforma della sentenza di primo grado/appellata dagli imputati e da D.D. Spa, ha assolto A.A., C.C., B.B. dal reato loro ascritto per non aver commesso il fatto. Ha confermato, invece, l’affermazione di responsabilità dell’illecito amministrativo dell’ente D.D. Spa che ha condannato al pagamento delle spese del giudizio di appello.
I giudici del gravame del merito hanno escluso qualunque incidenza causale rispetto all’evento del comportamento tenuto dai membri del c.d.a. di D.D. Spa, sottolineando che: a. non è prevista l’adozione della forma scritta per l’adempimento dell’obbligo informativo; i lavoratori dipendenti impiegati sul territorio libico erano comunque a conoscenza dell’obbligatorietà dell’utilizzo del mezzo navale anziché terrestre per gli spostamenti da e per M; b. A.A., Presidente del consiglio di amministrazione, aveva sempre mantenuto contatti diretti con M.M. e, in una e-mail a lui inviata prima della vicenda in esame, si era raccomandato di utilizzare la rotta marittima come unica via di accesso al sito di M; c. la decisione di M.M. era stata frutto di una sua personale iniziativa, non concordata con alcuno e contraria alla prassi costantemente seguita, tant’è che egli si era guardato bene dall’informare i vertici della società e che questi non erano, infatti, a conoscenza di tale scelta né, tanto meno, l’hanno avallata.
Peraltro, la Corte territoriale ha evidenziato che B.B. e C.C. erano consiglieri privi di deleghe operative e dunque non erano investiti dei poteri di gestione che avrebbero loro consentito di adottare gli atti organizzativi e le misure cautelari richiesti dalla legge, poteri affidati invece al Presidente del consiglio A.A.
La Corte capitolina ha, invece, confermato anche la condanna dell’ente D.D. Spa per non aver adottato un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire la commissione di reati da parte di M.M., quale persona avente poteri di gestione dell’unità organizzativa libica. In particolare, la Corte territoriale ha evidenziato (pagg. 17-20 sentenza) che: a. non era stato creato un modello organizzativo idoneo a contrastare scelte estemporanee e autonome dei dirigenti pericolose per l’integrità dei lavoratori né era stato elaborato un codice disciplinare volto a sanzionare le condotte contrarie al suddetto modello; b. la società non era dotata di protocolli che prevedessero una puntuale formazione del personale rispetto ai rischi esogeni ed endogeni del paese in cui operavano, alcun criterio di tracciamento degli spostamenti del personale da e per il sito di M, la formazione di figure professionali appositamente destinate a gestire la security del personale impiegato nel sito e una specifica procedura per la prevenzione e per la gestione di sequestri di persona, eventi assolutamente prevedibili e frequenti in una area di crisi; c. le prescrizioni relative agli spostamenti dei lavoratori nel territorio libico, quantunque impartite ed asseritamente percepite dal M.M. come vincolanti, non presentavano i caratteri della ritualità formale e della perentorietà sostanziale a causa della mancata procedimentalizzazione del sistema, di applicazione di regole cautelari previste a tutela dei lavoratori e la loro mancata collocazione all’interno del documento di valutazione dei rischi – DVR – societario; d. ciò ha fatto sì che M.M. abbia agito con estrema disinvoltura, non prendendo minimamente in considerazione l’idea di chiedere un’autorizzazione formale che legittimasse la deroga ad una regola di condotta a lui impartita; e. era emblematico il comportamento delle quattro vittime del sequestro di persona, le quali non ebbero a sollevare obiezione alcuna circa il trasferimento terrestre, nell’evidente consapevolezza che esso non si traducesse nella violazione di alcun rigido protocollo.
3. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
Il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma Il ricorso non censura il capo della sentenza relativo all’assoluzione dei due consiglieri di amministrazione privi di deleghe operative, ma solo la decisione, che reputa invece erronea e illegittima, con cui è stato assolto il Presidente del consiglio di amministrazione (A.A.), che era investito del potere di gestione e onerato dell’obbligo del datore di lavoro di redigere il documento di valutazione dei rischi, in cui inserire le misure idonee ad evitare il pericolo dei sequestri di persona, per poi individuare gli strumenti idonei a prevenire le violazioni delle prescrizioni.
Con il primo motivo il PG ricorrente lamenta inosservanza o erronea applicazione della legge penale.
Si ricorda in ricorso che la Corte d’Appello di Roma ha ritenuto che l’obbligo informativo del datore di lavoro in ordine ai rischi specifici cui è esposto il lavoratore ed alle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e prevenzione non debba essere adempiuto obbligatoriamente in forma scritta e che “l’accertata omissione … degli obblighi informativi, non inseriti nel piano di valutazione dei rischi, non rappresenti un antecedente causale determinante per la causazione dell’evento” (pag. 13 della sentenza). Ritiene, invece, il PG ricorrente che l’obbligo legislativo di predisposizione del “documento” (dunque di un atto scritto) di valutazione dei rischi è funzionale anche ad assicurare, insieme alla reale effettuazione dell’analisi dei rischi legati alla specifica attività lavorativa e alla previsione delle misure atte ad evitarli, l’informazione completa dei lavoratori sui rischi a cui sono esposti e sulle cautele che devono essere seguite da loro e dai soggetti a loro preposti.
A tal fine è previsto, infatti, che il documento debba contenere (art. 28 lett. d D.Lgs. 81/2008) “l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere” e che (art. 29, comma 2, D.Lgs. 81/08) la valutazione dei rischi e l’elaborazione del documento debba avvenire previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”. Il comma 4 dell’art. 29, poi, stabilisce che “il documento di cui all’articolo 17, comma 1, lett. e quello di cui all’articolo 26, comma 3, devono essere custoditi presso l’unità produttiva alla quale si riferisce la valutazione dei rischi”. Dal che sarebbe evidente che la forma prevista dalla legge è funzionale anche all’adempimento dell’obbligo informativo nei confronti dei lavoratori (garantito dalla custodia nel luogo di lavoro oltre che dalla previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza).
Per il PG ricorrente, inoltre, è importante soprattutto il contenuto del DVR, che costituisce l’oggetto dell’informazione da fornire con esso ai lavoratori e che è in funzione dell’efficacia e del controllo delle misure di prevenzione predisposte: il DVR deve contenere “l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere”. Ciò significa che dall’omessa redazione del documento discende (dunque è causalmente collegata) la responsabilità del datore di lavoro per gli eventi che costituiscano la realizzazione dei rischi a cui sono esposti i lavoratori e che in quel documento, consultabile anche dai rappresentanti dei lavoratori, avrebbero dovuto essere analizzati e affrontati con la predisposizione di procedure di attuazione delle misure idonee di prevenzione.
Ancora, il PG ricorrente ricorda che, secondo la Corte d’Appello di Roma: “l’accertata predisposizione di un modello organizzativo non strutturato secondo parametri precostituiti di natura formale, con inserimento di regole di condotta da tenere in un documento di valutazione dei rischi – DVR – se da un lato non consente di ritenere sussistente un nesso di causalità tra le condotte dei componenti il consiglio di amministrazione della D.D. Spa e l’evento sequestro di persona dei lavoratori, dall’altro non esonera la stessa persona giuridica D.D. Spa dalla responsabilità amministrativa per fatto illecito”, (pag. 19-20).
Per il PG ricorrente, se astrattamente tale affermazione è condivisibile, si deve osservare, oltre quanto è già stato esposto poc’anzi, che la funzione di salvaguardia della sicurezza dei lavoratori può essere delegata dal datore di lavoro nei limiti e nelle forme indicati dall’art. 16, ma che il comma 3 di tale articolo chiarisce che “la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine di corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite” e che “l’obbligo di cui al primo periodo si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4”. Ciò significa – secondo la tesi illustrata in ricorso – che A.A., Presidente del consiglio amministrativo investito dei poteri gestori della D.D. Spa, quale datore di lavoro, non può essere esente da responsabilità per la morte dei lavoratori sequestrati, poiché, anche dopo la delega di funzioni a M.M., è rimasto a suo carico l’obbligo di vigilanza in ordine al corretto espletamento delle funzioni da parte del M.M., obbligo che egli non ha assolto, non avendo adottato il modello di verifica e controllo di cui all’art. 30, comma 4.
Si tratta proprio del modello di organizzazione e di gestione che devono adottare gli enti per esimersi da responsabilità amministrativa ai sensi della l. 231/2001 e che, in relazione ai reati connessi alla violazione di norme per la sicurezza sul lavoro, deve prevedere (art. 30, commi 3 e 4 D.Lgs. 81/2008) “un’articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, valutazione, gestione e controllo del rischio, nonché un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello. Il modello organizzativo deve altresì prevedere un idoneo sistema di controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate”.
In forza degli artt. 16 e 30 del D.Lgs. 81/2008 cioè, l’adozione del modello di organizzazione e gestione in materia di sicurezza dei lavoratori non è solo necessario per esimere l’ente da responsabilità da illecito amministrativo, ma è anche condizione per ritenere assolto l’obbligo del datore di lavoro di vigilanza sulle persone investite di delega di funzioni.
Sotto questo profilo, pertanto, per il PG ricorrente la mancata adozione di un idoneo modello organizzativo della società non può essere considerata ininfluente sulla responsabilità penale dell’amministratore ai sensi dell’art. 40, comma 2, cod. pen. per i fatti cagionati dalla violazione dei propri obblighi da parte dei delegati.
Si sottolinea che nel caso specifico, la Corte d’Appello ha accertato che nel modello organizzativo della società non vi era la previsione di “un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi … alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti” (art. 30, co. 1) né di “un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nei modello” (co. 3). Non erano state previste, né nel DVR né nel modello di organizzazione e gestione, procedure per assicurare la valutazione dei rischi, la predisposizione di misure cautelati e l’osservanza delle stesse, ossia, in concreto, la valutazione de! rischio sequestri, la prescrizione di trasporti solo via mare, l’informazione dei lavoratori e la sanzione per chi violasse la prescrizione.
Per il PG ricorrente la mancanza di tali previsioni ne! modello di organizzazione e gestione non può far sorgere solo la responsabilità amministrativa della D.D. Spa per la condotta di reato di M.M., ma anche la responsabilità penale dell’amministratore-datore di lavoro A.A., in ordine alla morte dei due lavoratori, per violazione dell’obbligo di vigilanza sul delegato M.M.
Con il secondo motivo il PG ricorrente lamenta contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione laddove la Corte territoriale ha escluso la responsabilità penale dei componenti del consiglio di amministrazione della D.D. Spa ritenendo che “l’accertata omissione degli obblighi informativi, non inseriti nel piano di valutazione dei rischi, non rappresenti un antecedente causale determinante per la causazione dell’evento” (pag. 13 della sentenza). Contemporaneamente, nel ritenere la responsabilità dell’ente D.D. Spa per il reato addebitato a M.M., ha affermato che le prescrizioni relative agli spostamenti dei lavoratori nel territorio libico, “quantunque impartite ed asseritamente percepite dal M.M. come vincolanti, non presentavano i caratteri della ritualità formale e della perentorietà sostanziale” a causa della “mancata procedimentalizzazione del sistema di applicazione di regole cautelari previste a tutela dei lavoratori e la loro mancata collocazione all’interno del documento di valutazione dei rischi – D.V.R. societario”; ciò ha fatto sì che M.M. “abbia agito con estrema disinvoltura, non prendendo minimamente in considerazione l’idea di chiedere un’autorizzazione formale che legittimasse la deroga” ad una regola di condotta a lui impartita; era “emblematico il comportamento delle quattro vittime del sequestro di persona, le quali non ebbero a sollevare obiezione alcuna circa il trasferimento terrestre, nell’evidente consapevolezza che esso non si traducesse nella violazione di alcun rigido protocollo”.
Dunque, la Corte d’Appello ha evidenziato che dalla mancata previsione nel D.V.R. del rischio del sequestro di persona e delle misure idonee ad evitarlo è derivata non solo un’irritualità formale, ma anche la carenza di perentorietà sostanziale delle prescrizioni impartite informalmente a M.M. per il trasporto dei lavoratori in territorio libico, tanto che questi ha agito con estrema disinvoltura senza chiedere alcuna autorizzazione o informare l’amministratore e gli stessi lavoratori non hanno sollevato alcuna obiezione alla scelta dell’operation manager di effettuare lo spostamento via terra.
Il PG ricorrente denuncia, pertanto, l’illogicità di uria motivazione, in cui, da un lato, si dà per accertato che la mancata procedimentalizzazione all’interno del documento di valutazione dei rischi dell’applicazione delie prescrizioni a tutela dei lavoratori contro il rischio di sequestri di persona abbia indotto M.M. ad adottare la decisione che ha contribuito alla causazione dell’evento e i lavoratori ad accettarla senza attivare eventuali strumenti di controllo, e, dall’ altro, si sostiene che tale mancata procedimentalizzazione all’interno del D.V.R. non rappresenti un antecedente causale determinante per la produzione dell’evento-morte.
Ancora, si sottolinea che, nella parte della motivazione relativa alla responsabilità dell’ente, la Corte d’Appello evidenzia che la società “non era dotata di protocolli che prevedessero una puntuale formazione del personale rispetto ai rischi esogeni ed endogeni del Paese in cui operavano, alcun criterio di tracciamento degli spostamenti del personale da e per il sito di M e una specifica procedura per la prevenzione e per la gestione di sequestri di persona, eventi assolutamente prevedibili e frequenti in una area di crisi”.
Tanto sarebbe chiaramente in contraddizione con l’assunto, riportato nella parte iniziale relativa alla responsabilità penale degli imputati, secondo cui sarebbe stato assolto l’obbligo informativo dei lavoratori, che erano a conoscenza del rischio di spostamenti via terra anziché via mare, e che per questo motivo la condotta omissiva degli amministratori, consistita nel non averlo previsto nel D.V.R., non avrebbe cagionato l’evento morte.
Al contrario, sottolinea il PG ricorrente che la stessa Corte d’Appello, con le considerazioni sopra riportate, rileva come fosse necessario prevedere una formazione specifica dei lavoratori e una specifica procedura per la prevenzione dei sequestri di persona, poiché la mancanza di queste ha reso possibile la condotta colposa di M.M., che si è potuto discostare senza formalità dalle prassi fino ad allora invalse senza che i lavoratori avessero gli strumenti per comprendere la pericolosità e per opporsi a tale decisione.
E allora – conclude il ricorso – non si vede perché le carenze evidenziate dalla Corte non si debbano considerare condotte colpose in collegamento causale con l’evento morte, posto che, ove fossero stati adempiuti gli specifici obblighi del datore di lavoro di cui agli artt. 7, 16 e 30 D.Lgs. 81/2008, il sequestro di persona non sarebbe avvenuto.
Si lamenta, altresì, travisamento del fatto laddove, nel motivare la propria decisione di assoluzione, la Corte d’Appello ha, inoltre, ritenuto che A.A. avesse adempiuto ai propri obblighi di informazione e di vigilanza sul delegato inviando a quest’ultimo una e-mail con la quale raccomandava l’utilizzo della nave quale unico mezzo per gli spostamenti da e per M. L.a e-mail richiamata dalla Corte d’Appello, però, non è stata inviata da A.A., Presidente del consiglio di amministrazione e odierno imputato, ma da N.N., figlio dell’imputato e responsabile della B.U. Local Construction Services, articolazione dell’organizzazione societaria che sovrintendeva l’operato e i risultati economici delle strutture della società nei vari Paesi stranieri, dunque, ancora una volta, la direttiva in questione, da un lato, per il delegato M.M. non aveva specifica valenza di perentorietà né di provenienza da un organo preposto alla tutela dei lavoratori contro i rischi legati allo svolgimento della prestazione nel contesto geopolitico libico; dall’altro, essa non era destinata alla conoscenza ed informazione dei lavoratori, che, infatti, si sono accontentati delle rassicurazioni di M.M. e hanno accettato senza resistenze di recarsi a M via terra.
La e-mail è il documento n. B67 allegato alla consulenza tecnica della difesa D.D. Spa e lo stesso A.A., nell’interrogatorio del 9 febbraio 2017, ha dichiarato di aver assolto, a suo parere, l’obbligo di confrontarsi con il rischio legato agli spostamenti dei lavoratori, avendo verificato l’esistenza di disposizioni sul punto quale la direttiva del figlio N.N. in qualità di gestore per la Libia.
La e-mail in questione, per le ragioni sopra esposte, per il PG ricorrente non può invece considerarsi idonea a sostituire le valutazioni, le informazioni e l’adozione delle misure di prevenzione nei termini imposti dagli artt. 7 e 28 (redazione del DVR), 16 e 30 (adozione di un modello di organizzazione e gestione finalizzato anche alla vigilanza e controllo sull’operato della persona delegata).
Pertanto, per il PG ricorrente la sentenza impugnata deve essere annullata nella parte in cui ha escluso la responsabilità penale di A.A., avendo la Corte d’Appello errato sui seguenti punti: 1. nell’escludere la colpa di A.A. per non aver vigilato sull’operato di M.M., non avendo predisposto un modello di organizzazione e gestione che attuasse “un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi … alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti” (art. 30, comma 1) né “un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello” (comma 3); 2. nell’escludere il nesso di causalità tra l’omessa previsione del rischio specifico nel D.V.R: e l’evento dell’omicidio colposo; nel ritenere che la mancata previsione del rischio specifico nel D.V.R., che non ha impedito la commissione del reato da parte del M.M., desse origine alla responsabilità dell’ente per illecito amministrativo ex art. 231/20001 e non facesse sorgere responsabilità in capo al datore di lavoro A.A. per l’omicidio colposo di H.H. e I.I.
Il PG ricorrente chiede, pertanto, che la sentenza impugnata venga annullata nella parte in cui è stato assolto A.A.
D.D. Spa (a mezzo del difensore e procuratore speciale Avv. R. B.).
Con un primo motivo si deducono violazione degli artt. 5, 6 e 25-septies, D.Lgs. 231/2001, in relazione all’art. 589 cod. pen. , nonché manifesta carenza e contraddittorietà della motivazione, in relazione alla intervenuta conferma della responsabilità amministrativa della D.D. Spa per il reato di omicidio colposo ai danni di H.H. e I.I., nonché nullità della sentenza impugnata ex art. 521 e 522 cod. proc. pen. per difetto di correlazione fra contestazione dell’illecito amministrativo e sentenza.
Si ricorda in ricorso come la responsabilità amministrativa della società D.D. Spa, resta esclusivamente agganciata, nello schema di ragionamento seguito dalla sentenza impugnata, alla sentenza di patteggiamento che è stata pronunciata nei confronti di M.M., dirigente della D.D. Spa con specifica e valida delega di funzioni rispetto alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori negli stabilimenti siti in Libia.
Si sottolinea altresì come numerosi ed estremamente rilevanti, ai fini della verifica della responsabilità dell’ente, sono i passaggi della motivazione attraverso i quali la sentenza impugnata è giunta ad escludere la responsabilità penale dei tre soggetti apicali che sono stati giudicati nell’ambito del giudizio abbreviato.
Si lamenta che la Corte territoriale non abbia saputo trarre le necessarie conseguenze che ne derivavano in tema di responsabilità dell’ente.
In particolare, si sottolinea come la sentenza impugnata abbia dato atto di come il consiglio di amministrazione abbia formalmente affidato alla figura di M.M. una valida delega con autonomi poteri di gestione e di spesa, e di come questi fosse figura professionale di comprovata capacità ed esperienza che gli venivano riconosciuti anche dai lavoratori sul posto.
Anche con riferimento al comportamento tenuto dal A.A., Presidente del Consiglio di amministrazione della D.D., la sentenza impugnata giunge ad una conclusione liberatoria in merito alla condotta omissiva a lui contestata, consistente nella violazione dell’art. 17 D.Lgs. 81/2008, che impone al datore di lavoro di predisporre un documento di valutazione dei rischi e di assicurare che vi sia uno scambio di informazioni all’interno della struttura aziendale.
La pronuncia di secondo grado afferma infatti che tale omissione, pur ritenuta astrattamente addebitabile ai componenti del consiglio di amministrazione, “non rappresenta un antecedente causale determinante per la causazione dell’evento” (p. 13 sent. imp.).
Si dà infatti ampiamente ed esaustivamente atto nella motivazione che l’obbligo di informazione era stato adempiuto e che, ancorché non inserito nel documento di valutazione dei rischi, fosse noto a tutti l’obbligo di accedere al sito di M esclusivamente a mezzo dell’imbarcazione messa a disposizione e finanziata dalla società. E che tali preiscrizioni erano costantemente rispettate.
Si sottolinea anche come dal tessuto motivazionale della sentenza impugnata emerga come nel caso specifico la scelta del M.M. di disporre il trasferimento via terra fu frutto di una sua personale iniziativa del tutte imprevedibile per i componenti del consiglio di amministrazione tenuto conto della sua elevata esperienza sul campo e del fatto che mediante comunicazione via e-mail era stata specificamente raccomandata l’utilizzazione della via marittima.
Non si comprende allora per la società ricorrente come tali premesse, che sono state ritenute idonee ad escludere la responsabilità penale dei membri del suo consiglio di amministrazione, compreso quello dotato di poteri operativi, non siano state ritenute ostative al riconoscimento della responsabilità dell’ente.
Il difensore ricorrente ricorda, sul piano strettamente giuridico-interpretativo, che la più recente giurisprudenza di legittimità, al fine di evitare che la responsabilità dell’ente sia formalisticamente e automaticamente dedotta, in base a schemi logico-presuntivi che richiamano il paradigma della responsabilità oggettiva, dal fatto che un reato è stato commesso nell’ambito dell’organizzazione societaria, ha ancora più esplicitamente ribadito (rispetto a quanto già comunque affermato dalla precedente giurisprudenza) la necessità che l’accertamento della responsabilità dell’ente segua un percorso di natura sostanziale (lo stesso in effetti applicato dalla sentenza impugnata nella prima parte della motivazione) che, a somiglianza di quanto accade nel campo della responsabilità delle persone fisiche e indipendentemente dalla formale presenza di un modello organizzativo efficace e correttamente implementato, accerti l’esistenza in concreto di una “colpa di organizzazione” rispetto alla quale il reato che è stato commesso si ponga in stretto ed univoco rapporto di derivazione causale. Si tratta, cioè, proprio di quegli elementi di cui, nel caso di specie, la sentenza impugnata, trattando della responsabilità delle persone fisiche, ha escluso l’esistenza a carico dei componenti del consiglio di amministrazione.
Su questa specifica linea si ricorda essersi attestata anche la recentissima Sez. 4. n. 21704 del 28/03/2023, Sasil Srl., Rv. 284641, della quale in ricorso viene riportato un ampio passaggio e di cui secondo il ricorrente la sentenza impugnata non opera un buon governo laddove non si avvede che laddove venga in concreto escluso come nel caso di specie non solo ogni profilo di responsabilità sotto forma di colpa di organizzazione a carico dell’organo gestorio ma anche il nesso di causalità con gli eventi dannosi verificatisi non può esserci alcuno spazio logico giuridico per ascrivere una responsabilità amministrativa da reato all’ente.
In tale ottica non viene ritenuto un caso che il capo di imputazione riferito all’ente e in particolare la prospettata responsabilità ex articolo 25-septies digs 231/2001 sia basato sull’ imputazione ai componenti dell’organo gestorio di una cooperazione colposa nel reato commesso dal morso che è stata radicalmente esclusa dalla sentenza impugnata.
Ci si duole che, in punto di responsabilità dell’ente la sentenza abbia abbandonato la corretta visione sostanzialistica che l’aveva ispirata nella valutazione delle posizioni individuali. Si sottolinea, in particolare che il provvedimento impugnato ha, in più parti, riconosciuto che la D.D. aveva in concreto adottato un modello organizzativo perfettamente idoneo a tutelare l’incolumità dei dipendenti e che le prescrizioni imposte erano state costantemente rispettate. Questo dato, peraltro, era già pacifico sin dal procedimento di primo grado, tant’è vero che a pagina 85 dei motivi di appello era stato rilevato come l’esistenza e la procedura di trasferimento via mare e la sua costante attuazione erano state confermate persino nell’annotazione di p.g. operata all’esito di un’ispezione condotta sul materiale digitale contenuto nel server della società è in dotazione a M.M. Nell’atto di appello il difensore ricorda che si era anche rappresentato che era stato lo stesso M.M., in più occasioni, nel corso del procedimento penale, a riconoscere di avere personalmente assunto la decisione di far viaggiare via terra i quattro tecnici il 19/07/2015, aggiungendo che era la prima volta che disponeva che i dipendenti della società effettuassero il trasporto via terra. Del resto, ciò appare coerente, come riconosciuto anche dalla sentenza di primo grado, con il fatto che i lavoratori furono avvisati del cambiamento di programma solo all’ultimo momento.
Il difensore ricorrente ribadisce che quanto detto nella prima parte della motivazione, in relazione alla penale responsabilità dei componenti del consiglio di amministrazione, circa il carattere del tutto estemporaneo ed imprevedibile della decisione assunta dal M.M., tanto da ritenerla causa autonoma degli eventi dannosi oggetto dell’imputazione, è idonea ad interrompere il nesso di causalità con l’operato del consiglio di amministrazione spesso, e si pene in netta e insuperabile contraddizione con la ritenuta responsabilità dell’ente.
Si sottolinea, ancora, come non ha alcun senso parlare, come fa la sentenza impugnata, in relazione ai reati colposi di elusione fraudolenta del modello organizzativo.
Si sottolinea l’infondatezza sul piano giuridico, oltre che la manifesta contraddittorietà sul piano logico, delle ulteriori considerazioni sviluppate dalla sentenza in merito alla ritenuta sussistenza dei criteri di imputazione dell’interesse e del vantaggio di cui all’articolo 5 D.Lgs. 231/2001. Ancora uria volta sul punto la sentenza impugnata non farebbe buon governo delle citate Sez. 4 n. 12149/2021, Rodenghi, Rv. 280877-01 quanto al collegamento finalistico tra violazione interesse dell’ente e Sez. 4 n. 20559/2022, Comune di Molfetta c. Balestri, Rv. 283234-01). Qui l’evidente insufficienza e contraddittorietà della motivazione riguarderebbe non solo e non tanto la mancata verifica dei suddetti criteri in relazione ad un vantaggio che è senz’altro esiguo e non apprezzabile, quanto piuttosto la mancata considerazione delle argomentazioni con le quali nella prima parte della sentenza si sottolineava che la violazione commessa dal M.M. non solo era isolata ma si poneva in chiara con tasto con una procedura imposta dalle direttive dell’ente di cui il delegato era soggetto pienamente consapevole.
La circostanza che i requisiti dell’interesse e del vantaggio debbano essere valutati nel contesto generale dei fatti ed in stretto collegamento con le verifiche relative alla sussistenza o meno di una colpa di organizzazione, dando cosi rilevanza anche al carattere sporadico o meno della violazione, trova conferma per il ricorrente in Sez. 4 n. 33976/2022, Cantina Sociale Bartolomeo da Breganze, che conferma i principi già affermati da Sez. 4 n. 22256/2021, Canzonetti, secondo cui va escluso il profilo dell’interesse o del vantaggio – e quindi la responsabilità dell’ente – ove la violazione si collochi in un contesto di generale osservanza da parte dell’impresa delle disposizioni in materia di sicurezza.
Il ricorrente torna in più passaggi ad evidenziare e contraddizioni tra la prima e la seconda parte della motivazione laddove si sottolinea la riconosciuta esistenza delle prescrizioni impartite dalle posizioni apicali dell’ente, la comprovata capacità professionale ed esperienza del M.M., che vantava una conoscenza pluridecennale del territorio libico e dei precari equilibri socio politici che lo attraversavano per poi affermare che mancavano norme sanzionatone a presidio delle procedure di sicurezza, affermazione che sarebbe frutto della mancata presa in considerazione dei motivi di appello nell’ambito dei quali si dimostrava per tabulas che il sistema sanzionatorio esisteva ed è stato nel caso di specie anche concretamente attivato, tanto che il M.M., a seguito del grave incidente di cui all’imputazione, è stato dapprima cautelativamente sospeso dall’incarico, poi sottoposto a procedimento disciplinare all’esito del quale è stato destituito dall’incarico stesso ed assegnato ad altra mansione, di minor rilevanza tanto da un punto di vista organizzativo che remunerativo (il richiamo è a pagina 81 e seguenti dei motivi di appello).
Con il secondo motivo si denunciano violazione degli artt. 110, 113, 630, commi 2 e 3, 589 cod. pen. e dell’art. 5, D.Lgs. 231/2001, nonché carenza assoluta di motivazione in relazione alla ritenuta configurabilità di una cooperazione colposa del M.M. con le condotte degli autori del sequestro di persona in danno dei dipendenti della D.D., ovvero di un concorso colposo nel delitto doloso altrui, nonché nullità della sentenza impugnata ex art. 521 e 522 cod. proc. pen. per difetto di correlazione fra contestazione dell’illecito amministrativo e sentenza.
Il ricorrente lamenta il mancato confronto da parte della sentenza impugnata con i motivi di appello e con le successive note difensive depositate, in particolar modo in relazione a temi che si ritengono decisivi, a cominciare dalla configurabilità di qualsiasi forma di concorso di cooperazione colposa del M.M. con i componenti del consiglio di amministrazione e con la condotta dei sequestratori dalla quale derivata la morte dei due dipendenti della D.D.. Si erano sottolineate, in proposito, l’impossibilità di ricostruire con certezza le dinamiche che avevano portato alla morte dei lavoratori sequestrati (laddove l’uccisione potrebbe essere avvenuta per mano degli stessi sequestratori) e l’impossibilità di configurare tanto una cooperazione colposa del reato che l’ipotesi di concorso colposo nel delitto doloso. Si era anche evidenziato come, dal punto di vista processuale, nessuna forma di cooperazione colposa rispetto alle condotte dei presunti autori materiali dell’omicidio fosse mai stata formalmente contestata al M.M.
Con il terzo motivo di ricorso si lamentano violazione degli artt. 110, 113, 630, commi 2 e 3, 589 cod. pen. e dell’art. 5, D.Lgs. 231/2001, nonché carenza assoluta della motivazione – rilevabile dal confronto fra il testo del provvedimento impugnato e i motivi di impugnazione – in relazione alia ritenuta configurabilità di un cooperazione colposa del M.M. con le condotte degli autori del sequestro di persona a danno dei dipendenti della D.D. ovvero di un concorso colposo nel delitto doloso altrui. Si lamenta, altresì, nullità della sentenza impugnata ex art. 521 e 522 cod. proc. pen. per difetto di correlazione fra contestazione dell’illecito amministrativo e sentenza.
Il difensore ricorrente evidenzia che un’altra tematica giuridica di grande e decisivo rilievo rispetto alla prova della responsabilità dell’ente, ampiamente trattata nei motivi di appello, riguarda la differenza fra il concetto di safety, riferibile all’attività di protezione dei rischi “insiti” nell’attività lavorativa e nei diversi processi produttivi, intorno al quale si impernia tutta la normativa antinfortunistica e la security, che fa invece riferimento al rischio “esogeno”, ovvero trasversale, prospettico e non classificabile e che, per queste sue particolari caratteristiche, non risulta disciplinato da una normativa special-preventiva integrata e sistematica, non potendosi in particolare rintracciare nel D.Lgs. 81/2008 (come in un nessun altro corpo normativo specifico), alcun riferimento ai pericoli derivanti da agenti criminosi esterni (cfr. p. 62 dei motivi di appello).
La difesa della società aveva in particolare censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui ha fondato il suo convincimento sull’erroneo presupposto che i rischi attinenti alla security siano, al pari di quelli di safety, riconducibili alle disposizioni di cui al D.Lgs. 81/2008, omettendo poi di rilevare come la società abbia da sempre dedicato profonda attenzione alla gestione di entrambe le categorie di rischio in conformità al quadro normativo vigente all’epoca dei fatti” (il richiamo è alla pag. 60 dei motivi di appello).
Il difensore ricorrente riporta il motivo di appello sul ponto lamentando che con lo stesso La Corte territoriale non si sia confrontata.
Si era anche lamentato – prosegue il ricorso – che il Giudice di primo grado avesse montato l’addebito di colpa generica in origine riferito agli amministratori della D.D. in un addebito di colpa specifica rappresentato dalla violazione di una norma puntuale, che, secondo la sentenza di primo grado, avrebbe loro imposto di prevedere nel D.V.R. i rischi connessi al trasferimento del personale in zone come la Libia, pericolose ragione di situazioni ambientali politiche e geografiche.
Il ricorrente ricorda ancora una volta che nei motivi di appello aveva svolto ulteriori considerazioni circa il fatto che il mancato inserimento di tali procedure nel DVR certamente derivava dalla convinzione, fondata su precisi riferimenti normativi e regolamentari, che l’area della safety dovesse essere gestita in modo separato da quella della security. Ma che, ciò nonostante, la società aveva fatto tutto quanto in suo potere per tutelare al meglio l’incolumità del personale anche dai rischi esogeni dell’attività produttiva rappresentati dalla difficile situazione ambientale presente in Libia.
Si riporta in ricorso quanto già indicato alle pagine 65 e seguenti dei motivi di appello in ordine a tali misure e si propone il tema secondo cui, avendo la sentenza impugnata ritenuto l’esistenza di una formale violazione dell’articolo 17 D.Lgs. 81/2008, affermando che da esso deriverebbe l’obbligo di inserire nel DVR anche i rischi e le procedure per fronteggiarli connessi all’area della security, non fornirebbe poi in motivazione nemmeno una parziale o implicita risposta ai centrali e decisivi problemi giuridici sollevati nei riportati passaggi dell’atto di appello, che sarebbero stati totalmente ignorati.
Con il quarto motivo di ricorso si lamentano violazione degli artt. 5, 6 e 25-septies D.Lgs. 231/2001, nonché carenza assoluta di motivazione rilevabile dal confronto fra il testo del provvedimento impugnato e i motivi di impugnazione in relazione alla ritenuta configurabilità della responsabilità amministrativa dell’ente per l’asserita assenza di un efficace sistema sanzionatorio delle violazione delle regole in tema di security (che invece era presente e del tutto adeguato) e per l’asserito mancato coinvolgimento dell’organismo di vigilanza (che invece è stato regolarmente informato e coinvolto).
Sul punto il ricorrente – che riporta integralmente in ricorso le pagine 81 e seguenti dell’atto di appello – lamenta che la sentenza impugnata non abbia minimamente considerato le ampie argomentazioni difensive spese nel tentativo di evidenziare come non corrisponda al vero che non vi fossero delle procedure sanzionatone da un punto di vista disciplinare in relazione a comportamenti quale quello tenuto dal M.M. violativi delle prescrizioni impartite, tanto è vero che l’organismo di vigilanza della società si è attivato dopo i fatti di cui all’imputazione.
Con il quinto motivo di ricorso si deducono violazione degli artt. 5 e 25-septies D.Lgs. 231/2001, nonché carenza assoluta di motivazione rilevabile dal confronto fra il testo del provvedimento impugnato e i motivi di impugnazione, in relazione alla ritenuta configurabilità di un vantaggio per l’ente connesso all’incremento di produttività e al risparmio di spese che esso avrebbe dovuto invece sostenere in caso di trasferimento via mare dei dipendenti.
Anche sul punto il difensore ricorrente riporta integralmente in ricorso le pagine 53 seguenti nel proprio atto di appello con cui aveva evidenziato l’assenza di qualsiasi interesse o vantaggio per la D.D. Spa nel caso di specie e i significativi investimenti che la società aveva fatto in materia di salute e sicurezza, provati attraverso la cospicua produzione documentale.
Si evidenzia, conclusivamente, che anche su questa specifica tematica non si rinviene nella sentenza impugnata cenno alcuno.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
3. Le parti hanno concluso in pubblica udienza come indicato in epigrafe.
Diritto
1. In premessa va rilevato che, dovendosi la questione valutare in ragione di quella che è stata la prospettazione accusatoria, sussiste nel caso che ci occupa la giurisdizione del Giudice italiano, ancorché l’azione del M.M. si sia svolta in Libia e nel medesimo Paese africano abbiano avuto i drammatici accadimenti che hanno portato alla morte dei due tecnici italiani H.H. e I.I.
Costituisce ius receptum, infatti, che, per il principio di territorialità della legge penale di cui all’art. 6, comma 2, cod. pen. , il reato si considera commesso nel territorio dello Stato anche quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è stata ivi realizzata soltanto in parte (così Sez. 3, n. 30153 del 08/03/2018, Ali, Rv. 273829-01 che ha ritenuto la procedibilità nel caso di un imputato che aveva organizzato la ricezione di sostanza stupefacente procacciata in Pakistan da altri e che aveva procurato il biglietto di viaggio per il corriere, ritenendo irrilevante l’arresto di quest’ultimo ancor prima della partenza).
Ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana in relazione a reati commessi in parte all’estero, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, intesa in senso naturalistico, che, seppur privo dei requisiti di idoneità e inequivocità richiesti per il tentativo, sia apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia e quella realizzata in territorio estero (così Sez. 4, n. 39993 del 07/10/2021, Xhindoli, Rv. 282061-01 che, in una fattispecie in tema di furto di valori contenuti in una cassaforte in Svizzera, ha ritenuto immune da censure il riconoscimento della giurisdizione italiana per essersi verificata, in Italia, la predisposizione dei mezzi atti a scassinare la cassaforte).
Si è anche affermato che, in caso di concorso di persone nel reato commesso in parte all’estero, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana e per la punibilità di tutti i concorrenti è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificata anche solo una frazione della condotta ad opera di uno qualsiasi dei concorrenti, che, seppur priva dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, sia comunque significativa e collegabile in modo chiaro e univoco alla parte restante realizzata in territorio estero (Sez. 3, n. 35165 del 02/03/2017, Sorace, Rv. 270686-01 in una fattispecie in tema di concorso di persone nel reato di importazione di sostanza stupefacente, in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza della Corte territoriale che aveva ravvisato la giurisdizione italiana nella condotta dell’imputato trovato in possesso di sostanza stupefacente all’aeroporto di C, ivi arrestato e giudicato, sulla base del rilievo che la sostanza detenuta dallo stesso gli era stata affidata affinché la trasportasse in Italia per consegnarla a determinati soggetti; la Corte ha ritenuto la motivazione della sentenza insufficiente, non avendo indicato i correi, né descritto gli accordi tra loro intercorsi e nemmeno individuato la frazione di condotta realizzata nel territorio dello Stato collegata con quella commessa all’estero; conf. Sez. 4, n. 44837 del 11/10/2012, Krasniqi, Rv. 254968-01, che, in applicazione del principio, ha ritenuto commesso in Italia il delitto di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309 del 1990, sub specie di offerta, messa in vendita e cessione di sostanze stupefacenti, in quanto lo scambio della droga, ancorché materialmente avvenuto in territorio estero, era stato preceduto da contatti telefonici con i singoli acquirenti, i quali percepivano la disponibilità alla cessione della droga in Italia da dove chiamavano). E in precedenza si era specificato che, in relazione a reati commessi in parte anche all’estero, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato l’evento o sia stata compiuta, in tutto o in parte, l’azione, con la conseguenza che, in ipotesi di concorso di persone, perché possa ritenersi estesa la potestà punitiva dello Stato a tutti i compartecipi e a tutta l’attività criminosa, ovunque realizzata, è sufficiente che in Italia sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione ad opera di uno qualsiasi dei concorrenti, a nulla rilevando che tale attività parziale non rivesta in sé carattere di illiceità, dovendo essa essere intesa come frammento di un unico “iter” delittuoso da considerarsi come inscindibile (così Sez. 1, n. 41093 del 06/05/2014, Cuomo, Rv. 260703-01 che, in applicazione del principio, ha ritenuto sottoposto alla giurisdizione italiana il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso in riferimento a persona operante all’estero per conto di una consorteria la cui attività in Italia, posta in essere da altri sodali, era consistita esclusivamente nello sbarco di casse di tabacchi lavorati esteri e nella vendita di tali prodotti di contrabbando, senza esplicazione del metodo mafioso).
Nello specifico del reato omissivo questa Corte di legittimità ha chiarito ormai da tempo che il reato omissivo colposo si considera commesso nello Stato, in applicazione del principio di territorialità della legge penale, qualora abbia avuto luogo in tale territorio anche una sola parte della omissione causativa dell’evento (Sez. 4, n. 22147 del 10/03/2011, Bernard, Rv. 250701-01). E con la recente Sez. 4, n. 35510 del 20/05/2021, Orioli, Rv. 281853-01 in tema di omicidio colposo con violazione della normativa antinfortunistica sul lavoro, in una fattispecie analoga a quella che ci occupa, si è ribadito che, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana in relazione a reati commessi in parte all’estero, è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, intesa in senso naturalistico, che, seppur privo dei requisiti di idoneità e inequivocità richiesti per il tentativo, sia apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia e quella realizzata in territorio estero (fattispecie in cui la Corte ha riconosciuto la giurisdizione italiana per essersi verificata, in Italia, la parte iniziale della condotta degli imputati che, pur essendovi legalmente tenuti, non avevano ottemperato alle norme di formazione ed informazione poste a tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro, così causando colposamente la morte di un lavoratore italiano che, per loro conto, prestava attività lavorativa su una nave battente bandiera straniera e in acque territoriali estere).
Nel solco di tali principi – che il Collegio intende ribadire e consolidare – sussiste senza dubbi la giurisdizione del Giudice italiano in quanto l’omissione contestata ai tre componenti del cda della D.D. Spa attiene a comportamenti (la predisposizione di un documento di valutazione dei rischi che contemplasse quello concretizzatosi nel trasferimento dei tecnici presso il cantiere in Libia, l’assicurazione che vi sia uno scambio di informazioni all’interno della struttura aziendale circa la gestione del rischio per l’integrità fisica dei lavoratori durante tali trasferimenti e, comunque, l’effettuazione di ogni tipo di controllo o verifica sull’ esistenza di direttive della società sul punto) che si sarebbero dovuti tenere in Italia, ovvero nel luogo ove la D.D. Spa ha la sede legale e dove opera il consiglio di amministrazione.
2. Il motivo di ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma è infondato. Ed invero lo stesso sollecita una rivalutazione del fatto non consentita in questa sede di legittimità a fronte di una motivazione dei Giudici di Appello che, logicamente argomentando in punto di riconosciuta esistenza di disposizioni organizzative che prescrivevano come tassativo l’utilizzo della nave per il trasporto dei lavoratori presso il cantiere, l’esistenza di una valida e formale delega da parte dei membri del consiglio di amministrazione nei confronti del M.M., soggetto avente specifiche competenze tecniche ed una pluriennale conoscenza dei luoghi, cui era stata affidata la security in Libia dei lavoratori della D.D. Spa, con specifico riferimento anche al tema dei loro trasferimenti da operarsi via mare, disposizione peraltro ribadita allo stesso via e-mail, per mezzo del figlio, dallo stesso A.A., di assoluta estemporaneità del comportamento violativo felle prescrizioni da parte del ricorso, “hanno ritenuto non prevedibile anche da parte di A.A., unico soggetto verso il quale è rivolto il ricorso del Procuratore generale (dovendosi dunque considerarsi passate in giudicato e assoluzioni nei confronti dei due altri componenti del consiglio di amministrazione della D.D. non dotati di poteri operativi), il comportamento del delegato in terra libica.
Come si avrà modo di illustrare di qui a poco, è fondata la doglianza del PG capitolino in relazione alla contraddittorietà delle argomentazioni spese dalla Corte territoriale relativamente alla condanna per responsabilità amministrativa dell’ente e all’assoluzione anche del componente del consiglio di amministrazione della D.D. Spa dotato di poteri operativi. Ma tale contraddittorietà si palesa nel senso opposto a quello ritenuto dalla pubblica accusa, in quanto vi erano tutti gli elementi per ritenere che non fosse fondata la prospettazione accusatoria circa la responsabilità amministrativa dell’ente.
L’impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l’iter logico-giuridico seguito per giungere all’assoluzione di A.A., C.C. e B.B. e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni delle parti ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità.
Correttamente la sentenza impugnata evidenzia essere “opportuno rilevare che, a fronte delle considerevoli dimensioni della società D.D. Spa, attiva in trenta diversi Paesi, al di là del mero criterio formalistico dell’individuazione dei soggetti collocati in una posizione di garanzia, criterio che, ove isolatamente considerato, potrebbe manifestarsi condizionante, diviene necessario, al fine di individuare le singole responsabilità insite nella vicenda in esame, seguire un criterio sostanzialistico e cioè stabilire se, nel concreto, gli imputati A.A., C.C. e B.B., in forza dei poteri di cui erano depositari nel consiglio di amministrazione, siano venuti meno a obblighi funzionali ad impedire l’infausto evento” (cosi a pag. 11 della sentenza impugnata).
La Corte territoriale dà conto che i poteri gestionali erano in realtà affidati al Presidente A.A. e al Vice Presidente, soggetto giudicato separatamente, mentre i due consiglieri indipendenti C.C. e B.B. sono risultati privi di deleghe operative. E, quindi, in primis, rileva l’assenza di alcun profilo di colpa per omissione in capo al C.C. e al B.B. i quali erano privi di concreti poteri gestionali e in alcun modo avrebbero potuto esercitare poteri di controllo e vigilanza sulle attività della unità operativa libica di M.
I giudici del gravame del merito, tuttavia, anche quanto alla posizione di A.A., evidenziano che il consiglio di amministrazione di D.D. Spa, con apposita delibera, aveva affidato, alla figura di M.M., in qualità di operation manager del compound libico della D.D., autonomi poteri di gestione e di spesa, nonché il potere di adottare qualsivoglia misura idonea a garantire il rispetto della sicurezza dei lavoratori in un contesto delicato e difficile quale quello del territorio libico. Evidenziano che tale delega di funzioni, nello specifico, manifestava la volontà, da parte dell’organo amministrativo citato, di consentire la traduzione, sul piano concreto delle prescrizioni in materia di sicurezza sul luogo di lavoro, agevolando, in tal guisa, fa tempestiva adozione di tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi di un ipotetico evento dannoso ai lavoratori. Ciò perché “… il M.M., lungi dall’essere un soggetto sprovveduto, doveva ritenersi figura professionale di comprovata capacità ed esperienza, con una conoscenza pluridecennale del territorio libico e dei precari equilibri sociopolitici che lo attraversavano” (pag. 12 della sentenza impugnata).
Rileva la Corte capitolina che: “Proprio in virtù di tali competenze, oltre che della sua effettiva vicinanza al luogo di lavoro, il M.M. figurava quale individuo maggiormente idoneo a valutare e gestire le concrete fonti di pericolo dell’integrità dei lavoratori, ben potendo egli, qualora l’occasione lo avesse richiesto, agire in modo tempestivo ed efficace. La fiducia riposta nella sua figura, d’altronde, è tale che anche i quattro tecnici dipendenti della D.D., H.H., I.I., J.J. e K.K., informati circa il cambiamento di programma in relazione allo spostamento da effettuarsi verso il sito libico, non manifestarono peculiari turbamenti né si opposero a tale decisione de? M.M. Il J.J., in particolare, ha riferito che, una volta informato dal M.M. delle modalità di raggiungimento del sito di M, a fronte di una sua specifica domanda circa l’affidabilità di tale mezzo di spostamento, fossa stata rassicurato dallo stesso e non ebbe, dunque a sollevare ulteriori preoccupazioni sui rischi che avrebbero potuto correre con uno spostamento via terra” (pag. 12 della sentenza impugnata).
Il PG ricorrente incentra il proprio sforzo argomentativo sulla circostanza – incontestata, in quanto la società sostiene di avere ritenuto che nel DVR dovessero essere specificate solo prescrizioni inerenti alla safety, ovvero ai rischi connessi allo svolgimento delle lavorazioni, e non quelli esogeni connessi alla security, ovvero agli spostamenti all’estero delle proprie maestranze, che aveva ritenuto di tutelare e procedimentalizzare attraverso documenti estranei al DVR – che il documento di valutazione dei rischi di D.D. Spa non contemplasse, esplicitamente, il rischio connesso agli spostamenti dei tecnici diretti al cantiere in Libia. E collega alla necessaria forma scritta che avrebbero dovuto avere tali prescrizioni e al loro essere contenute all’interno del DVR una (non dimostrata) più agevole possibilità da parte del M.M. di disattenderle o di eluderle.
Il tema, tuttavia, non è se tali disposizioni fossero contenute nel DVR ma se vi fosse un’organizzazione aziendale nota e conosciuta a preposti e lavoratori tesa a fronteggiare i rischi all’incolumità degli operai nei loro spostamenti in Libia. E tali disposizioni vengono ritenute anche nella sentenza impugnata come esistenti note al soggetto delegato, agli stessi lavoratori e solo per la prima volta in quella specifica occasione disattese.
“In realtà – si legge a pag. 13 della sentenza impugnata – risulta accertato che i lavoratori dipendenti della D.D. impiegati sul territorio libico fossero comunque a conoscenza della obbligatorietà dell’utilizzo del mezzo navale anziché terrestre per gli spostamenti da e per il sito di M. D’altro canto l’obbligo di informazione posto in capo al datore di lavoro prevede solamente che il lavoratore riceva una adeguata informazione sui rischi specifici cui è esposto, in relazione alla attività svolta, alle normative di sicurezza e alle disposizioni aziendali in materia. Di contro non è prevista l’adozione della forma scritta per l’adempimento dell’obbligo informativo”.
In realtà, dal tessuto motivazionale di entrambe le sentenze di merito, emerge un quadro che ha visto la D.D. Spa tenere adeguatamente conto nel proprio modello organizzativo d’impresa, con cantieri in trenta Paesi in ogni parte del mondo, del rischio connesso agli spostamenti dei propri dipendenti in zone che presentassero situazioni di rischio per la loro incolumità in relazione agli stessi. Rischio che, in ragione della diffusione del lavoro in ambito mondiale, non poteva che contemplare, com’è avvenuto, l’istituto della delega di funzioni. Perciò, nello specifico della Libia, il consiglio di amministrazione si era formalmente affidato alla figura dirigenziale di M.M., figura professionale – va ribadito – di comprovata capacità ed esperienza che gli venivano riconosciuti anche dai lavoratori sul posto, cui aveva conferito una valida delega con autonomi poteri di gestione e di spesa.
La Corte territoriale evidenzia che A.A., Presidente del consiglio di amministrazione della D.D. s.p.a. risulta aver sempre mantenuto contatti diretti con il M.M. In particolare, a quest’ultimo, attraverso la e-mail inviatagli da N.N., figlio dell’imputato A.A., componente del c.d.a. con poteri operativi avverso la cui assoluzione è insorto il P.G. capitolino, era stato specificamente ribadito di utilizzare la nave – peraltro già pagata e prenotata – per lo spostamento dei tecnici al cantiere di M. La circostanza su cui insiste il ricorso del PG che la e -mail non provenisse da A.A., come erroneamente scrive la Corte territoriale, appare in realtà inconferente ai fini dell’odierno decidere. A.A., infatti, come ricorda lo stesso PG ricorrente, era il soggetto di un’articolazione societaria riconducibile a D.D. Spa, la B.U. Local Construction Services, che sovrintendeva all’operato e ai risultati economici delle strutture della società nei vari Paesi stranieri. Il denunciato travisamento della prova, pertanto, difetta del necessario requisito della decisività ai fini del decidere.
La Corte territoriale logicamente conclude, sulla scorta di quanto sopra evidenziato, che la mancata inserzione da parte dei componenti del consiglio di amministrazione del rischio in questione nel DVR “non rappresenta un antecedente causale determinante per la causazione dell’evento” (pag. 13 della sentenza impugnata). Si dà infatti ampiamente ed esaustivamente atto nella motivazione che l’obbligo di informazione era stato adempiuto e che, ancorché non inserito nel documento di valutazione dei rischi, fosse noto a tutti l’obbligo di accedere al sito di M esclusivamente a mezzo dell’imbarcazione messa a disposizione e finanziata dalla società. E che tali prescrizioni erano costantemente rispettate.
Si evidenzia in proposito “il comportamento inequivoco tenuto dai vertici societari laddove si consentiva la collocazione di slides informative, acquisite in atti, poste all’interno del sito di M con le quali si dettavano generali regole di comportamento e di sicurezza e si metteva in guardia tutto il personale del sito dall’allontanarsi a piedi o con autoveicoli dall’area protetta di M” (pag. 13 della sentenza impugnata).
I giudici di merito danno concordemente atto che nel caso specifico la scelta del M.M. di disporre il trasferimento via terra fu frutto di una sua personale iniziativa del tutto imprevedibile per i componenti del consiglio di amministrazione tenuto conto della sua elevata esperienza sul campo, del fatto che mediante la sopra ricordata comunicazione via e-mail era stata specificamente raccomandata l’utilizzazione della via marittima e che la prescrizione per il passato era stata sempre rispettata.
Aggiungono in proposito i giudici del gravame del merito che “quanto al contenuto di tale imprudente e negligente decisione di spostare i lavoratori via terra, a mezzo di una autovettura, deve rilevarsi come le evidenze probatorie dimostrino che tale scelta non fu né conosciuta né tantomeno avallata dall’organo amministrativo della D.D., operante in Italia nella sede di P, le cui direttive, invece, si erano sempre palesate in senso contrario a quanto stabilito dal M.M. in quel frangente” e che, di contro “va evidenziato che, sebbene non debitamente formalizzato, l’organo collegiale amministrativo della D.D. avesse, a più riprese, stabilito che l’unica modalità per accedere al sito di M e per allontanarsi dal detto sito, per fare rientro in Italia, fosse quella marittima a mezzo di una imbarcazione messa a disposizione e finanziata dal committente, in quanto ragionevolmente ritenuta più sicura” (pag. 13 della sentenza impugnata).
Sfornita di prove e rimasta allo stadio di mera enunciazione è la circostanza su cui insiste in ricorso il PG,. secondo cui l’assenza di stringenti prescrizioni sul rischio di cui si discute all’interno del DVR ne comportava una più facile trasgressione o elusione, rendendole prive di deterrenza per l’assenza di sanzioni.
L’affermazione in questione, peraltro, non si confronta criticamente con le acquisizioni difensive, anche di natura documentale, che hanno dato conto di come, dopo i fatti oggetto del presente processo, il M.M., a seguito dei fatti che hanno portato al presente processo, è stato dapprima cautelativamente sospeso dall’incarico, poi sottoposto a procedimento disciplinare all’esito del quale è stato destituito dall’incarico stesso ed assegnato ad altra mansione, di minor rilevanza tanto da un punto di vista organizzativo che remunerativo
Priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto appare, pertanto, la motivazione della sentenza impugnata – che presenta tutti i caratteri richiesti alla pronuncia di appello che, in radicale riforma della sentenza di condanna di primo grado, pronunci sentenza di assoluzione in quanto confuta in modo specifico e completo le argomentazioni della decisione di condanna, scardinandone l’impianto argomentativo-dimostrativo (cfr. ex multis Sez. 5, n. 21008 del 06/05/2014, Barzaghi ed altri, Rv. 260582-01) – laddove ha ritenuto di pronunciare una sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto per tutti i componenti del c.d.a. della D.D., ivi compreso A.A. che aveva le deleghe operative, ritenendo, di fatto, che, per quanto riguarda la D.D., la responsabilità di aver posto in essere la sciagurata ed imprevedibile – perché estemporanea e mai presa prima – condizione senza la quale non si sarebbe realizzato il rapimento dei tecnici italiani (ovvero il trasferimento via terra e non con la nave noleggiata dalla società) sia ascrivibile esclusivamente al suo dirigente in loco, M.M., originario coimputato, che ha ritenuto di accedere ad una sentenza di patteggiamento.
Sottolinea la Corte capitolina, a pag. 14 della sentenza impugnata che “l’operation manager M.M. si guardò bene dall’informare i vertici della società, ne risulta dimostrato che questi ultimi venissero messi a conoscenza della stessa in un arco temporale utile ad intraprendere gli opportuni provvedimenti, cosicché l’autonomia di tale decisione si configura quale elemento idoneo e sufficiente a recidere il nesso eziologico tra l’assenta condotta omissiva del A.A., oltre che del B.B. e del C.C. che hanno una posizione ancora più sfumata per la mancanza di concreti poteri operativi e il sequestro di persona e il conseguente evento mortale del I.I. e del H.H.”.
3. Fondato – ed assorbente rispetto agli altri – appare invece il primo motivo di ricorso proposto dalla D.D. Spa.
In premessa, va detto che, astrattamente, una responsabilità amministrativa ex art. 25-septies D.Lgs. 231/2001, alla luce della prospettazione accusatoria, poteva porsi.
La norma in questione, infatti, prevede la responsabilità amministrativa dell’ente in relazione al delitto di cui all’articolo 589 del codice penale, commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, e, in fatto, come si evidenziava in precedenza, tra le altre omissioni risulta contestata ai componenti del c.d.a. di D.D. Spa la violazione dell’art. 17 D.Lgs. 81/2008, che impone al datore di lavoro di predisporre il documento di valutazione dei rischi previsto dall’art. 28 e di assicurare che vi sia uno scambio di informazioni all’interno della struttura aziendale.
Tuttavia, come si avrà modo, di illustrare, la Spa D.D. e il suo c.d.a. avevano adottato un modello organizzativo atto a prevenire anche il rischio che poi si è tragicamente concretizzato con la morte in Libia dei tecnici H.H. e I.I. Ed avevano anche operato affinché le prescrizioni organizzative che volevano come tassativa la previsione dell’utilizzo della nave per gli spostamenti dal luogo di atterraggio in Tunisia fossero adempiute dal M.M.
Inoltre, il D.Lgs. 231/2001 pone a carico dell’impresa una responsabilità amministrativa in dipendenza di determinati reati commessi da propri amministratori, dirigenti e dipendenti, qualora realizzati nell’interesse o a vantaggio dell’impresa stessa. L’autore o gli autori del reato devono essere soggetti apicali, definiti dalla normativa come “persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione, o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso ovvero da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi”. E tali sono certamente i componenti del consiglio di amministrazione, ma anche l’operation manager in Libia M.M.
Inoltre, l’interesse dell’ente, indispensabile affinché si ravvisi la responsabilità amministrativa ex D.Lgs. 231/2001, deve escludersi, anche in via astratta, quando uno dei soggetti sopra individuati abbia agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, in quanto ciò determina la rottura dello schema di immedesimazione organica e l’illecito commesso è certamente un vantaggio fortuito non attribuibile alla volontà giuridica dell’ente, pur potendo tornare a suo vantaggio. E nel caso che ci occupa alcuno dei dipendenti della D.D. Spa imputati nel presente processo risulta aver perseguito un interesse proprio.
4. Detto della configurabilità in astratto di una responsabilità ex art. 25-septies D.Lgs. 231/2001 ipotizzabile nel caso in esame a carico di D.D. Spa, va subito detto che, in concreto, la stessa non sussiste perché, come ricordano anche i giudici capitolini a pag. 15 della sentenza impugnata, l’ente non è responsabile quando ha adottato, prima della commissione dell’illecito, un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire la commissione dello stesso.
L’errore logico in cui incorre la sentenza impugnata è quello di inferire la responsabilità dell’ente dallo sporadico comportamento tenuto dal M.M., ovvero da una figura apicale avente autonomi poteri di gestione e di spesa, di trasgressione alle prescrizioni ricevute.
Con il primo motivo di ricorso l’ente ricorrente si duole, fondatamente, di una palese e grave contraddizione tra le affermazioni che i giudici capitolini operano nella prima parte della sentenza – e che pongono a fondamento dell’assoluzione dell’intero consiglio di amministrazione della D.D. – e la ritenuta responsabilità amministrativa dell’ente di cui alla seconda parte della motivazione.
A ben guardare, come visto, la sentenza impugnata riconosce che sussisteva e fosse nota anche a tutti i lavoratori della D.D. la sussistenza di un obbligo, a fini di sicurezza, una volta atterrati in Tunisia di portarsi presso il cantiere in Libia con la nave messa a disposizione dalla società e non via terra. Emerge anche dalla doppia conforme pronuncia dei giudici di merito sul punto che tale obbligo veniva generalmente adempiuto. L’esistenza e la procedura di trasferimento via mare e la sua costante attuazione erano state confermate – come ricorda il difensore ricorrente – nell’annotazione di p.g. operata all’esito di un’ispezione condotta sul materiale digitale contenuto nel server della società e in dotazione a M.M. Ed è stato lo stesso M.M., in più occasioni, nel corso del procedimento penale, a riconoscere di avere personalmente assunto la decisione di far viaggiare via terra i quattro tecnici il 19/07/2015, aggiungendo che era la prima volta che disponeva che i dipendenti della società effettuassero il trasporto via terra.
Come si legge a pag. 14 della sentenza impugnatagli compendio probatorio acquisito in atti, difatti, dà atto del costante rispetto delle prescrizioni richiamate, alle quali era prassi attenersi, pur in presenza di condizioni metereologiche che obbligavano a ritardare di diversi giorni la navigazione. Dalle dichiarazioni rese al P.M. dal J.J. e dal K.K., inoltre, si rileva che anche il personale della D.D., e non solo i soggetti in posizione gerarchicamente sovraordinata, cui tali comunicazioni venivano rivolte, fosse stato edotto della necessarietà di siffatta modalità di spostamento”.
Altrettanto incontestato, secondo la ricostruzione dei giudici di merito e che il M.M., fosse dotato di una valida delega da parte del consiglio di amministrazione della D.D. in tema di sicurezza dei lavoratori In Libia e che fosse soggetto sul punto dotato di autonomia di spesa, oltre che avente la necessaria professionalità per adempiere a tale compito.
È la stessa sentenza impugnata a riconoscere come la condotta del M.M., nella tragica occasione che ha innescato gli eventi di cui all’imputazione, non fosse prevedibile, da parte dei componenti del consiglio di amministrazione: “Ne deriva, anche a fronte dell’insussistenza di elementi che vadano in senso contrario a quanto fin qui esposto, che la decisione del M.M. di spostare i quattro lavoratori mediante un’autovettura sia da ritenersi frutto di una sua personale iniziativa, non concordata con alcuno, come d’altronde lo stesso ha dichiarato nel corso del giudizio di primo grado” (pag. 14 della sentenza impugnata).
5. Sul punto la Corte territoriale, nell’affermare la responsabilità ai sensi delle legge 231/2001 della D.D. s.p.a, non pare operare un corretto governo della più recente giurisprudenza di questa Corte di legittimità, che, al fine di evitare che la responsabilità dell’ente sia formalisticamente e automaticamente dedotta, in base a schemi logico-presuntivi che richiamano il paradigma della responsabilità oggettiva, dal fatto che un reato è stato commesso nell’ambito dell’organizzazione societaria, ha ancora più esplicitamente ribadito (rispetto a quanto già comunque affermato in precedenza) la necessità che l’accertamento della responsabilità dell’ente segua un percorso di natura sostanziale (lo stesso in effetti applicato dalla sentenza impugnata nella prima parte della motivazione, che ha portato all’assoluzione dei componenti del c.d.a.) che, a somiglianza di quanto accade nel campo della responsabilità delle persone fisiche e indipendentemente dalla formale presenza di un modello organizzativo efficace e correttamente implementato, accerti l’esistenza in concreto di una “colpa di organizzazione” rispetto alla quale il reato che è stato commesso si ponga in stretto ed univoco rapporto di derivazione causale. Si tratta, cioè, proprio di quegli elementi di cui, nel caso di specie, la sentenza impugnata, trattando della responsabilità delle persone fisiche, ha escluso l’esistenza.
Su questa specifica linea si è attestata anche la recentissima Sez. 4. n. 21704 del 28/03/2023, Sasil Srl., Rv. 284641, nella cui condivisibile motivazione si legge che: “La responsabilità da reato degli enti rappresenta un modello di responsabilità che, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, ha finito con il configurare un tertium genus, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza e i criteri d’imputazione oggettiva di essa (Sez. U., n. 38343 del 24.4.2014, Espenhahn, Rv. 261112). Inoltre, il legislatore ha previsto specifici criteri di imputazione di tale responsabilità, l’interesse o il vantaggio di cui all’art. 5 del D.Lgs. 231 del 2001), che sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, il secondo ha connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dall’illecito (Sez. U., n. 38343/2014, cit., Rv. 261114). Tuttavia, proprio nel caso di responsabilità degli enti ritenuta in relazione a reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, il S.C. ha precisato che la “colpa di organizzazione” deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individui i rischi e delinei le misure atte a contrastarli (Sez. U, n. 38343/2014, cit., Rv. 261113)”.
Secondo tale indirizzo ermeneutico, che il Collegio condivide appieno, per non svuotare di contenuto la previsione normativa che ha inserito nel novero di quelli che fondano una responsabilità dell’ente anche i reati colposi, posti in essere in violazione della normativa antinfortunistica (il sopra ricordato art. 25-septies del D.Lgs. 231 del 2001 a proposito del quale, riguardando reati colposi, appare eccentrico il riferimento che la Corte territoriale opera a pag. 17 al fatto che “la condotta del M.M. non si è risolta in un aggiramento subdolo e occulto delle prescrizioni del modello organizzativo, ma si è esplicitata in una violazione frontale e diretta delle prescrizioni del modello organizzativo, commessa in modo palese e non occulto” ritenuto solo il primo atto ad escludere la responsabilità dell’ente), si è peraltro chiarito, in via interpretativa, che i citati criteri di imputazione oggettiva vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all’evento, in conformità alla diversa conformazione dell’illecito, essendo possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente. A maggior ragione, vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l’ente (in motivazione, Sez. U. n. 38343 del 2014, cit.).
Apodittica, ed evidentemente viziata da una non corretta valutazione ex post, è la affermazione che si legge a pag. 17 della sentenza impugnata che il modello organizzativo di D.D. Spa “non ha superato positivamente un giudizio di idoneità ad annullare il rischio di commissione del reato presupposto nella dimensione aziendale”.
Peraltro, ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono ex se sufficienti la mancanza o inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione, per l’appunto, della “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo ed è distinta dalla colpa degli autori del reato (Sez. 4, n. 18413 del 15/2/2022, Cartotecnica Grafica Vicentina, Rv. 283247-01). Nell’affermare tale principio, peraltro, si è spiegato in motivazione (richiamando Sez. 4, n. 32899 del 8/1/2021, Castaldo, sul disastro ferroviario di Viareggio) che la struttura dell’illecito addebitato all’ente incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno la funzione di rafforzare il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito a quest’ultimo un reato commesso sì da soggetto incardinato nell’organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questa. Ciò consente di dire, dunque, che l’ente risponde per fatto proprio e che per scongiurare addebiti di responsabilità oggettiva – deve essere verificata una “colpa di organizzazione” dell’ente, dimostrandosi che non sono stati predisposti accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato.
A riscontro di un tale deficit organizzativo a consentire l’imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo e spetta all’accusa, pertanto, dimostrare l’esistenza dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell’ente e l’avere essa agito nell’interesse del secondo, previa individuazione di precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro (in motivazione, Sez. 6, n. 27735 del 18/2/2010, Scarafià, Rv. 247666).
Si tratta di un’interpretazione – che il Collegio intende ribadire – che, in sostanza, attribuisce al requisito della “colpa di organizzazione” dell’ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, cioè di elemento costitutivo del fatto tipico, integrato dalla violazione “colpevole” (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Essa va dimostrata dall’accusa e l’ente può dimostrarne l’assenza, gli elementi costitutivi dell’illecito essendo rappresentati dalla sopra descritta immedesimazione organica “rafforzata”, ma anche dalla carenza di un adeguato modello organizzativo, oltre che dal reato presupposto e dal nesso causale tra i due (in motivazione, Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022, Cartotecnica Grafica Vicentina Srl, cit.).
6. L’excursus giurisprudenziale appena effettuato rende evidente come in un caso come quello che ci occupa, al di là della mancata previsione specifica nel DVI, il modello organizzativo esistesse, fosse individuato in specifici documenti resi noti al personale, e fosse comunque atto a prevenire il tipo di rischio poi concretizzatosi a seguito dell’estemporanea iniziativa del M.M.
Quanto all’obbligo di una vigilanza costante sull’operato di quest’ultimo, su cui ha insistito la pubblica accusa, fondatamente la difesa ha opposto il rilievo che si trattava di un soggetto apicale, con autonomi poteri di gestione e di spesa, rispetto al quale i poteri di controllo societario – a mano di non voler di fatto rendere inutile la concessa delega – non possono essere gli stessi di un soggetto avente mansioni esecutive.
Contraddittorio appare l’iter argomentativo percorso dai giudici capitolini che, da un lato, sottolineano le enormi dimensioni della società di cui ci si occupa e dall’altro paiono ritenere che il c.d.a. dovesse accentrare in sé il diretto controllo, senza operare a mezzo di delegati, rispetto ai 30 Pesi in cui si trova ad operare.
Né pare comprensibile un sostanziale giudizio di idoneità del modello organizzativo predisposto da D.D. Spa, che prevedeva la disponibilità di una nave e il divieto di trasferimenti via terra da e per il cantiere di M, ritenendo, di contro, con un’affermazione che si palesa apodittica, che la società dovesse dotarsi, come si legge a pag. 18 della sentenza impugnata, di “protocolli che prevedessero una puntuale formazione del personale rispetto ai rischi esogeni ed endogeni del Paese in cui operavano”, di “sistemi di tracciamento dei spostamenti del personale da e per il sito di M” e formare “figure professionali appositamente destinate a garantire la security del personale impiegato nel sito e una specifica procedura per la prevenzione e la gestione di sequestri di persona, eventi assolutamente prevedibili e frequenti in un’area di crisi”.
La residua via percorsa dalla pubblica accusa e ritenuta dalla sentenza impugnata per ricondurre la responsabilità ex legge 231/2001 di quanto fatto dal M.M. alla società di cui era dirigente è stata quella di affermare che, in ogni caso, lo stesso ha agito nell’interesse ed al fine di realizzare un vantaggio economico per la società. Tale vantaggio economico sarebbe derivato dal rendere più velocemente disponibili i tecnici per il cantiere e, in ogni caso, nel non dover sopportare i costi economici del pernottamento in Tunisia per attendere, di lì a qualche giorno, l’arrivo della nave.
Occorre allora verificare se questo che è evidentemente un interesse della società possa essere posto a carico della stessa per l’iniziativa estemporanea di un suo dirigente presa peraltro in distonia con quelle che erano le pacifiche, conosciute e fino a quel momento dallo stesso rispettate disposizioni organizzative sul punto.
In realtà, dal tessuto motivazionale delle due sentenze di merito, non è dato di enunciare un’urgenza della società di avere a disposizione a M i tecnici poi rapiti, non essendo stato esplicitato neanche il compito che i gli stessi sarebbero stati destinati a svolgere nel cantiere.
Quanto al risparmio di alcune notti in albergo in Tunisia, a fronte peraltro di una nave già approntata di lì a qualche giorno e di un trasbordo a mezzo auto che comunque è stato pagato, se ne palesa la portata irrisoria per una società multinazionale delle dimensioni di D.D. Spa.
In proposito, va sottolineata, ancora una volta, la sporadicità della violazione delle prescrizioni impartitegli da parte del M.M.
Ciò perché costituisce ormai ius receptum nei più recenti arresti della giurisprudenza di legittimità la circostanza che i requisiti dell'”interesse” e del “vantaggio” debbano essere valutati nel contesto generale dei fatti ed in stretto collegamento con le verifiche relative alla sussistenza o meno di una “colpa di organizzazione”, dando così rilevanza anche al carattere sporadico o meno della violazione. Si legge, in particolare, in Sez. 4, n. 33976, del 30/06/2022, Cantina Sociale Bartolomeo da Breganze S.c.a.r.l., Rv. 283556, che, per quanto anche una unica e isolata violazione della norma cautelare possa fondare la responsabilità dell’ente, “il connotato della sistematicità delle violazioni ben può rilevare su un piano strettamente probatorio, quale possibile indice della sussistenza e “consistenza”, sul piano economico, del vantaggio, derivante dalla mancata previsione e/o adozione delle dovute misure di prevenzione”.
Dunque, pur in assenza di una sistematicità delle violazioni e in presenza di un vantaggio “esiguo” (ipotizzato nel caso in esame sotto il profilo del risparmio di spesa), è da approfondire il rilievo di tali connotazioni oggettive ai fini dell’addebito a carico dell’ente. E a tal fine non va trascurato il dictum di Sez. 4, n. 22256 del 03/03/2021, Canzonetti, Rv. 281276-02 che, per impedire un’automatica applicazione della norma che ne dilati a dismisura l’ambito di operatività ad ogni caso di mancata adozione di qualsivoglia misura di prevenzione, anche isolata, ha condivisibilmente affermato che l’esiguità del risparmio può rilevare per escludere il profilo dell’interesse e/o del vantaggio, e, quindi, la responsabilità dell’ente, ove la violazione si collochi in un contesto di generale osservanza da parte dell’impresa delle disposizioni in materia di sicurezza.
Peraltro, la sentenza impugnata non opera un buon governo neanche dei dieta di Sez. 4 n. 12149/2021, Rodenghi, Rv. 280877-01 quanto al collegamento finalistico tra violazione interesse dell’ente e di Sez. 3, n. 20559 del 24/03/2022, Comune di Molfetta c. Balestri, Rv. 283234-01 che ha affermato il principio che, in tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante dai reati di omicidio colposo plurimo e di lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica, il criterio di imputazione oggettiva del vantaggio societario, può sussistere anche a fronte di una singola condotta illecita, ma ha comunque posto l’accento sul fatto che il vantaggio stesso deve essere oggettivamente apprezzabile (ad esempio in termini di fatturato o di ampliamento dei settori di operatività, ed eziologicamente collegato all’attività societaria).
7. Conclusivamente la sentenza impugnata – che non si avvede che laddove venga in concreto escluso come nel caso di specie, non solo ogni profilo di responsabilità sotto forma di colpa di organizzazione a carico dell’organo gestorio ma anche il nesso di causalità con gli eventi dannosi verificatisi non può esserci alcuno spazio logico giuridico per ascrivere una responsabilità amministrativa da reato all’ente – non può che essere annullata senza rinvio D.D. Spa non può rispondere ai sensi della I. 231/2001 del comportamento del proprio dipendente M.M. – che peraltro, come detto, ha prodotto un vantaggio economico non oggettivamente apprezzabile rispetto alle dimensioni societarie – perché aveva adottato un modello di organizzazione e di gestione della sicurezza sul lavoro (art. 30, commi 3 e 4 D.Lgs. 81/2008) che, con una valutazione ex ante necessariamente correlata anche al costante rispetto fino a quel momento delle prescrizioni impartite impartire dal suo c.d.a., si era dimostrato idoneo a prevenirlo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti della Spa D.D. perché l’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies D.Lgs. 231/2001 non sussiste.
Rigetta il ricorso del Procuratore Generale.