CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 31879 depositata il 30 agosto 2022

Infortunio sul lavoro – Lavoratore privo del permesso di soggiorno – Reato di lesioni personali – Responsabilità per colpa del datore

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza emessa il 3 dicembre 2010 il Tribunale di Crema, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato A.C. responsabile dei reati di cui agli artt. 22, comma 12, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (capo A), e 590, secondo e terzo comma, cod. pen. (capo B), per avere, in data 5 giugno 2008, in qualità di legale rappresentante della E. C. Sri, occupato alle proprie dipendenze il cittadino indiano S. S. privo di permesso di soggiorno e per avere cagionato allo stesso, per colpa consistita nella violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, lesioni personali dalle quali derivava una malattia di durata superiore ai 40 giorni e l’indebolimento permanente della mano destra.

C., previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alle circostanze aggravanti di cui all’art. 590 cod. pen., era stato condannato alla pena – condizionalmente sospesa – di mesi tre, giorni dieci di reclusione ed euro 2.800,00 di multa per il reato di cui al capo A) e alla pena di mesi due di reclusione per il reato di cui al capo B), nonché al risarcimento dei danni patiti dall’INAIL, parte civile costituita, da liquidarsi in separato giudizio.

Il Tribunale aveva individuato quale profilo di colpa specifica la violazione da parte dell’imputato dell’art. 18 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, norma che pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di formazione e informazione del dipendente, obbligo considerato non adempiuto nella specie, posto che S. era risultato impiegato in nero presso l’azienda di C. da circa un mese, senza essere stato istruito in ordine ai rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa e, segnatamente, circa l’uso della macchina spaccalegna, la cui lama aveva cagionato una grave lesione al braccio del lavoratore.

Dopo il verificarsi del fatto, S. era stato accompagnato presso il Pronto soccorso dell’Ospedale di Crema da un pick-up di colore nero, immediatamente dileguatosi. Il cittadino indiano presentava una significativa ferita al braccio e i suoi indumenti erano intrisi di “residui di materiale legnoso”.

All’esito della visione dei filmati delle telecamere del presidio medico, i Carabinieri risalivano al proprietario del pick-up, risultato appartenente alla E. C. Srl, il cui titolare A.C. aveva poi ammesso di avere accompagnato la persona offesa, la quale, secondo quanto dichiarato dall’imputato, sarebbe apparsa nel piazzale della ditta provenendo dai terreni dello zio dell’imputato P. C.. Quest’ultimo, tuttavia, aveva negato di conoscere S., aggiungendo che il nipote era solito assumere saltuariamente qualche indiano.

A sua volta, la persona offesa aveva dichiarato di essere stato reclutato a lavorare presso l’azienda dell’imputato da circa un mese e che, il giorno del fatto, egli stava tagliando un pezzo di legno di grandi dimensioni avvalendosi dell’apposito macchinario, ma, nel procedere a la sistemazione del pezzo, aveva premuto inavvertitamente il pedale della macchina, provocando la discesa della lama, che gli aveva procurato lo schiacciamento della mano destra e l’amputazione di un dito.

2. La sentenza di primo grado era stata appellata dalla difesa dell’imputato, che aveva evidenziato la contraddittorietà delle dichiarazioni della persona offesa, la quale, al momento dell’ingresso in Pronto soccorso, era risultata odorare di alcool, l’assenza di testimoni a riscontro della dinamica dell’infortunio, l’inverosimiglianza della ricostruzione fornita da S., nonché la mancanza di una prova certa circa il rapporto di lavoro intercorso tra quest’ultimo e la E. C. Srl.

All’esito del giudizio di impugnazione, la Corte di appello di Brescia, con la sentenza in epigrafe, emessa il 10 luglio 2020, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di C. in ordine a entrambi i reati, per essersi i medesimi estinti per la sopravvenuta prescrizione, non accogliendo l’istanza di proscioglimento nel merito formulata dall’appellante, ha confermato le statuizioni civili e ha condannato l’imputato al pagamento delle ulteriori spese in favore della parte civile.

Quanto all’evenienza degli elementi costitutivi del primo reato, nel respingere le doglianze difensive relative alla mancata prova del rapporto di lavoro, la Corte territoriale ha affermato che la sussistenza del suddetto rapporto poteva desumersi da plurimi elementi, primo fra tutti l’essersi verificato l’infortunio all’interno dello stabilimento dell’azienda. Inoltre, sono stati evidenziati la presenza di materiale legnoso sugli indumenti di S. al momento del suo arrivo in ospedale e il rilievo che, se la persona offesa fosse veramente sbucata improvvisamente dai terreni dello zio dell’imputato, non ci sarebbero state ragioni per giustificare la fretta dell’imputato nell’abbandonare il lavoratore davanti al pronto soccorso. La Corte di appello ha valorizzato, altresì, la conversazione intercorsa tra l’imputato e lo zio P. C., nel corso della quale il primo riferiva al suo interlocutore che un indiano si era fatto male utilizzando una “taglia e spacca”. A seguito del colloquio telefonico, P. C. si era precipitato presso il Pronto soccorso, ove i parenti dell’infortunato lo avevano rassicurato circa il contenuto favorevole alla posizione di C. delle dichiarazioni rilasciate ai Carabinieri. In merito all’evenienza del secondo reato, la responsabilità per colpa del datore di lavoro nella causazione dell’infortunio patito da S. è stata ritenuta sulla base dell’emersione dell’assenza di qualsiasi formazione a cui fosse stata sottoposta la persona offesa prima dell’intrapreso svolgimento delle mansioni lavorative.

La Corte territoriale ha respinto, altresì, la doglianza che aveva lamentato il mancato rilievo dello stato di ebbrezza alcolica in cui si sarebbe trovato S. al momento del sinistro, siccome il dato era contenuto solo in un’annotazione di servizio dei Carabinieri originata da una comunicazione dei sanitari, mentre l’effettiva esistenza di un siffatto stato non aveva ricevuto conferma dalle dichiarazioni di C.V., uno dei dipendenti stabilmente incardinati nell’azienda di C..

Inoltre, i giudici di appello hanno aggiunto che, una volta assodata l’assenza della somministrazione della previa formazione a S., anche un’ipotetica disattenzione o imprudenza del lavoratore non avrebbe potuto comunque escludere la responsabilità del datore di lavoro, in questo caso del legale rappresentante della società datrice di lavoro.

3. Avverso la suddetta pronuncia ricorre per cassazione l’imputato, a mezzo del suo difensore, articolando due motivi.

3.1. Con il primo motivo si deducono la violazione degli artt. 22, comma 12, d.lgs. n. 286 del 1998 e 590 cod. pen. e il corrispondente vizio di motivazione, in relazione all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen.

3.1.1. Il ricorrente, in primo luogo, sostiene che la Corte di appello ha motivato solo apparentemente circa la sussistenza del rapporto di lavoro intercorrente tra la persona offesa e la E. C. Srl. Dalle plurime versioni fornite da S. non sarebbe dato in alcun modo ricavare la sussistenza della qualifica di datore di lavoro in capo all’imputato, in quanto S. aveva sempre dichiarato di essere stato assunto da P. C. (zio dell’imputato), in difetto di qualsivoglia richiesta dei documenti relativi alla regolarità del soggiorno, aggiungendo che da P. C. provenivano le direttive impartite per l’esecuzione della prestazione e l’erogazione del salario: pertanto, a voler ritenere credibile la persona offesa e attendibili le sue dichiarazioni, i giudici di appello avrebbero dovuto concludere che non era logicamente accettabile individuare il datore di lavoro nell’imputato.

Inoltre, il ricorrente ribadisce la maggiore razionalità della versione alternativa offerta rispetto alla ricostruzione operata dai giudici di merito: A.C. aveva accompagnato la vittima al Pronto soccorso dopo averla vista sbucare dai campi di proprietà dello zio, confinanti con lo stabilimento di proprietà del ricorrente, e successivamente aveva contattato lo zio per riferirgli della dinamica dell’incidente; in questa prospettiva si sostiene che è illogico ritenere che, se la persona offesa fosse stata realmente alle dipendenze della E. l’imputato avrebbe raccontato la dinamica dell’accaduto allo zio.

4.1.2. Quanto, poi, in ordine al secondo reato, alla rilevanza da attribuire allo stato di ebbrezza alcolica in cui, secondo il ricorrente, versava S., la motivazione della Corte, che aveva scartato la prospettiva dell’interruzione del nesso di causalità per effetto del comportamento abnorme del lavoratore, si sarebbe limitata a cercare di sminuire il peso di quanto era stato rappresentato dai sanitari e diligentemente annotato dai Carabinieri: la mancata annotazione di tale circostanza nella cartella clinica del paziente non acquisterebbe rilievo decisivo, al pari delle dichiarazioni di V.C., tacciato altrove di aver fatto affermazioni estremamente vaghe, senza ricevere domande sul punto.

Il carattere apparente della motivazione della Corte di appello è, per la difesa, reso ulteriormente palese dal riferimento a un’interpretazione superata dall’evoluzione giurisprudenziale, che invece è transitata da un modello iperprotettivo nei confronti del lavoratore a un altro improntato alla collaborazione, in cui anche a quest’ultimo viene richiesto di partecipare alla cura della propria persona.

Infine, la Corte di appello avrebbe abdicato alla diretta verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni di S., affidandola ai tecnici dell’Asl.

4.2. Con il secondo motivo, si denuncia la violazione degli artt. 82 e 523 cod. proc. pen., in relazione all’art. 606, comma 1, lett. c) ed e), cod. proc. pen.

In particolare, il ricorrente si duole del mancato accertamento dell’intervenuta revoca tacita della costituzione di parte civile dell’INAIL.

A sostegno di questa prospettazione la difesa adduce che l’ente dispone già di un giudicato civile ai fini risarcitori: in particolare, la sentenza della Corte di appello, Sezione lavoro,di Brescia, indicata nell’atto, avrebbe confermato la condanna della società di cui C. è legale rappresentante a rifondere in favore dell’istituto, allo stesso titolo, la somma di euro 259.452,62.

Atteso che la richiesta formulata nei due giudizi – civile e penale – da parte dell’INAIL era identica, non ritenere revocata ex art. 82, comma 2, cod. proc. pen., a seguito dell’emissione della sentenza irrevocabile nel giudizio civile, la costituzione di parte civile si risolve, per il ricorrente, in una duplicazione della pretesa creditoria con violazione del divieto di bis in idem e dell’art. 100 cod. proc. pen., anche per il venir meno dell’interesse ad agire dell’ente.

A ciò viene aggiunto il rilievo che anche il mancato deposito di conclusioni scritte da parte dell’INAIL avrebbe dovuto determinare la revoca tacita della sua costituzione in giudizio, in quanto, trattandosi di pretesa civilistica, sarebbe stato necessario acquisire processualmente e con stabile documentazione le precise domande del danneggiato.

In conclusione, per la difesa, la rilevazione della revoca della costituzione di parte civile avrebbe dovuto comportare la revoca delle statuizioni civili.

5. La parte civile INAIL ha depositato memoria scritta con la quale – condividendo integralmente il percorso argomentativo della Corte di appello e illustrando le ragioni della fondatezza delle conseguenti conclusioni – chiede il rigetto del ricorso dell’imputato e la sua condanna alla rifusione delle spese; conclusioni poi replicate nel corso della discussione orale.

6. Il Procuratore generale ha prospettato la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione osservando che il primo motivo ha contenuto di merito e il secondo motivo si profila manifestamente infondato, dal momento che l’azione civile che, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto comportare la revoca della costituzione della parte civile era stata proposta non contro l’imputato, ma contro la persona giuridica da questi amministrata.

Considerato in diritto

1. La Corte ritiene che la disamina delle doglianze connotanti l’impugnazione debba condurre alla conclusione del complessivo rigetto del mezzo.

2. Per quanto concerne il primo motivo, esso, nella sua essenza, consiste nella reiterazione di censure già sollevate in appello ed esaustivamente disattese dalla Corte territoriale con la sentenza impugnata: reiterazione, peraltro, operata da parte del ricorrente senza confrontarsi effettivamente con le argomentazioni spese nella decisione di secondo grado.

Sul tema, si ribadisce che è inammissibile il ricorso per cassazione che riproduce e reitera gli stessi motivi prospettati con l’atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione (Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv, 276970 – 01; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260608 – 01). In questa direzione, inoltre, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca, o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che finiscono per contestare la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747- 01).

Pertanto, restano precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601 – 01).

Nell’alveo così tracciato, si rileva che le censure mosse con il primo motivo si risolvono in meri sforzi rivalutativi di questioni su cui la Corte territoriale ha fornito risposte articolate e non illogiche.

2.1. Per ciò che concerne l’asserita insussistenza del rapporto di lavoro tra l’impresa societaria amministrata dall’imputato e la persona offesa, la Corte di appello ha fatto riferimento – oltre che ai residui di “materiale legnoso” sugli indumenti del S. – anche alle dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo e al contributo dichiarativo del teste V., dipendente dell’E. Srl.

I giudici di appello – lungi dall’appiattirsi acriticamente sulle dichiarazioni della persona offesa – ne hanno operato un’accurata valutazione, motivando le ragioni di apparente contraddittorietà nella successione delle sue affermazioni, segnalando il ragionevole timore che avvinceva S., riconnesso alla sua condizione di immigrato privo di permesso di soggiorno, e traendo dalle medesime l’essenza genuina del relativo narrato con argomentazioni esenti da vizi logici.

Sul tema, si ricorda che le regole dettate dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, con la specificazione che, laddove la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi (Sez. U., n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214 – 01; fra le successive, Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S., Rv. 275312 – 01).

Nel caso di specie, la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato con la società amministrata dall’imputato (e non con lo zio P. C.) è stata accertata anche in virtù delle convergenti dichiarazioni rilasciate dal teste V., il quale ha riferito di aver notato S. in azienda – non solo nel giorno dell’infortunio, ma – anche in precedenti occasioni, precisando, altresì, che il suddetto S. si trovava nei pressi della macchina spaccalegna proprio qualche istante prima del sinistro.

Anche tali dichiarazioni sono state oggetto di una valutazione da parte della Corte di merito scevra da vizi censurabili in questa sede: di talché mettere in discussione la sua attendibilità costituisce censura priva di pregio nell’ambito del giudizio di legittimità.

2.2. A conclusioni non dissimili deve pervenirsi per quel che concerne il profilo della colpa specifica dell’imputato e dell’eventuale interruzione del nesso di causalità conseguente a un asserito comportamento abnorme del lavoratore.

Sul punto, il ricorrente lamenta presunti passaggi motivazionali manifestamente illogici, trascurando il rilievo che la manifesta illogicità della motivazione, prevista dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., presuppone che la ricostruzione proposta da chi formula la censura, contrastante con il procedimento argomentativo recepito nella sentenza impugnata, si connoti per la sua natura chiara e inconfutabile e non rappresenti soltanto un’ipotesi alternativa a quella ritenuta in sentenza (Sez. 6, n. 2972 del 04/12/2020, dep. 2021, G., Rv. 280589 – 02).

Sull’argomento, è, del resto, fondata l’osservazione svolta nella memoria della parte civile, laddove si osserva che la ritenuta configurazione della colpa specifica in capo all’imputato espressa nella sentenza impugnata non presta il fianco a critiche, nel senso che, pur ipotizzando – per assurdo – che l’imputato non avesse occupato S. in qualità di lavoratore subordinato, l’averlo comunque addetto a qualsiasi diverso titolo alla mansione del taglio del legname, senza fornirgli alcuna formazione e/o istruzione in merito ai lavori da eseguire con l’uso della macchina “sega spaccalegna”, che fossero volti a salvaguardarne l’incolumità e la salute, determina in ogni caso la responsabilità del datore, atteso che il sistema prevenzionale tutela tutti i lavoratori, a prescindere dalla tipologia contrattuale che li lega al datore stesso, ai senso dell’art. 3 d.lgs. n. 81 del 2008.

In concreto, quindi, il legale rappresentante della società datrice di lavoro, ossia A.C., è stato, secondo la motivata conclusione dei giudici di merito, raggiunto rettamente dall’accertamento di responsabilità, nulla avendo il medesimo predisposto a protezione del lavoratore, d’altronde assunto contra legem.

Secondo il corretto riferimento operato nella contestazione, invero, l’art. 18 d.lgs. n. 81 del 2008 contempla fra gli obblighi del datore di lavoro quello, nell’affidare i compiti ai lavoratori, di tener conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza, quello di prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico, nonché quello di adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37 dello stesso d.lgs. (obblighi finalizzati ad assicurare che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza).

Per il resto, il datore di lavoro che non adempie gli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell’infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore che, nell’espletamento delle proprie mansioni, ponga in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi, né l’adempimento di tali obblighi è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore.

Per quanto attiene, poi, alla denunciata abnormità della condotta della persona offesa, i giudici del merito hanno escluso tale evenienza formulando uno scrutinio adeguato e non illogico degli elementi di prova acquisiti in merito alla mancata dimostrazione dello stato di alterazione alcolica del lavoratore.

Si considera, in premessa, che è orientamento costante dell’elaborazione giurisprudenziale, orientamento qui condiviso e riaffermato, quello secondo cui, in tema di prevenzione antinfortunistica, affinché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea a escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che essa sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 33976 del 17/03/2021, Vigo, Rv. 281748 – 01; Sez. 4, n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, Musso, Rv. 275017 – 01).

La Corte di merito ha accertato in fatto l’assenza di prova del comportamento del lavoratore eversivo del nesso causale, emergendo pure dalla sentenza emessa nel contenzioso civile, prodotta dallo stesso ricorrente per l’autosufficienza del secondo motivo, un quadro argomentativo coerente con la tesi esposta nella sentenza impugnata.

In tale cornice, la diversa valutazione del dovere di collaborazione che sussiste in capo al lavoratore nei sensi sollecitati dal ricorrente non può comportare l’interruzione del rapporto di causa ed effetto fra l’omissione integrata dal datore di lavoro e l’infortunio.

Nel caso di specie, il ruolo di causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l’evento ex art. 41, secondo comma, cod. pen. viene attributo dal ricorrente al presunto stato di ebbrezza in cui si sarebbe trovato S. al momento dei fatti.

Orbene – senza tralasciare il precedente di questa Corte, a mente del quale, in tema di infortuni sul lavoro, la circostanza che il lavoratore possa trovarsi, in via contingente, in condizioni psico-fisiche tali da non renderlo idoneo a svolgere i compiti assegnati è evenienza prevedibile, che, come tale, non elide il nesso causale tra la condotta antidoverosa del datore di lavoro e l’infortunio occorso. (Sez. 4, n. 38129 del 13/06/2013, De Luca, Rv. 256417 – 01) – deve evidenziarsi in via dirimente che i giudici di appello hanno escluso l’avvenuta dimostrazione dell’addotto stato di ebbrezza del lavoratore.

E l’esclusione dello stato di ebbrezza alcolica costituisce l’esito di giudizio di fatto condotto dalla Corte di appello sulla base delle dichiarazioni del teste V. che si trovava a contatto con la persona offesa il giorno nei fatti, a loro volta ritenute suffragate sul piano logico dall’assenza di una qualche forma di annotazione di tale condizione nella cartella clinica formata dai medici il giorno del ricovero di S..

Dinanzi a tale conclusione, pienamente rientrante nel sindacato del giudice di merito, le doglianze del ricorrente si rivelano prive di pregio, in quanto mirano ad attivare un potere rivalutativo – e conseguentemente una sostanziale rilettura dei fatti – il cui esercizio è precluso alla Corte di legittimità in assenza dei presupposti richiesti dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., insussistenti nel presente caso.

3. Per quanto riguarda il secondo motivo, con cui il ricorrente lamenta il mancato accertamento dell’intervenuta revoca tacita della costituzione di parte civile dell’INAIL, sia in ragione dell’omesso deposito di conclusioni scritte in appello, sia perché l’ente – dopo aver beneficato in primo grado di una condanna generica al risarcimento del danno in suo favore – avrebbe agito dinanzi al giudice civile per ottenere una pronuncia sul quantum, si rileva che l’INAIL risulta avere comunque concluso nel giudizio di appello e che C. ha prodotto nel corso del giudizio di merito copia della sentenza n. 67/2015 con cui la Corte di appello, Sezione Lavoro, di Brescia ha condannato (non l’imputato, bensì) la E. C. Srl a rifondere all’INAIL le prestazioni di legge erogate in favore del lavoratore, in misura pari a euro 259.452,62, oltre spese di lite.

3.1. Va, innanzi tutto, considerata infondata la prima censura relativa al mancato deposito delle conclusioni scritte, posto che si considera che non configura l’ipotesi di revoca tacita della costituzione di parte civile per mancata presentazione delle conclusioni, allorché la parte stessa, in particolare nel giudizio di appello, concluda e si richiami alle conclusioni presentate all’atto della costituzione oppure quando siano verbalizzate le richieste orali relative al risarcimento del danno, alla concessione di provvisionale e alla rifusione delle spese (Sez. 5, n. 29675 del 2/5/2016, Carbonelli, Rv. 267385 – 01; Sez. 5, n. 35922 del 29/4/2016, Borghi, Rv. 267769 – 01; Sez. 1, n. 12550 del 12/03/2015, Fusser, Rv. 262299 – 01; non diversamente si trae dalla motivazione di Sez. 1, n. 19380 del 25 1 11/2016, dep. 2017, Casadei, Rv. 270260 – 01, che ha annesso significato di revoca tacita della costituzione di parte civile alla mancata presentazione delle conclusioni scritte nel giudizio di primo grado: dall’esame della relativa motivazione di trae la ratio dell’art. 82, comma 2, cod. proc. pen., giacché, in quel caso, era mancata, fin dal primo grado, la precisazione delle conclusioni, essendo risultata in quella fase assente la parte civile, laddove nel processo qui esaminato la difesa dell’INAIL, parte civile, ha partecipato alla discussione in appello e soltanto ha preferito concludere oralmente, comunque articolando specificamente le sue istanze).

3.2. In ordine alla seconda censura, il ricorrente omette di considerare, in via assorbente, che l’INAIL si è costituito parte civile nel processo penale – che è a carico di A.C. e in cui la E. Sri non è stata chiamata quale responsabile civile – mediante l’esercizio del diritto di regresso scaturito dall’avere erogato a S. le prestazioni assistenziali di istituto: e, per tale causa petendi, l’ente aveva titolo a proporre l’azione, dovendo ribadirsi che, in ipotesi di esercizio dell’azione penale per i reati di omicidio colposo e lesioni colpose commessi con violazione delle norme antinfortunistiche, l’INAIL è legittimato a costituirsi parte civile e ad esercitare nel procedimento penale l’azione di regresso nei confronti del datore di lavoro eventualmente imputato, la sua legittimazione discendendo dall’art. 2 della legge 3 agosto 2007, n. 123, confermato dall’art. 61 d.lgs. n. 81 del 2008, che ha imposto al pubblico ministero di informare a tal fine l’INAIL dell”avvenuto esercizio dell’azione penale per i reati menzionati (Sez. 4, n. 36024 del 03/06/2015, P.C., Rv. 264409 – 01).

La proposizione dell’azione civile tesa al risarcimento del danno differenziale non ha determinato la revoca tacita della costituzione di parte civile, dovendo al riguardo rilevarsi che l’azione tesa al risarcimento del danno differenziale è stata esperita dall’istituto nei confronti – non dell’imputato, ma – della società datrice di lavoro, ossia la E. Srl. In tale quadro, resta dirimente l’argomento evidenziato in modo specifico dalla Corte territoriale: la diversità delle parti convenute nelle due azioni civili, quella introdotta nel processo penale e quella proposta in sede civile, esclude la possibilità di applicare l’art. 82, comma 2, cod. proc. pen., posto che la revoca della costituzione di parte civile, prevista per il caso in cui l’azione venga promossa anche davanti al giudice civile, si verifica solo quando sussiste coincidenza fra le due domande ed è finalizzata ad escludere la duplicazione dei giudizi (Sez. 5, n. 21672 del 16/02/2018, Di Ciano, Rv. 273027 – 01; Sez. 4, n. 3454 del 19/12/2014, dep. 2015, Di Stefano, Rv. 261950 – 01; Sez. 2, n. 62 del 16/12/2009, dep. 2010, La Spina Rv. 246266 – 01).

Questo principio – per quello che primariamente qui rileva – deve applicarsi considerando che la domanda si identifica per petitum, causa petendi e anche personae. Per tale ragione, la revoca della costituzione di parte civile, prevista per il caso in cui l’azione venga promossa anche davanti al giudice civile, trova applicazione solo quando sussiste una compiuta coincidenza fra le due domande, essendo finalizzata ad escludere la duplicazione dei giudizi (Sez. 4, n. 21588 del 23/03/2007, Margani, Rv. 236722 – 01, in fattispecie relativa a colpa medica, in cui si è ritenuto che l’azione proposta in sede civile contro l’azienda ospedaliera non rappresentasse una duplicazione di giudizio rispetto alla costituzione in sede penale contro il sanitario imputato).

In effetti, resta rimesso alla libera valutazione della parte danneggiata – e del soggetto che, avendola indennizzata, agisce in via di regresso – la scelta di estendere l’azione civile esercitata nella sede penale anche al responsabile civile, ovvero di esercitare autonomamente l’azione nei confronti dello stesso responsabile promuovendo un autonomo giudizio civile. Al riguardo, l’art. 75 cod. proc. pen. prevede la sospensione del processo civile avviato nei confronti dell’imputato successivamente alla costituzione di parte civile, mentre nulla dispone per il caso in cui l’azione civile sia esercitata nei riguardi del responsabile civile. In corrispondenza, gli artt. 80 e 81 cod. proc. pen. nen prevedono che la parte civile debba essere estromessa dal giudizio penale nel caso in cui sia stato promosso un autonomo giudizio nella sede civile contro il responsabile civile.

Occorre, pertanto, in consonanza con tali rilievi, riaffermare il principio di diritto secondo cui la revoca della costituzione di parte civile, prevista dall’art. 82, comma 2, cod. proc. pen. per il caso in cui la parte civile promuove l’azione civile davanti al giudice civile, trova applicazione esclusivamente quando sussiste una piena coincidenza fra le due domande, attesa la precisata funzione della norma di evitare una duplicazione della medesima azione, applicazione da escludere quante volte l’impropria duplicazione dei giudizi non sia configurabile (in tal senso di recente anche Sez. 5, n. 15463 del 23/02/2021, Bossio, Rv. 280899 – 01, non massimata sul punto).

3.3. Per il resto e per ciò che rileva in questa sede, l’obbligato non può paventare alcuna duplicazione risarcitoria: la parte civile in questo processo tutela l’affermato diritto al risarcimento dei danni in via generica nei confronti di A.C., mentre il risarcimento del danno liquidato in suo favore, in sede di regresso, inerisce alla sfera debitoria della società datrice di lavoro.

Ciò, ovviamente, non toglie che, se e quando l’INAIL, ove la condanna generica passasse in giudicato, iniziasse l’azione per la quantificazione dei danni nei confronti di A.C., questi potrà eccepire i titoli di già avvenuto ristoro in favore dell’istituto da parte della società da lui rappresentata.

In altri termini, al creditore non può essere impedito d procurarsi il titolo esecutivo nei confronti di ciascuno dei coobbligati, anche se sono tali per titolo diverso, salva – naturalmente – la conseguenza estintiva, in parte o in toto, dell’obbligazione che il pagamento effettuato da uno dei condebitori determina.

Tale ultimo effetto, però, non rileva nella rispettiva sede cognitiva.

L’ordinamento – in particolare, all’art. 1306 cod. civ. – contempla espressamente e disciplina l’ordinaria possibilità, del resto insita nella natura del diritto soggettivo al risarcimento del danno maturato in capo al danneggiato e, per l’effetto, del diritto di regresso dell’assicuratore pubblico di munirsi di titolo esecutivo nei confronti di ciascun coobbligato solidale. Sussiste, pertanto, l’interesse del creditore a conseguire l’accertamento della responsabilità e la condanna al pagamento nei confronti di ciascun creditore, non necessariamente nel medesimo processo, fermi restando gli effetti liberatori generati dall’adempimento totale o parziale da parte di uno dei debitori.

In questa prospettiva, si è precisato che, in tema di obbligazioni solidali passive, per le quali costituisce regola fondamentale che tutti i debitori siano tenuti ad un medesima prestazione in modo che l’adempimento di uno libera tutti i coobbligati (art. 1292 cod. civ.)„ l’avvenuto pagamento determina l’estinzione ipso iure del debito anche nei confronti di tutti gli altri coobbligati; e questo effetto estintivo, rilevabile e deducibile anche in sede di legittimità – atteso che l’eccezione di pagamento integra una mera difesa della quale il giudice deve tenere conto ove essa risulti comunque provata, anche in mancanza di un’espressa richiesta in tal senso – opera anche nei confronti del coobbligato che non si sia avvalso della facoltà di invocare, in altro giudizio di merito, l’estensione ex art. 1306 cod. civ. del giudicato già conseguito da un diverso debitore solidale (Cass. civ., Sez. 6 – 1, Ord., n. 11051 del 02/07/2012, Rv. 623192 – 01; Sez. L, n. 11039 del 12/05/2006, Rv. 589065 – 01).

Le svolte considerazioni impongono, quindi, di ritenere infondato il secondo motivo.

4. In conclusione, l’impugnazione deve essere, nel suo complesso, rigettata, restando intatta l’accertata responsabilità civile dell’imputato.

Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

5. L’illustrato approdo determina la conseguenza che – quanto al regolamento delle spese del grado relativo alla posizione della parte civile INAIL, che ha svolto attività processuale in questa sede – le stesse vadano poste a carico del ricorrente, anche qui soccombente rispetto all’azione civile dalla suddetta parte proposta nei suoi confronti.

Tali spese sono da liquidarsi nell’opportuna misura, relativa ai compensi professionali, di euro 4.000,00, quantificazione equamente effettuata, ex artt. 12 e 16 d.m. 10 marzo 2014, n. 55, come modificato dal d.m. 8 marzo 2018, n. 37, tenuto conto dell’attività svolta e delle questioni trattate dalla parte. Ai suddetti compensi professionali va aggiunto il rimborso delle spese forfettarie nella – giusta – misura del 15%, oltre all’IVA e al contributo per la Cassa Previdenziale, da computarsi sull’imponibile.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Condanna, inoltre, il ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile INAIL, che liquida in complessivi euro 4.000,00, oltre accessori di legge.