CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 31966 depositata il 13 novembre 2020
Reati tributari – Frode fiscale – Emissione ed annotazione di fatture per operazioni inesistenti – Impugnazione provvedimento di misura cautelare degli arresti domiciliari – Ricorso in cassazione – Rinuncia – Rilascio in libertà – Carenza d’interesse sopravvenuta per causa non imputabile al ricorrente
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 13/07/2020, il Tribunale di Milano confermava l’ordinanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Monza in data 18/06/2020, con la quale era stata applicata a M.S.L., indagato, in relazione ai reati di associazione per delinquere e fraudolente dichiarazioni fiscali (artt. 416 cod.pen.-capo 1), 110, 81 cpv cod.pen., 2, 8 d.lgs 74/2000-capi 2,3,4) – la misura cautelare degli arresti domiciliari, ritenuta sussistente la gravità indiziaria dei reati contestati ed il pericolo di recidiva.
Secondo le imputazioni, il M. e gli altri coimputati, si associavano allo scopo di commettere più delitti di frode fiscale – mediante emissione ed annotazione di fatture per operazioni inesistenti finalizzate all’evasione dell’imposta sui redditi e sul valore aggiunto da parte del Consorzio Giunone (rappresentato o gestito di fatto da altri coimputati) -, costituendo e gestendo un complesso di società cooperative (consorziate e non al predetto Consorzio e di fatto gestite dagli amministratori di fatto del Consorzio), alle quali il Consorzio G. affidava formalmente in sub-appalto il lavoro oggetto di contratti di prestazione di appalto di manodopera stipulati con società clienti; le società cooperative, enti privi di consistenza imprenditoriale, emettevano le relative fatture nei confronti del Consorzio, che, di fatto, provvedeva all’esecuzione dei contratti con mezzi e personale direttamente riconducibili al Consorzio stesso; successivamente le società cooperative annotavano fatture per operazioni inesistenti emesse da ulteriori società prive di reale consistenza imprenditoriale (le cd cartiere: Mari Services soc.coop ed Ecu Service soc.coop), così abbattendo il reddito imponibile e traslando parte del debito IVA in capo a queste ultime, evasori totali; le società cartiere, evasori totali, venivano, infine, drenate di liquidità e destinate a rimanere insolventi rispetto all’ingente debito IVA accumulato.
Il ruolo di partecipazione del M. all’associazione criminosa ed il concorso nei reati-fine tributari consisteva, secondo le imputazioni provvisorie, nella prestazione delle proprie competenze di dottore commercialista, in qualità di tenutario delle scritture contabili ed incaricato degli adempimenti fiscali del Consorzio Giunone e delle società cooperative che partecipavano al meccanismo fraudolento.
2. Avverso tale ordinanza ha proposto due distinti ricorsi per cassazione M.S.L., a mezzo dei difensori di fiducia, chiedendone l’annullamento ed articolando i motivi di seguito enunciati.
Con il ricorso proposto a mezzo dell’avv. R.M. propone un unico complesso motivo, con il quale deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza con riferimento alla partecipazione dolosa nella commissione del reato.
Argomenta che gli elementi documentali e dichiarativi richiamati nei motivi di riesame dimostravano come il M. non avesse mai anche solo sospettato dell’esistenza di condotte irregolari, poste in essere dai gestori del Consorzio e delle singole società cooperative, né dell’esistenza della presunta associazione criminosa.
Il Tribunale del riesame aveva, tuttavia, confermato l’ordinanza genetica, incorrendo in plurime violazioni di legge e vizi motivazionali, in quanto aveva erroneamente applicato la disciplina sul concorso di persone nel reato doloso di cui all’art. 110 cod.pen., non si era confrontato con le specifiche censure difensive, aveva prospettato conclusioni congetturali ed adottato argomentazioni illogiche perché contrarie alle comuni massime di esperienza.
Quanto al primo aspetto, argomenta che il concorso del professionista nel reato commesso da altri presenta aspetti problematici in ragione della possibile sovrapponibilità tra attività lecita ed attività illecita in quanto funzionale alla commissione di un reato e normalmente manifestata attraverso l’uso distorto delle conoscenze specialistiche di cui il professionista dispone; secondo la giurisprudenza di legittimità il distinguo tra attività lecita ed attività penalmente rilevante è affidato a due elementi: la consapevolezza da parte del professionista del proposito criminoso del soggetto attivo e l’efficienza causale della propria attività di consulenza; inoltre, in caso di reato associativo, la condotta del professionista può integrare la partecipazione all’associazione (o il concorso esterno) solo quando fornisca una consulenza extra legem. Nella specie, il Tribunale aveva erroneamente fondato la responsabilità del M. su una condotta colposa, avendogli addebitato di non aver posto in essere una condotta sufficientemente diligente al fine di rendersi conto della inesistenza delle cooperative consorziate e dei reati tributari di cui all’art. 2 d.lgs 74/200; la motivazione era, poi, viziata nella parte in cui aveva affermato che il ricorrente “non poteva non sapere della commissione di fatti criminosi” e della inesistenza delle società cooperative; gli elementi indiziari richiamati dal Tribunale, inoltre, non erano gravi precisi ed univoci e, quindi, non idonei ad integrare la prova della consapevolezza; si era verificato un travisamento della prova con riferimento alla presunta consapevolezza del ricorrente dell’utilizzo di fatture oggettivamente inesistenti emesse dalle due società cartiere, non avendo il predetto mai seguito professionalmente le predette società; ancora, il Tribunale aveva illogicamente dato rilievo al bilancio provvisorio del 2013 della U.W. e non a quello definitivo, che comprovava come quest’ultimo fosse frutto di un aggiornamento della contabilità; anche la mancata sottoscrizione di detto bilancio da parte del legale rappresentante della U.W. e la stipula di una fideiussione da parte della predetta erano elementi valutati dal Tribunale con motivazione carente ed illogica; infine, anche gli ulteriori elemento valorizzati (le proteste dei dipendenti di una delle società cartiere per il mancato pagamento degli stipendi, le mail delle collaboratrici del ricorrente, i rapporti tra lo studio del ricorrente e quello del consulente del lavoro dott. F.).
Con il ricorso proposto a mezzo dell’avv. L.R. propone tre motivi.
Con il primo motivo deduce violazione degli artt. 416 cod.pen. e 2 d.lgs 74/2000 e correlato vizio di motivazione.
Argomenta che tutto il ragionamento posto in essere dai Giudici della cautela a fondamento della ritenuta gravità indiziaria si propone come congetturale, frutto di sospetti, intuizioni, opinioni personali meramente ipotetiche, mai corroborato da elementi indiziari oggettivamente accertati e costituiti da dati ontologicamente certi.
Con il secondo motivo deduce violazione degli artt. 125, comma 3, 274, comma 1 lett. c) cod.proc.pen. e correlato vizio di motivazione.
Lamenta che il Tribunale aveva obliterato la valutazione di concretezza ed attualità del pericolo di reiterazione criminosa, fondando il proprio giudizio su elementi congetturali, senza considerare che i fatti contestai risalivano ad oltre cinque anni orsono e che il ricorrente non aveva più avuto rapporti professionali con il Consorzio e con le cooperative consorziate; inoltre, il Tribunale aveva erroneamente attribuito valore ai fini del giudizio prognostico ad una sentenza di patteggiamento per fatti accaduti nel 2005, la cui pena era stata interamente condonata; infine, le argomentazioni esposte in ordine al profitto che sarebbe stato lucrato dal ricorrente erano illogiche ed infondate dal punto di vista giuridico.
Con il terzo motivo deduce violazione degli artt. 125, comma 3, 275, commi 1 e 2 cod.proc.pen. e correlato vizio di motivazione.
Espone che il Tribunale aveva espresso una motivazione apparente in ordine alla adeguatezza e proporzionalità della misura applicata, in quanto basata su considerazioni personali.
Considerato in diritto
1. I difensori del ricorrente hanno depositato in Cancelleria atto del 01/10/2020 di rinuncia al proposto ricorso per cassazione, ai sensi dell’articolo 589 comma 2 cod. proc. pen., sottoscritto personalmente dal ricorrente, evidenziando anche che, nelle more del procedimento, l’indagato era stato posto in libertà.
2. Tale rinuncia ha natura di atto negoziale processuale abdicativo, irrevocabile e recettizio, e da esso discende l’effetto della inammissibilità dell’impugnazione.
I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibili ai sensi dell’articolo 591 lett. d) cod. proc. pen.
3. In considerazione della circostanza che la rinuncia ai ricorsi è stata determinata da carenza d’interesse sopravvenuta per causa non imputabile al ricorrente, non va adottata alcuna statuizione sulle spese processuali e sulla condanna al pagamento di una somma a favore della Cassa delle Ammende (Sez.3, n.8025 del 25/01/2012, Rv.252910; Sez.3,n. 10963 del 2019, non mass.).
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi.
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