Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 32018 depositata il 18 luglio 2019
Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte – Profitto sequestrabile – Solo la garanzia sottratta all’Erario – reato di bancarotta fraudolenta distrattiva
Massima
Nella fase di una inchiesta per sottrazione fraudolenta per omesso pagamento delle imposte è sequestrabile solo il profitto del reato che non è identificabile con l’intera imposta evasa ma solo con la garanzia patrimoniale tolta all’Erario, in questo caso il frutto del reinvestimento di immobili comprati a dispetto del debito con l’amministrazione.
RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento impugnato, il Tribunale del Riesame di Bologna, in parziale riforma del decreto di convalida del GIP del medesimo Tribunale, emesso in data 27/12/2018 in relazione a due sequestri preventivi d’urgenza del pubblico ministero presso la Procura del Tribunale di Bologna, datati rispettivamente 17/12/2018 e 19/12/2018, ha confermato detto provvedimento di convalida limitatamente ad alcuni dei beni inizialmente posti sotto vincolo cautelare reale, annullandolo in relazione ad altri beni.
Il procedimento penale di riferimento verte su di una complessa vicenda di reati di bancarotta (capi da B a J) e fiscali di sottrazione al pagamento delle imposte (capo A), che vede coinvolti i coniugi M.-L., i quali, dal 2001 al 2018, hanno gestito una nota pizzeria bolognese (denominata (omissis)) attraverso una serie di società operanti in successione tra loro secondo uno schema illegale che vedeva ciascuna, nel corso degli anni, non versare al fisco quanto dovuto e, prima che l’accertamento tributario potesse diventare esecutivo, si completava con il trasferimento dell’azienda-pizzeria ad altra società, mentre la precedente, indebitata gravemente, finiva in decozione, svuotata del ramo d’azienda produttivo e di danaro dalle casse sociali.
Il medesimo meccanismo fraudolento è stato contestato anche in relazione ad altra pizzeria di proprietà del M. e dei suoi familiari, denominata (omissis), sottratta alla società (omissis) s.r.l., destinata al fallimento, e ceduta alla R. s.r.l. ad un prezzo irrisorio pari a 15.000 Euro (capo J).
I reati di bancarotta pure contestati al M. ed alla moglie L.M., taluni in concorso con i soggetti di volta in volta coinvolti quali soci amministratori delle diverse società utilizzate per la gestione fraudolenta dell’azienda denominata “(omissis)”, quasi tutti componenti del nucleo familiare, attengono a tali società, talune delle quali già fallite (la (omissis) s.r.l.; la (omissis) s.r.l.), altre fallende (la (omissis) s.r.l.; la (omissis) s.r.l.), poiché nei loro confronti è stata proposta istanza di fallimento.
Il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, previsto dal capo A della imputazione, attiene al compimento di atti fraudolenti e alienazioni simulate aventi ad oggetto la azienda pizzeria e i proventi della relativa attività – al netto delle competenze regolarmente pagate ai fornitori – con conseguente lievitazione dei debiti verso l’Erario, per la rilevante somma complessiva, in relazione a tutte le società predette, di 1.093.961 Euro, costituenti “risparmi di spesa” che sarebbero stati utilizzati (secondo l’impostazione seguita dal p.m. nella contestazione del capo A relativo ai reati fiscali, avallata dalle motivazioni dei provvedimenti del GIP e del Riesame) per investimenti immobiliari personali della L.M., moglie del M., piuttosto che destinati, appunto, al pagamento delle imposte.
Il Riesame di Bologna ha ritenuto sussistente il fumus boni iuris sia del reato fiscale di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11 (il capo A contestato in concorso ai due coniugi predetti ed alla sorella ed alla madre del M. – rispettivamente le coindagate M.G. e C.A.M. -, amministratrici nel corso degli anni delle società (omissis), (omissis) e R.); sia delle numerose bancarotte contestate in concorso tra loro ai due coniugi (capi B, E, F, G, H), ovvero in concorso tra loro e la sorella e la madre del M. (capi D e J), ovvero in concorso tra loro e altro coindagato – I.F. – anch’egli amministratore della società (omissis) per un determinato periodo (capo F); ovvero ancora al solo M. (capo C).
Egualmente il Tribunale del Riesame ha ritenuto sussistente il periculum in mora di protrazione o aggravamento dei reati commessi dagli indagati, mediante quella che definisce la gestione disinvolta dell’azienda in vent’anni di vita, se essi fossero lasciati ancora operare nelle società sottoposte a sequestro.
Il sequestro era stato convalidato dal GIP per le quote di tutte le società oggetto del provvedimento cautelare d’urgenza del pubblico ministero ed anche in relazione a tredici immobili di proprietà della L., acquistati – secondo l’ipotesi d’accusa tra il 2003 ed il 2017 con il profitto del reato di sottrazione al pagamento delle imposte e con i proventi (non ancora quantificati specificamente nell’imputazione provvisoria) dei reati di bancarotta, indicati nel decreto di sequestro d’urgenza del p.m. datato 17.12.2018; era stato convalidato, altresì, anche il sequestro dei conti correnti delle suddette società e di quelli intestati sempre alla L. fino al valore di 90.000 Euro.
Il Tribunale del Riesame, esaminato il vincolo di pertinenzialità dei beni ai reati, ha ritenuto di confermare solo parzialmente il decreto di convalida del GIP di Bologna relativamente a:
– 100% delle quote delle società R. s.r.l., (omissis) s.r.l. e (omissis) s.r.l.,
– somma di Euro 90.000 di cui al decreto di sequestro del p.m. in data 19/12/2018;
– alcuni dei tredici immobili già in sequestro (con decreto del p.m. datato 17.12.2018) e precisamente quello sito in (omissis), acquistato in data 4.8.2016 al prezzo di 300.000 Euro; quello sito in (omissis), acquistato in data 15.12.2017 al prezzo di 100.000 Euro; quello sito in (omissis), acquistato in data 20.11.2017 al prezzo di 270.000 Euro.
Il provvedimento cautelare è stato, invece, annullato nella parte relativa a tutti gli altri immobili sequestrati, diversi da quelli sopradetti (ed indicati ai numeri 6, 7, 8, 13 del citato decreto 17.12.2018 del p.m.), che sono stati restituiti all’avente diritto L.M., stante l’immediata cessazione del vincolo reale.
In estrema sintesi, il Riesame ha ritenuto sussistente il legame temporale-pertinenziale tra l’acquisto degli immobili ed i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11 e di bancarotta unicamente per gli anni dal 2010 in poi, poiché solo dal 21.1.2010 si era configurato il primo dei reati di bancarotta (quello relativo alla (omissis) s.r.l.), mentre i reati fiscali erano riferiti agli anni dal 2013 al 2018, essendo le precedenti condotte in ogni caso prescritte.
Viceversa, tutti gli immobili acquistati prima del 21.1.2010 (dal 2003 a tale data) sono stati ritenuti non collegabili da vincolo di pertinenzialità e frutto di acquisto verosimilmente lecito.
Inoltre, altri immobili sono stati dissequestrati in considerazione della plausibilità dell’ipotesi difensiva del loro acquisto lecito tramite l’utilizzo di alcune elargizioni di danaro che la L. aveva ricevuto dal padre per valori consistenti e precisamente per l’importo di 499.000 Euro nel 2012 (mentre nessun rilievo viene conferito dal Riesame ad un altro bonifico di 520.000 Euro, pure addotto dalla difesa, effettuato a favore della indagata il 22.5.2018 sempre da parte del padre, poiché non vi sono acquisti immobiliari successivi a tale data): gli immobili dissequestrati per tale ragione sono una cantina sita in (omissis) acquistata nel 2014; alcuni uffici a (omissis) ed una abitazione sita in (omissis) acquistati nel 2015, per un totale di 360.000 Euro.
La somma residua viene ritenuta dal Riesame utilizzata per la vita personale del nucleo familiare, nei quattro anni che vanno dal 2012 al 2015, poiché la L. risulta non in possesso di altri redditi e si dà atto che non è stata fornita documentazione né dei presunti canoni di locazione degli immobili percepiti, né della somma mensile di 3.000 Euro a titolo di assegno di mantenimento per i figli da parte dell’ex-coniuge della donna.
2. Avverso il provvedimento del Tribunale del Riesame di Bologna ricorrono sia il pubblico ministero presso la Procura di Bologna che gli indagati L.M., M.S., C.A.M. e M.G..
3. Il ricorso del pubblico ministero chiede l’annullamento dell’ordinanza impugnata, nella parte in cui ha annullato il decreto di convalida del GIP in relazione a taluni degli immobili, e si incentra su due motivi.
3.1. Con il primo si deduce violazione di legge in relazione all’art. 325 c.p.p., comma 1, e art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), per vizio radicale di motivazione, priva dei requisiti di coerenza, completezza e ragionevolezza.
La motivazione sarebbe del tutto illogica là dove ritiene mancante il vincolo di pertinenzialità ai reati di bancarotta in relazione agli immobili acquistati antecedentemente alla data del fallimento della prima delle società coinvolte nel meccanismo fraudolento contestato agli indagati.
Ciò perché il reato di bancarotta consta di condotte depauperative che necessariamente devono essere state commesse in epoca precedente al fallimento della società cui si riferiscono e, pertanto, l’unico riferimento temporale da valutare ai fini della sussistenza del nesso pertinenziale del profitto del reato è quello del tempo in cui sono avvenute materialmente le distrazioni. A ragionare diversamente, si negherebbe in radice la possibilità che il reato stesso di bancarotta possa produrre profitto sequestrabile, legittimando di conseguenza tutti gli illeciti arricchimenti conseguiti dagli indagati proprio con le somme distratte dal patrimonio dell’impresa.
L’opzione interpretativa proposta dal pubblico ministero sarebbe anche – come si deduce nel ricorso – la più coerente con la nuova impostazione adottata da recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la dichiarazione di fallimento costituisce condizione obiettiva di punibilità (si citano le sentenze Sez. 5, n. 13910 del 8/2/2017, Santoro, Rv. 269388 e Sez. U, n. 22474 del 31/3/2016, Passarelli, Rv. 266804: sulla base di quest’ultima pronuncia la condotta di bancarotta fraudolenta si perfeziona con la distrazione ed è la sola punibilità ad essere subordinata alla dichiarazione di fallimento: sicché i fatti di distrazione assumono rilievo in qualsiasi tempo siano stati commessi).
Anche la sentenza citata dalla difesa nel procedimento – Sez. 5, n. 52251 del 30/10/2014 – confermerebbe l’assunto secondo cui il sequestro preventivo può colpire le somme o i beni distratti all’azienda poi fallita in epoca necessariamente antecedente al fallimento.
Infine, anche le Sezioni Unite relative alla nozione di “profitto funzionale alla confisca” condurrebbero al risultato auspicato dal ricorso del pubblico ministero, essendo stato affermato che in esso vanno ricompresi non soltanto i beni appresi per effetto diretto e immediato dell’illecito ma anche ogni altra utilità che l’autore del reato realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa (il riferimento è alle pronunce Sez. U, n. 2014 del 30/1/2014, Gubert, Rv. 258648 e Sez. U, n. 38343 del 24/4/2014, Espenhahn, Rv. 261116).
3.2. Il secondo motivo di ricorso attiene ad una circostanza di fatto della quale il Riesame non ha tenuto conto: gli immobili dissequestrati sono stati tutti acquistati accendendo contestuali mutui ipotecari, con scadenze ben oltre la data del fallimento della prima società; il mutuo più risalente è infatti scaduto nel marzo del 2018 ed è l’unico estinto alla data odierna. Si è anche prospettato uno specchietto riassuntivo degli immobili con i relativi mutui di finanziamento.
L’errore in cui sarebbe incorso il provvedimento del Riesame di Bologna attiene al fatto che avrebbe considerato direttamente gli immobili della L. come oggetto delle imputazioni di bancarotta fraudolenta per distrazione, mentre la contestazione ha ad oggetto le somme di danaro utilizzate dall’indagata per pagare le rate periodiche dei mutui accesi al fine di acquistare i predetti immobili, con la conseguenza che risultano ancora in essere mutui collegati ad investimenti immobiliari effettuati in epoca antecedente al 21.1.2010, i quali, per tale ragione, andavano quindi ritenuti legati ai reati da nesso di pertinenzialità oggettiva e temporale.
4. Propongono ricorso anche gli indagati L.M., M.S., C.A.M. e M.G. deducendo quattro motivi di ricorso.
4.1. Con il primo motivo si argomenta violazione di legge in relazione all’art. 321 c.p.p. ed al rapporto di pertinenzialità dei beni rimasti in sequestro dopo il parziale annullamento da parte del Riesame di Bologna con l’ordinanza impugnata.
Il sequestro preventivo non può colpire beni o quote societarie degli indagati, in maniera indistinta e generica, ma solo cespiti che abbiano un rapporto di pertinenzialità con il reato contestato e che costituiscano il profitto di diretta derivazione causale dall’attività illecita del reo ovvero il suo prodotto, sicché applicare il sequestro preventivo sulla base di mere presunzioni di coincidenza temporale degli acquisti degli immobili con la commissione dei reati rappresenta una evidente violazione della disposizione di cui all’art. 321 c.p.p..
Il Riesame, inoltre, pur dando atto della ingente elargizione ricevuta dalla L. da parte del padre, pari a 499.000 Euro, ha ritenuto la somma lecitamente ricevuta sufficiente a coprire solo gli acquisti immobiliari (dei quali si è già specificamente detto, n.d.r.) riportati a pag. 13 dell’ordinanza, come se essi fossero stati pagati in contanti (per l’importo complessivo di 360.000 Euro), dimenticando che tutti gli immobili sono stati acquistati accendendo mutui ipotecari e dando in acconto solo una parte minimale del prezzo: tutti gli acconti, peraltro, sono ricomprendibili nel bonifico di 499.000 Euro, regalo del padre dell’indagata.
4.2. Il secondo motivo deduce radicale vizio di motivazione, mancante o meramente apparente, tale da configurare violazione di legge.
Le argomentazioni dell’ordinanza impugnata sarebbero del tutto insufficienti sia a coprire il tema della pertinenzialità, per come dedotto nel primo motivo, sia a superare l’obiezione difensiva sulla erronea assenza di redditi attribuiti alla L., laddove invece risulta in atti provato che la stessa ha ricevuto dal ricco padre negli anni 2012 e 2018 bonifici per oltre un milione di Euro; che ella riceve dall’ex-marito 3.000 Euro mensili quale assegno di separazione e che ella, infine, percepisce redditi dagli affitti degli immobili stessi.
4.3. Il terzo motivo deduce violazione dell’art. 321 c.p.p. per l’assenza del periculum in mora e vizio totale di motivazione, del tutto carente.
La motivazione relativa al fatto che attraverso la disponibilità degli immobili vengano a protrarsi le conseguenze dei reati è apparente e consegnata a una breve frase di stile;
si omette il riferimento necessario alla “concretezza” ed alla “attualità” del pericolo stesso.
Inoltre, non sarebbe possibile estendere, come fa il Riesame, il concetto di profitto del reato al “profitto-risparmio di spesa”, mentre l’estensione del sequestro preventivo a beni non di diretta derivazione dal reato, ma anche alle utilità indirette e mediate, lo renderebbe un sequestro per equivalente, non corrispondente alla misura prescelta dallo stesso pubblico ministero procedente.
È noto, altresì, che le Sezioni Unite hanno escluso negli illeciti penali tributari la confisca diretta del profitto del reato, costituito dal mancato pagamento delle imposte dovute e, quindi, da un risparmio di spesa che si traduce in un mancato decremento patrimoniale e non in un miglioramento della situazione patrimoniale (Sez. U, n. 18734 del 31/1/2013, Adami, Rv. 255036). In tal caso il sequestro preventivo del profitto del reato può avvenire solo nelle forme del sequestro per equivalente, in quanto il vantaggio derivante dal reato consiste in una immateriale entità contabile che non si è mai incorporata in moneta contante.
Pertanto, nel caso di specie, è palese la violazione dell’art. 321 c.p.p., comma 2, avendo il sequestro preventivo aggredito direttamente le utilità mediate costituite dagli immobili.
4.4. Il quarto motivo di ricorso deduce violazione di legge in relazione alla motivazione meramente apparente quanto al dolo specifico del reato tributario contestato al capo A, che mancherebbe poiché il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 14 prevede, in relazione alla cessione di ramo d’azienda o di azienda la responsabilità in solido del cessionario insieme a quella del cedente.
Si deduce, altresì, con il medesimo motivo la non configurabilità del concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta, quando, come nel caso di specie, la prima condotta si inserisca in una complessiva strategia distrattiva finalizzata al fallimento o posta in essere in vista di esso o da questo seguita; si cita giurisprudenza in tal senso (Sez. 5, n. 42156 del 2979/2011, Borsano, Rv. 251698).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono parzialmente fondati, per ragioni diverse, ed impongono l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata, per diversi ordini di ragioni, come si indicherà di seguito.
2. Il ricorso del pubblico ministero prospetta una erronea interpretazione della disciplina penale relativa al reato di bancarotta, che trova effettivamente risposta coerente nella giurisprudenza di legittimità.
Il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva, nella ricostruzione del Riesame, sembra non aver possibilità di realizzazione attraverso condotte antecedenti alla sentenza dichiarativa di fallimento: il Tribunale, infatti, ha dissequestrato tutti gli immobili acquistati prima del 21.1.2010, data della sentenza di fallimento della prima delle società coinvolte, la (omissis) s.r.l., poiché non ricollegabili ai reati di bancarotta con vincolo di pertinenzialità, essendo i fallimenti delle diverse società intervenuti solo da tale data in poi.
Ebbene, l’interpretazione proposta è palesemente errata.
La condotta distrattiva rilevante si perfeziona già nel momento del distacco del bene dal patrimonio della società in decozione (Sez. 5, n. 17084 del 9/12/2014, dep. 2015, Caprara, Rv. 263243) e sono soltanto la configurabilità del reato e la punibilità della condotta ad essere subordinate alla dichiarazione di fallimento con sentenza del giudice civile, ciò sia nella prospettiva in cui si ritenga quest’ultima una condizione obiettiva di punibilità (cfr. in tal senso, da ultimo, Sez. 5, n. 2899 del 2/10/2018, dep. 2019, Signoretti, Rv. 274610; Sez. 5, n. 4400 del 6/10/2017, dep. 2018, Cragnotti, Rv. 272256; Sez. 5, n. 53184 del 12/10/2017, Fontana, Rv. 271590; Sez. 5, n. 13910 del 8/2/2017, Santoro, Rv. 269388. Nella stessa linea, sia pur implicita, sembra muoversi anche la sentenza Sez. U, n. 22474 del 31/3/2016, Passarelli, Rv. 266804), sia che la si configuri come elemento costitutivo del reato (Sez. 5, n. 40477 del 18/5/2018, Alampi, Rv. 273800; Sez. 1, n. 1825 del 6/11/2006, dep. 2007, Iacobucci, Rv. 235793; Sez. 1, n. 4356 del 16/11/2000, dep. 2001, Agostini, Rv. 218250; Sez. U, n. 2 del 1958, Mezzo, Rv. 098004).
Del resto, già altre pronunce hanno sottolineato come le conseguenze della diversa natura attribuita alla sentenza dichiarativa di fallimento non siano tutto sommato esiziali, a molti rilevanti fini (cfr. la sentenza Sez. 5, n. 13910 del 2017 cit., nonché Sez. 5, n. 45288 del 11/5/2017, Gianesini, Rv. 271114; vedi anche Sez. 5, n. 38396 del 23/6/2017, Sgaramella, Rv. 270763, in motivazione).
In ogni caso, per quel che qui interessa, devono richiamarsi le affermazioni delle Sezioni Unite P., sul punto indiscusse, secondo cui i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza.
Non si richiede alcun nesso (causale o psichico) tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività (cfr., tra le più recenti: Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv. 261683).
In altre parole, secondo le Sezioni Unite (e la giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità), la condotta assume rilievo con la distrazione, mentre la punibilità della stessa è posticipata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronunzia giudiziaria, si pone come fatto successivo (in caso, appunto, di bancarotta distrattiva prefallimentare) e comunque esterno alla condotta stessa (sia elemento costitutivo “improprio”, sia condizione obiettiva di punibilità).
Quanto all‘elemento psicologico della bancarotta distrattiva esso consiste nel dolo generico per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, Passarelli, Rv. 266805; tra le tante, in precedenza: Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv.261348).
Tale ricostruzione corrisponde pienamente alla configurazione del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare come fattispecie di pericolo concreto, in cui l’atto di depauperamento deve risultare idoneo ad esporre a pericolo l’entità del patrimonio della società in relazione alla massa dei creditori e deve permanere tale fino all’epoca che precede l’apertura della procedura fallimentare (Sez. 5, n. 17819 del 24/3/2017, Palitta, Rv. 269562; Sez. 5, n. 50081 del 1479/2017, Zazzini, Rv. 271437). Alla luce del quadro interpretativo sinora descritto, sostanzialmente pacifico sul tema della rilevanza delle condotte distrattive prefallimentari al fine della configurabilità del reato di pericolo costituito dalla bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare, deve rilevarsi l’erroneità della motivazione del Tribunale del Riesame, sia nei suoi presupposti in diritto che nelle conseguenze decisionali, così come sostenuto dal pubblico ministero.
Il Riesame avrebbe dovuto valutare la sussistenza del vincolo di pertinenzialità degli immobili non già utilizzando come criterio dirimente l’epoca dell’acquisto, di conseguenza escludendo dalle condotte distrattive tutti gli immobili gli acquisti dei quali siano intervenuti in data antecedente alla dichiarazione del primo dei fallimenti coinvolti nello schema illegale, poiché le condotte di bancarotta prefallimentare – come chiarito – sono poste in essere prima del verificarsi formale del fallimento;
piuttosto si sarebbe dovuta indagare la sussistenza in concreto di un vincolo di pertinenzialità tra i beni immobili in sequestro e le eventuali condotte distrattive realizzate in circostanze temporali coeve o in ogni caso ricollegabili agli acquisti stessi. È vero, come richiamato anche nell’ordinanza impugnata, che, ai fini dell’adozione della misura cautelare del sequestro preventivo è necessaria la sussistenza della pertinenzialità del bene sequestrato, nel senso che il bene oggetto di sequestro deve caratterizzarsi per una intrinseca, specifica e strutturale strumentalità rispetto al reato commesso, non essendo sufficiente una relazione meramente occasionale (Sez. 5, n. 52251 del 30/10/2014, Bianchi, Rv. 262164), tuttavia è proprio l’erroneità del presupposto di partenza e del criterio adottato per la verifica della sussistenza di detto nesso di pertinenzialità che ha impedito al Tribunale del Riesame di operare una valutazione soddisfacente della riferibilità dei beni immobili in sequestro al reato di bancarotta distrattiva prefallimentare.
È evidente che la pertinenzialità o meno degli immobili dissequestrati andrà ricondotta ad un nuovo giudizio di merito che, sulla base, questa volta, dei corretti presupposti logico-giuridici, potrà confermare la valutazione o modificarla, tenuto conto sia del fatto che gli acquisiti (come si evidenzia nel secondo motivo del pubblico ministero) sono stati effettuati mediante l’accensione di mutui ipotecari, sia del fatto che i “proventi” del reato di bancarotta non sono stati, ad oggi, specificati nella loro entità, nelle imputazioni provvisorie.
3. Anche il ricorso degli indagati presenta aspetti di fondatezza, che si indicheranno di seguito e che danno luogo alla necessità, anche in relazione a tale impugnazione, di disporre annullamento con rinvio per nuovo esame.
3.1. Il primo motivo ed il secondo attengono alla insufficiente motivazione sul vincolo di pertinenzialità degli immobili in sequestro e sulla incapacità reddituale della ricorrente L., nonostante le elargizioni da essa ricevute e provate con bonifici, nonché la somma mensile di 3.000 Euro che essa riceve dall’ex-marito come assegno di separazione ed il guadagno di canoni di locazione dagli immobili di proprietà.
In proposito, deve evidenziarsi che la motivazione del Tribunale, per quanto non particolarmente specifica, pur tuttavia appare sufficientemente plausibile in questa fase rispetto alle risultanze delle indagini.
È vero che la ricorrente non è soggetto privo di una sua autonomia reddituale, ma la considerazione secondo cui la somma di 499.000 Euro, ricevuta in dono dal padre dalla ricorrente L., debba essere ritenuta sufficiente a coprire l’acquisto mediante mutuo (e quindi solo con un acconto) di tutti gli immobili a lei riferibili, avendo errato il Riesame a ritenere gli acquisti effettuati in contanti e, per questo, avendo collegato la somma lecitamente ricevuta ai soli immobili acquistati per un valore corrispondente (la cantina sita in (omissis); alcuni uffici a (omissis) ed una abitazione sita in (omissis)), appare apodittica e non confortata da dati di fatto.
Laddove la motivazione del Riesame, invece, è specifica su altri punti chiave richiamati dalla difesa: i canoni di locazione che si asseriscono percepiti non sono stati documentati né emergono dalle dichiarazioni dei redditi o riguardano anni troppo risalenti per avere un qualche rilievo nelle contestazioni (2006-2007); la somma mensile di 3.000 Euro corrispondente all’assegno per il mantenimento dei figli egualmente non risulta documentata.
Tuttavia, effettivamente la motivazione del provvedimento impugnato, nel suo complesso, pecca di assertività nel momento in cui, esclusa la riferibilità ai redditi della L. degli immobili diversi da quelli indicati e che intende dissequestrare, ricollega poi tutti gli altri acquisti immobiliari successivi al 2015 (data in cui si presume sia stato esaurito il patrimonio del padre corrispondente ai 499.000 Euro) “necessariamente” alle somme illecitamente risparmiate e percepite dalla indagata con il sistema di frode fiscale e distrazione di beni societari aziendali, sulla base di un criterio di mera coincidenza (o compatibilità) cronologica tra le epoche delle insolvenze societarie e degli acquisiti immobiliari, presumendo che gli immobili siano stati acquisiti con le risorse sottratte alle società, mancando la prova di altre fonti lecite.
L’affermazione è evidentemente apodittica e, ricollegando tale convincimento anche alla assenza di documentazione reddituale prodotta dalla ricorrente, finisce per attuare anche un sostanziale inversione dell’onere della prova quanto alla pertinenzialità dei beni in sequestro ai reati contestati.
Inoltre, neppure potrebbe sostenersi (né l’argomento è stato in alcun modo trattato dal Riesame) che i beni immobili in sequestro siano l’oggetto della disposizione fraudolenta prevista dal reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 11, non essendo detti beni mai appartenuti alla società e prevedendo, invece, la struttura del reato in esame l’alienazione simulata ovvero il compimento di altri atti fraudolenti su beni sottoponibili alla procedura di riscossione coattiva perché rientranti nel patrimonio del soggetto tenuto all’obbligo fiscale.
Vero è che gli immobili potrebbero essere il frutto di somme fraudolentemente sottratte alle casse societarie (in particolare gli incassi ingenti provenienti dalla gestione delle pizzerie), ma anche su una tale prospettiva il provvedimento impugnato tace, limitandosi, come detto, a ricollegare apoditticamente tutti gli immobili non coperti dalla capacità reddituale della L. al profitto dei reati contestati.
3.2. Il terzo motivo è egualmente fondato.
Il provvedimento impugnato individua erroneamente il profitto del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, confiscabile anche nella forma per equivalente, con il risparmio di spesa derivante dall’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, con cui sarebbero stati acquistati gli immobili di proprietà della L. tenuti in sequestro (vedi pag. 5 dell’ordinanza del Riesame), laddove, invece, tale profitto è rappresentato dalla somma di denaro (o dalla attività patrimoniale qualunque essa sia) la cui sottrazione all’Erario viene perseguita attraverso l’atto di vendita simulata o gli atti fraudolenti posti in essere (Sez. 3, n. 40534 del 6/5/2015, Trust, Rv. 265036).
In altre parole, il profitto del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte coincide con il patrimonio sottratto alla garanzia dell’esazione e non già con il debito tributario evaso (tant’è che per calcolarlo si procede eventualmente alla decurtazione da detto patrimonio delle somme recuperate dal fisco a seguito delle cessioni di ramo d’azienda e dei versamenti effettuati dall’imputato: Sez. 3, n. 4097 del 19/1/2016, Tomasi Canovo, Rv. 265843) e consiste nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase costituenti oggetto delle condotte artificiose considerate dalla norma (Sez. 3, n. 10214 del 22/1/2015, Chiarolanza, Rv. 262754).
Tali affermazioni sono coerenti con la struttura di reato di pericolo della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11, in cui il profitto del reato va individuato nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi e, quindi, nella somma di denaro la cui sottrazione all’Erario viene perseguita, non importa se con esito favorevole o meno, poiché già la sottrazione in sé integra la condotta di pericolo del bene protetto costituito dall’interesse fiscale dello Stato (cfr. Sez. 3, n. 33184 del 12/6/2013, Abrusci, Rv. 256850). E la ricostruzione relativa al profitto del reato in esame trova conferma nella analisi della natura della fattispecie, costruita, appunto, come reato di pericolo, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare – secondo un giudizio “ex ante” – l’attività recuperatoria della amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 15133 del 17/11/2017, Stassi, Rv. 272505, che ha precisato la configurabilità del reato anche se il valore dei beni sottratti alla garanzia patrimoniale dell’erario è inferiore alla soglia di punibilità di 50.000 Euro di imposta evasa).
Le Sezioni Unite, nella pronuncia più volte richiamata dal ricorso difensivo Sez. U, n. 18734 del 31/1/2013, A., Rv. 255036, hanno pervero adottato una nozione di profitto del reato di sottrazione fraudolenta alle imposte più ampia, individuandolo con qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e, dunque, anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario. Tuttavia, l’affermazione è riferita all’ipotesi decisa dalle Sezioni Unite, in cui emergeva chiaramente dall’imputazione che il danno per l’Erario si era comunque già verificato, proprio nella misura ragguagliabile al quantum dell’imposta evasa, sicché anche la qualificazione del reato in termini di pericolo e non già di danno viene ritenuta irrilevante dalla pronuncia A., nel caso di specie (cfr. pag. 24 della motivazione delle Sezioni Unite).
È alla giurisprudenza specifica e già citata, dunque, che si deve far riferimento per un inquadramento generale e astratto della questione relativa alla consistenza del profitto del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11.
Per quanto riguarda, dunque, l’ordinanza impugnata, è evidente che la motivazione andrà ricalibrata correggendo il presupposto argomentativo errato e rapportando la pertinenzialità degli immobili in sequestro al profitto del reato esattamente individuato, tenuto conto del fatto che, al di là della specifica indicazione sul profitto del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte derivante dalla giurisprudenza delle Sezioni semplici della Corte di legittimità, già ripercorsa, le Sezioni Unite hanno da ultimo chiarito, con la sentenza Sez. U, n. 31617 del 26/6/2015, Lucci, Rv. 264436, che il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito (conf. Sez. 6, n. 33226 del 14/7/2015, Azienda agraria Green Farm; Sez. 6, n. 23013 del 22/4/2016, Gigli, Rv. 267065; Sez. 2, n. 535650 del 5/10/2016, Maiorano, Rv. 268854), mentre, con riguardo agli immobili, vale la regola iuris secondo cui costituisce “profitto” del reato anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro sia causalmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo (Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007, dep. 2008, Miragliotta, Rv. 238700: fattispecie in tema di concussione nella quale il danaro era stato richiesto da un ufficiale di p.g. per l’acquisto di un immobile).
Nel caso di specie, il bene sottratto fraudolentemente alla garanzia fiscale è, come detto, l’azienda-pizzeria (ed i beni mobili ad essa connessi), ceduta di volta in volta a società che poi venivano svuotate della loro capacità patrimoniale attraverso proprio la dismissione del bene costituente il loro core-business (o meglio l’unica ricchezza).
Gli immobili acquistati dalla L., come detto, al più costituiscono un profitto mediato poiché non configurano beni originariamente appartenenti alla società e poi fraudolentemente sottratti, ma appartengono al patrimonio personale della ricorrente e sono stati sequestrati – nell’ottica della accusa, seguita dal Riesame – quali reinvestimento del profitto o provento dei reati fiscali (o anche fallimentari, ma ciò neppure è stato ben chiarito, non essendo state neppure specificate le somme distratte prima dei fallimenti) in contestazione, profitto da intendersi come mancato pagamento dei debiti tributari.
Una tale derivazione causale da reato va dimostrata, tuttavia, dalla pubblica accusa e non può essere presunta o posta a carico del ricorrente che non fornisca prova contraria, come invece, fatto dal Tribunale del Riesame, incorrendo nei difetti motivazionali già evidenziati al par. 3.1.
È questo, dunque, l’oggetto dell’indagine del giudice della cautela: sondare le ragioni che collegano gli immobili sequestrati alla ricorrente L. al reinvestimento di somme fraudolentemente sottratte dalle casse societarie; e su tale aspetto andrà disposto il rinvio affinché il Tribunale del Riesame fornisca un ragionamento logico e convincente – e non meramente apparente – sul fatto che detti beni immobili siano effettivamente legati da nesso di pertinenzialità con i reati in contestazione.
3.3. Il quarto motivo, invece, è infondato.
Il fatto che il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 14 preveda che la responsabilità tributaria sussista in solido tra cedente e cessionario d’azienda non esclude di per sé la configurabilità del coefficiente soggettivo del reato di sottrazione fraudolenta dal pagamento delle imposte. Sul punto, la motivazione del Riesame è stata efficace rappresentando come la responsabilità formale confligga con la situazione sostanziale di depauperamento e svuotamento della capacità patrimoniale delle società cedenti, private fraudolentemente di ogni bene.
Inoltre, anche l’osservazione relativa alla inconfigurabilità assoluta del concorso di reati tra il delitto di bancarotta fraudolenta prefallimentare e quello di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è priva di pregio.
La giurisprudenza citata nel ricorso (Sez. 5, n. 42156 del 29/9/2011, Rv. 251698) riguarda una ipotesi peculiare in cui effettivamente le condotte di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 11 si inserivano in una complessiva strategia distrattiva, intesa consapevolmente a danneggiare colui che sui beni sottratti ha titolo per soddisfarsi e finalizzata al fallimento. In questo caso, la distrazione operata in danno del fisco non assume connotazione autonoma e per questo è riconducibile al paradigma punitivo della L. Fall., art. 216.
In generale, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha sempre ammesso il concorso tra i due reati predetti, basandosi su alcuni, determinanti indici di confronto, costituiti dalla diversità del soggetto-autore degli illeciti (nel primo caso, tutti i contribuenti, nel secondo, soltanto gli imprenditori falliti) e del differente elemento psicologico tra i reati (rispettivamente, dolo specifico e dolo generico): ex multis Sez. 5, n. 35591 del 20/6/2017, Fagioli, Rv. 270810; Sez. 3, n. 3539 del 20/11/2015, dep. 2016, Cepparo, Rv. 266133.
Condivisibilmente la sentenza n. 35591 del 2017 ha evidenziato che, nel decidere tra concorso apparente di norme o concorso formale (o materiale) di reati, non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall’art. 15 c.p., il quale è unicamente incentrato sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie al fine di apprezzare l’implicita valutazione di correlazione tra norme effettuata dal legislatore (ex multis e più di recente Sez. U., n. 20664 del 23/2/2017, Stalla, Rv. 269668).
Devono essere, pertanto, evitati, ai fini del giudizio di coesistenza dei reati, i criteri valoriali della sussidiarietà e della consunzione, in quanto caratterizzati da una quota rilevante ed innegabile di ambiguità interpretativa e fondati su considerazioni arbitrarie che finirebbero per assegnare al giudice una discrezionalità esorbitante e contraria al principio di legalità (ex multis Sez. U., n. 47164 del 20/12/2005, Marino, Rv. 2323024).
Anche il criterio della c.d. specialità in concreto non può essere adottato e ciò perché non ha senso far dipendere da un fatto concreto l’instaurarsi di un rapporto di genere a specie tra due norme: la specialità o esiste già in astratto o non esiste neppure in concreto – cfr. in motivazione Sez. U. n. 1963 del 21/1/2011, Di Lorenzo).
Non rileva quindi né la omogeneità dei beni giuridici tutelati dalle diverse fattispecie incriminatrici, né il loro contingente convergere sul medesimo avvenimento concreto. È invece decisivo che sussista tra di esse un rapporto di specialità in astratto, tale per cui, dal loro confronto strutturale, emerga che l’una contiene gli stessi elementi dell’altra ad eccezione di alcuni, presenti in una soltanto e perciò detti “specializzanti”. Nel caso delle fattispecie coinvolte dal confronto, è da escludere che il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte rimanga assorbito tout court nel delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, potendo ciò conseguire soltanto a vicende del tutto peculiari e che riguardano la fenomenologia in concreto delle condotte (come nel caso della pronuncia n. 42156 del 2011, cit., che probabilmente argomenta, tuttavia, nell’ottica della specialità “in concreto”).
Dalla comparazione strutturale delle fattispecie emerge, infatti, una chiara diversità nella soggettività dell’illecito fallimentare rispetto a quello tributario (il primo è rivolto soltanto agli imprenditori falliti, il secondo invece a tutti i contribuenti) e una altrettanto chiara diversità dell’elemento psicologico nell’uno e nell’altro reato (il dolo è infatti generico nella bancarotta fraudolenta per distrazione, specifico nella sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte).
Tali elementi rivelano il rapporto di specialità reciproca tra le due disposizioni penali e, pertanto, fondano la possibilità di un concorso tra reati in ipotesi – come quella di specie – in cui la condotta di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte ha sicuramente una sua autonomia e non è stata preordinata in vista del fallimento (ciò per ciascuna delle società coinvolte), fallimento che, anzi, secondo l’impostazione dell’accusa, è stato causato anche dalla sottrazione di beni, somme e attività (non ancora specificamente indicate) direttamente dalle casse delle società fallite.
4. Per tutte le ragioni sinora indicate, deve essere disposto l’annullamento con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Bologna, che provvederà ad adottare una nuova decisione coerentemente alle indicazioni proposte dal Collegio in riferimento alle ragioni accolte e relative sia al ricorso del pubblico ministero che a quello degli indagati.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso del pubblico ministero nonché di quello di L., C., M.S. e M.G., annulla il provvedimento impugnato con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Bologna.
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