CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 32155 depositata il 16 novembre 2020
Azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso – Omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti – Prova dell’effettiva corresponsione delle retribuzioni – Modelli Dm 10 formati con il sistema informatico Uniemens
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 18 giugno 2020, la Corte d’appello di Salerno ha confermato – disponendo la conversione della pena detentiva di mesi quattro di reclusione in quella pecuniaria di euro 30.000,00 di multa – la sentenza del Tribunale di Salerno del 31 ottobre 2018 con la quale l’imputata era stata condannata, in quanto imputata del reato di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen., 2, comma 1 -bis, del n. 463 del 1983, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 638 del 1983, perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, ometteva di versare, nei termini prescritti, le ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti, per complessivi euro 50.642,68 (periodi da aprile a giugno 2012), con la recidiva specifica infraquinquennale.
2. Avverso la sentenza l’imputata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si lamentano vizi della motivazione in ordine alla prova dell’effettiva corresponsione delle retribuzioni, quale presupposto per la configurabilità del reato. Si sostiene che i modelli Dm 10 formati con il sistema informatico Uniemens potrebbero essere valutati a tal fine, trattandosi di dichiarazioni, che seppure generate dal sistema informatico dell’Inps, sono basate esclusivamente su dati risultanti dalle denunce individuali e dalla denuncia aziendale fornita dallo stesso contribuente. Si lamenta che la Corte d’appello non avrebbe specificato adeguatamente se nel caso di specie si fosse trattato effettivamente di questa tipologia di modelli.
2.2. In secondo luogo, si prospetta l’inosservanza dell’art. 157 cod. pen., sul rilievo che nel caso di specie la recidiva, pur formalmente contestata, sostanzialmente non sarebbe stata applicata. Tale mancata applicazione impedirebbe di considerare la recidiva ai fini della determinazione del termine di prescrizione; con la conseguenza che i reati contestati avrebbero dovuto essere ritenuti i prescritti nel novembre 2019, ovvero in un momento antecedente alla pronuncia della sentenza di appello.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1. Il primo motivo di doglianza – con cui si lamenta la mancata specificazione, da parte della Corte d’appello, di quale fosse la tipologia di DM 10 da cui era stata desunta la prova dell’avvenuto pagamento delle retribuzioni – è inammissibile, perché riferito a un profilo irrilevante. Dalla sentenza impugnata emerge, infatti, che l’imputata aveva denunciato all’Inps con i relativi modelli DM 10 le somme dovute e poi non versate. Dunque tali modelli provenivano dall’imputata ed erano stati ricevuti dall’Inps; e ciò è ampiamente sufficiente come prova, restando del tutto irrilevante quale fosse l’esatta tipologia di tali modelli – e, in particolare, se fossero riconducibili al sistema “Uniemens” richiamato dalla difesa – nell’ambito della generale categoria DM10. Deve dunque richiamarsi, sul punto, la consolidata giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sez. 3, 4 marzo 2010, n. 14839; 7 ottobre 2009, n. 46451), secondo cui i modelli DM 10 hanno natura ricognitiva della situazione debitoria del datore di lavoro e, dunque, la loro compilazione e presentazione equivale all’attestazione all’ente di aver corrisposto le retribuzioni in relazione alle quali non sono stati versati i contributi, in mancanza di specifici elementi in contrario.
1.2. Il secondo motivo, con cui si lamenta la mancata considerazione della prescrizione dei reati, che si sarebbe verificata prima della pronuncia della sentenza d’appello, è manifestamente infondato.
Effettivamente emerge dagli atti che i giudici di primo e secondo grado non hanno tenuto conto della contestata recidiva ai fini del computo della pena, non avendola espressamente esclusa né posta in comparazione con le circostanze attenuanti generiche riconosciute. Trova dunque applicazione il principio affermato dalle sezioni unite di questa Corte, secondo cui, in mancanza di espressa motivazione sulla sussistenza della recidiva contestata e in assenza di aumento della pena a tale titolo o di espressa considerazione della stessa ai fini del giudizio di comparazione con altre circostanze, di essa non può tenersi conto ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato (Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018, dep. 15/05/2019, Rv. 275319). Il termine prescrizionale complessivo dei reati contestati deve essere determinato, dunque, in sette anni e sei mesi, tenendo conto del regime ordinario di cui agli art. 157, primo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. Ciononostante i reati – contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente – non erano ancora prescritti alla data della pronuncia della sentenza d’appello (18 giugno 2020). Il più risalente di essi è stato commesso, infatti, il 16 maggio 2012, dovendosi tenere conto del periodo di sospensione legale di tre mesi e della sospensione del decorso del termine prescrizionale per 155 giorni (per rinvio dal 4 dicembre 2019 al 7 maggio 2020, per adesione del difensore all’astensione dalle udienze proclamata da un organismo di categoria), e giungendosi così al 20 luglio 2020. A fronte di un ricorso inammissibile, quale quello in esame, trova dunque applicazione il principio, costantemente enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione, è preclusa dall’inammissibilità del ricorso per cassazione, anche dovuta alla genericità o alla manifesta infondatezza dei motivi, che non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione (ex plurimis, sez. 3, 8 ottobre 2009, n. 42839; sez. 1, 4 giugno 2008, n. 24688; sez. un., 22 marzo 2005, n. 4).
2. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
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