CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 32255 depositata il 26 agosto 2021
Scudo fiscale – Proventi di attività illecite – Soggetto portatore di pericolosità sociale – Legge antimafia – Sequestro e confisca di beni di familiari e congiunti
Ritenuto in fatto
1. Con decreto dell’8 luglio 2020 la Corte di appello di Brescia ha rigettato l’impugnazione proposta da S.M., A.M. ed A.P.R. avverso il provvedimento con cui, il 16 dicembre 2019, il Tribunale della stessa città ha disposto la confisca di alcuni immobili loro intestati e ritenuti già nella disponibilità di A.M., padre dei primi due e compagno della terza, deceduto nel 2017.
I giudici della prevenzione hanno ritenuto che gli acquisti sono stati operati da A.M. in periodi in cui egli era portatore di pericolosità sociale, come comprovato dalla lunga serie di condanne, a far data dal 1976 e, senza soluzione di continuità, sino al 2005, per emissione di assegni senza provvista, truffa, insolvenza fraudolenta, ricettazione, bancarotta fraudolenta, falso, nonché dalle segnalazioni per reati di notevole gravità, che egli avrebbe commesso sino al 2015 e che, al pari di quelli accertati con sentenza irrevocabile, sono produttivi di acquisizioni patrimoniali illecite.
Hanno, sotto altro aspetto, rilevato la sussistenza di una netta ed insuperabile sperequazione tra il valore dei beni acquistati dai congiunti di M. negli anni 2010, 2011 e 2015 (anno al quale risale l’acquisto di un complesso immobiliare del quale, in realtà, M. era effettivo titolare sin dal 1997) ed i redditi lecitamente prodotti dall’intero nucleo familiare nel periodo interessato dall’accantonamento delle somme necessarie per gli acquisti.
La Corte di appello, a confutazione delle obiezioni mosse dai destinatari della confisca, ha confermato il giudizio espresso dal primo giudice in ordine alla pericolosità sociale di A.M., inquadrabile nella categoria di cui all’art. 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, per avere egli vissuto con i proventi delle attività illecite perpetrate lungo un amplissimo arco temporale e generatrici di introiti che, nell’epoca interessata dagli acquisti, hanno per lui costituito l’unica o, quantomeno, una rilevante fonte di reddito, per come attestato dagli esiti dell’indagine compiuta sui redditi leciti prodotti da M. e dai suoi congiunti, sicuramente insufficienti ad assicurare il mantenimento di quattro persone, peraltro aduse ad un tenore di vita alquanto elevato.
Ma, per contro, disatteso le obiezioni difensive, mosse sulla base di una consulenza tecnica efficacemente contrastata dalle repliche della D.I.A., compendiate in apposite memorie, e volte a rettificare in aumento le entrate lecite dei soggetti interessati.
In dettaglio, ha ritenuto:
– non potersi tener conto delle somme che la P. avrebbe tratto dalla cessione, risalente al 2009, della quota aziendale della F. s.a.s., bilanciata dai finanziamenti in precedenza operati dalla donna;
– che la somma rientrata in Italia con la garanzia di godere del c.d. “scudo fiscale” non può essere considerata alla stregua di provento lecito perché, sebbene il reingresso sia stato assistito dall’estinzione di ogni effetto amministrativo, tributario e penale connesso alla disponibilità di tale capitale all’estero, non vi è prova che la provvista sia correlata, sotto il profilo logico, alle violazioni finanziarie non più perseguibili, dovendosi, piuttosto, tener conto della commissione, nel 2008 e ad opera della coppia M.P., di condotte di distrazione patrimoniale in pregiudizio della Group P.m.;
– che i 108.000 ricavati dal disinvestimento di polizze vita ed assicurazioni hanno costituito il frutto dell’impiego, per il versamento di premi, di denaro di origine illecita;
– che anche il bonifico effettuato dal fratello di A.M. il 6 marzo 2010 è da ritenersi veicolo per il reingresso in Italia di somme già depositate in Canada, paese in cui A.M. ha trascorso una parte della sua vita, anziché erogazione di un prestito pattuito tra i germani;
– che il complesso immobiliare acquistato da F. M., fratello di A., nel 1997 (e formalmente rivenduto dal figlio, nel 2015 e per un prezzo assai esiguo, quando non addirittura irrisorio, ai figli di A.M.) era, a ben vedere, nell’effettiva disponibilità di quest’ultimo, che se la era procurata reinvestendo i proventi dei numerosissimi reati posti in essere.
2. A. e S.M. ed A.P.R. propongono, con l’assistenza degli avv.ti C.L. e G.P., i primi due, C.L. e N.C., la terza, ricorsi per cassazione, autonomi ma di identico contenuto, affidati a due motivi, con il primo dei quali deducono violazione di legge per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto la pericolosità sociale generica di A.M. — il quale, peraltro, non risulta aver commesso alcun reato nell’epoca, gli anni 2009, 2010 e 2015, di acquisto dei beni confiscati — sulla base dei soli titoli di reato e senza considerare il concreto svolgimento delle singole vicende, né l’attitudine di ciascuna condotta a generare arricchimento.
Segnalato che l’emissione di assegni senza provvista o autorizzazione costituisce mero illecito amministrativo e che la Corte di appello ha indebitamente tratto argomento anche da meri precedenti di polizia o da procedimenti non suggellati da condanna, lamentano che sia stato del tutto omesso l’imprescindibile accertamento della coincidenza temporale tra manifestazione della pericolosità sociale ed incrementi patrimoniali.
2.1. Con il secondo motivo, eccepiscono violazione di legge per avere la Corte di appello erroneamente attestato che i terzi intestatari dei beni confiscati non avrebbero contestato la fittizietà dell’attribuzione e l’effettiva titolarità dei beni in capo ad A.M.
Rilevano che A.P.R. ha ritualmente dedotto, nel giudizio di merito, di avere destinato agli acquisti le risorse straordinarie conseguite negli anni 2009 e 2010 e tassate, tutte, alla fonte, essendo rimasta, per contro, del tutto indimostrata la supposta interposizione fittizia.
Al riguardo, premettono che il terzo destinatario della proposta di confisca può, diversamente, dal proposto, limitarsi, al fine di evitare il provvedimento ablativo, ad allegare circostanze dirette a sminuire o elidere l’efficacia probatoria degli elementi offerti dall’accusa, secondo quanto stabilito dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Cedu e riconosciuto dalla stessa giurisprudenza di legittimità.
Eccepiscono, specificamente:
– quanto alla cessione delle quote della F. s.a.s. (società di persone, e non di capitali, come infondatamente asserito dalla Corte di appello), che il giudice di appello ha indebitamente rifiutato di tenere conto di un afflusso patrimoniale di ben 147.500 euro, certificato da atto pubblico e di poco precedente all’acquisto dei beni della cui confisca si discute;
– in ordine al rientro dei capitali dall’estero, che la Corte di appello ha fondato la decisione su un indirizzo ermeneutico formatosi in relazione alla posizione del proposto, e non del terzo, dovendosi, peraltro, considerare che il rimpatrio ha comportato una regolarizzazione definitiva ed assoluta e, pertanto, preclusiva a qualunque utilizzo della condotta ad essa sottesa in ambito giudiziario; aggiungono, al riguardo, di essersi avvalsi della normativa sul c.d. «scudo fiscale» in un momento in cui i soggetti portatori di pericolosità sociale generica non potevano essere assoggettati alla confisca di prevenzione;
– che la Corte di appello non ha offerto conveniente spiegazione delle ragioni che la hanno indotta a ritenere che la dazione di euro 39.888,75, da parte di E. M., non sia avvenuta a titolo di mutuo, ma al precipuo scopo di consentire ad A.M. di fruire di somme che, accumulate grazie alla perpetrata attività illecita, egli avrebbe custodito oltreoceano;
– che l’immobile di Ponteranica è stato acquistato da A. e S.M. dal cugino (e non zio, come erroneamente asserito dalla Corte di appello) F. M., la fittizietà del cui originario acquisto non è stata in alcun modo dimostrata.
3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
4. A.P.R. ha depositato, il 3 febbraio 2021, memoria di replica alla requisitoria del Procuratore generale, con la quale ha ribadito e specificato gli argomenti esposti con il libello introduttivo del presente giudizio.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato e, pertanto, passibile di rigetto.
2. In via preliminare, occorre ricordare che nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso — con scelta ritenuta non irragionevole da Corte cost. n. 321 del 2004 e n. 106 del 2015 — soltanto per violazione di legge, giusta il disposto dell’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3-ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575 (ora, 10, comma 3, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159).
Ne consegue, ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, che, in tema dì sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dal nono comma del predetto art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246; Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, Caliendo, Rv. 270080; Sez. 1, n. 6636 del 07/01/2016, Pandico, Rv. 266365).
In detta prospettiva, oltre ad essere esclusi i vizi tipici concernenti la tenuta logica del discorso giustificativo, è improponibile, sotto forma di violazione di legge, anche la mancata considerazione di prospettazioni difensive, quando le stesse, in realtà, siano state prese in considerazione dal giudice o risultino assorbite dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato o comunque non siano potenzialmente decisive ai fini della pronuncia sul punto attinto dal ricorso.
3. Il motivo di ricorso, concernente il formulato giudizio di pericolosità sociale di A.M., involge la valutazione, operata dalla Corte di appello, degli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019.
È utile, pertanto, dar conto, sia pure sinteticamente e per quanto qui di diretto interesse, del contenuto della pronunzia del giudice delle leggi che ha, tra l’altro, sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera c), del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettera a), nonché dell’art. 16 del medesimo plesso normativo, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli articoli 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lettera a).
La Corte costituzionale ha ritenuto non conforme alla Carta Costituzionale la previsione della categoria di pericolosità di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), concernente «coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi», ed ha espunto la disposizione di legge dall’ordinamento vigente in virtù di un marcato deficit di tassatività descrittiva, con conseguente inapplicabilità della disposizione dichiarata incostituzionale, ai sensi dell’art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n.87, del 1953, stando al quale «le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione».
4. La Corte costituzionale, nel sottoporre a complessivo scrutinio le disposizioni di cui all’art. 1, comma 1, lett. a) e b) del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, ha, indi, ritenuto che quella sub b), che consacra la pericolosità di «coloro che per la condotta e il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» — per come interpretata negli arresti più recenti di questa Corte di legittimità, antecedenti e successivi alla nota decisione della Corte EDU, Grande Camera, 23 febbraio 2017, D. c. Italia, tesi ad estrarre dalla disposizione contenuti di maggiore tassatività descrittiva — non sia in contrasto con i principi costituzionali, mantenendone inalterata la vigenza.
La Corte costituzionale ha, in proposito, rilevato che:
«…già in epoca immediatamente precedente alla sentenza D., la giurisprudenza di legittimità aveva compiuto un commendevole sforzo di conferire, in via ermeneutica, maggiore precisione alle due fattispecie di “pericolosità generica” qui all’esame. Tale sforzo interpretativo è stato ripreso e potenziato successivamente alla pronuncia della Corte EDU, al dichiarato fine di porre rimedio al deficit di precisione in quella sede rilevato.
Questa lettura convenzionalmente orientata, talora indicata come “tassativizzante”, muove dal presupposto metodologico secondo cui la fase prognostica relativa alla probabilità che il soggetto delinqua in futuro è necessariamente preceduta da una fase diagnostico-constatativa, nella quale vengono accertati (con giudizio retrospettivo) gli elementi costitutivi delle cosiddette “fattispecie di pericolosità generica”, attraverso un apprezzamento di «fatti», costituenti a loro volta «indicatori» della possibilità di iscrivere il soggetto proposto in una delle categorie criminologiche previste dalla legge (Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 1 febbraio 2018-31 maggio 2018, n. 24707; sezione seconda, sentenza 4 giugno 2015-22 giugno 2015, n. 26235; sezione prima, sentenza 24 marzo 2015-17 luglio 2015, n. 31209; sezione prima, sentenza 11 febbraio 2014-5 giugno 2014, n. 23641).
Con riferimento, in particolare, alle “fattispecie di pericolosità generica” disciplinate dall’art. 1, numeri 1) e 2), della legge n. 1423 del 1956 e – oggi – dall’art. 1, lettere a) e b), del d.lgs. n. 159 del 2011 (disposizione, quest’ultima, alla quale per comodità si farà prevalentemente riferimento nel prosieguo), i loro elementi costitutivi sono stati dalla Corte di cassazione precisati nei termini seguenti.
L’aggettivo «delittuoso», che compare sia nella lettera a) che nella lettera b) della disposizione, viene letto nel senso che l’attività del proposto debba caratterizzarsi in termini di “delitto” e non di un qualsiasi illecito (Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 19 aprile 2018- 3 ottobre 2018, n. 43826; sezione seconda, sentenza 23 marzo 2012-3 maggio 2012, n. 16348), sì da escludere, ad esempio, che «il mero status di evasore fiscale» sia sufficiente a fondare la misura, ben potendo l’evasione tributaria consistere anche in meri illeciti amministrativi (Corte di cassazione, sezione quinta, sentenza 6 dicembre 2016-9 febbraio 2017, n. 6067; sezione sesta, sentenza 21 settembre 2017-21 novembre 2017, n. 53003).
L’avverbio «abitualmente», che pure compare sia nella lettera a) che nella lettera b) della disposizione, viene letto nel senso di richiedere una «realizzazione di attività delittuose […] non episodica, ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto» (Cass., n. 31209 del 2015), in modo che si possa «attribuire al soggetto proposto una pluralità di condotte passate» (Corte di cassazione, sezione prima, sentenza 15 giugno 2017-9 gennaio 2018, n. 349), talora richiedendosi che esse connotino «in modo significativo lo stile di vita del soggetto, che quindi si deve caratterizzare quale individuo che abbia consapevolmente scelto il crimine come pratica comune di vita per periodi adeguati o comunque significativi» (Corte di cassazione, sezione seconda, sentenza 19 gennaio 2018-15 marzo 2018, n. 11846) […]
Il riferimento ai «proventi» di attività delittuose, di cui alla lettera b) della disposizione censurata, viene poi interpretato nel senso di richiedere la «realizzazione di attività delittuose che […] siano produttive di reddito illecito» e dalle quale sia scaturita un’effettiva derivazione di profìtti illeciti (Cass., n. 31209 del 2015).
Nell’ambito di questa interpretazione “tassativizzante”, la Corte di cassazione – in sede di interpretazione del requisito normativo, che compare tanto nella lettera a) quanto nella lettera b) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011, degli «elementi di fatto» su cui l’applicazione della misura deve basarsi – fa infine confluire anche considerazioni attinenti alle modalità di accertamento in giudizio di tali elementi della fattispecie. Pur muovendo dal presupposto che «il giudice della misura di prevenzione può ricostruire in via totalmente autonoma gli ; «episodi storici in questione – anche in assenza di procedimento penale correlato – in virtù della assenza di pregiudizialità e della possibilità di azione autonoma di prevenzione» (Cass., n. 43826 del 2018), si è precisato: che non sono sufficienti ;
meri indizi, perché la locuzione utilizzata va considerata volutamente diversa e più rigorosa di quella utilizzata dall’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011 per l’individuazione delle categorie di cosiddetta pericolosità qualificata, dove si parla di «indiziati» (Cass., n. 43826 del 2018 e n. 53003 del 2017); che l’esistenza di una sentenza di proscioglimento nei merito per un determinato fatto impedisce, alla luce anche del disposto dell’art. 28, comma 1, lett. b), che esso possa essere assunto a fondamento della misura, salvo alcune ipotesi eccezionali (Cass., n. 43826 dei 2018); che occorre un pregresso accertamento in sede penale, che può discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto (Cass., n. 11846 dei 2018, n. 53003 del 2017 e n. 31209 del 2015) [..]
I richiamati parametri interpretativi hanno indotto la Corte costituzionale ad attestare la conformità della disposizione contenuta nell’art. 1, comma 1, lett. b), ai valori imposti dalle superiori norme regolatrici sul rilievo che «allorché si versi – come nelle questioni ora all’esame – al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione».
La Corte costituzionale ha, subito dopo, indicato la necessità, nell’ottica sia costituzionale che convenzionale, che «tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa».
Più avanti, ha affermato che «alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale successiva alla sentenza D., risulti oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta dell’art. 1, numero 2), della legge n. 1423 del 1956, poi confluita nell’art. 1, lettera b), del d.lgs. n. 159 del 2011, sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente In anticipo in quali «casi» – oltre che in quali «modi» – essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca.
La locuzione «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» è oggi suscettibile, infatti, di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato.
Tale Interpretazione della fattispecie permette di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte europea, ma sulla quale aveva già richiamato l’attenzione la sentenza n. 177 del 1980 di questa Corte – di individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura.
Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso dì specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di i a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.
Ai fini dell’applicazione della misura personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, al riscontro processuale di tali requisiti dovrà naturalmente aggiungersi la valutazione dell’effettiva pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011».
5. L’analisi del complessivo sviluppo delle argomentazioni espresse dalla Corte Costituzionale porta a ritenere che la tipologia di decisione emessa — quanto ai contenuti della previsione di legge superstite — sia quella di una c.d. «interpretativa di rigetto», che, nel comporre il denunziato contrasto tra la norma di legge ordinaria e il contenuto di quelle costituzionali, descrive il percorso interpretativo idoneo ad evitare la demolizione della prima, riconoscendolo, in larga misura, in quello già espresso in numerosi arresti da questa Corte di legittimità.
Già ad immediato ridosso della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, è stato, in particolare, chiarito (Sez. 1, n. 14629 del 05/03/2019, Calabretto, non massimata) che proprio la ricognizione del contenuto di tali arresti, citati in motivazione, ha consentito alla Corte Costituzionale di superare i dubbi sollevati in sede sovranazionale, e segnatamente nella già evocata sentenza resa dalla Corte EDU nel procedimento D. contro Italia, essendosi nel tempo stabilizzata una chiave di lettura della disposizione che, attraverso il recupero di connotati di tassatività, assicura la predeterminazione legale dei «tipi di comportamento» assunti a presupposto delle misure, sia personali che patrimoniali.
Sul tema del valore ermeneutico delle decisioni interpretative di rigetto si è, d’altro canto, di recente espressa questa Corte, ribadendo, a conferma dell’indicazione fornita, in passato, dalle Sezioni Unite (n. 25 del 16/12/1998, dep. 1999, Alagni, Rv. 212075), che «In tema di misure di prevenzione, la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della fattispecie di pericolosità generica prevista dall’art. 1, co. 1, lett. a), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, assume, in rapporto alla fattispecie di cui all’art. 1, lett. b), del citato d.lgs., che ha superato indenne il vaglio della Corte, la valenza di sentenza interpretativa di rigetto, con la conseguenza che, in sede di applicazione di tale ultima norma, deve prestarsi osservanza all’esegesi offertane dalla sentenza stessa, salvo che emergano validi motivi contrari, da illustrarsi compiutamente alla stregua di una puntuale e rafforzata motivazione» (Sez. 1, n. 27696 del 01/04/2019, Immobiliare Peonia s.r.l., Rv. 275888).
6. Nella cornice così delineata, deve attestarsi la conformità della valutazione operata dalla Corte di appello alle precise e puntuali indicazioni che promanano, a livello interpretativo, dal recente intervento della Consulta.
La prova che A.M. sia stato persona abitualmente dedita alla commissione di delitti è stata, invero, tratta, in primo luogo, dagli esiti dei procedimenti penali nei quali egli è stato coinvolto.
La Corte di appello ha, in proposito, esposto che M. ha riportato numerose condanne definitive, oltre che per fattispecie successivamente depenalizzate, per reati dai quali è ragionevole ritenere che egli abbia tratto indebito ed ingente profitto patrimoniale.
Ha, in particolare, fatto riferimento alla sentenza emessa dalla Corte di appello di Brescia il 9 gennaio 2012 (e non 2002, come, per mero refuso, indicato nel decreto impugnato), che ha acclarato la sua dedizione, a partire dal 2003, a reati di natura finanziaria, commessi nell’esercizio di attività di commercio ed importazione di autovetture, nonché di quelli di occultamento e distruzione di scritture contabili e dichiarazione fraudolente mediante uso di fatture per operazioni inesistenti.
Ha, esemplificativamente, ricordato che M. è stato condannato, quale amministratore unico della I.T. s.r.l., per evasione, nel solo anno 2004, di imposte dirette per euro 1.446.705,57 ed IVA per euro 865.591,74 e che, nel 2003, la medesima società ha inserito nelle dichiarazioni dei redditi elementi passivi fittizi, portati da fatture per operazioni inesistenti emesse dalla AMS s.r.l., per euro 508.330,70, con omesso versamento di IVA per euro 101.666,54.
Ha, quindi, ricordato che M., nel 2012, è stato condannato per avere distratto, quale amministratore di fatto della F. s.r.l., beni per il valore di £. 14.239.300, ed avere tenuto le scritture contabili in modo tale da rendere impossibile la ricostruzione dei volumi di affari della società.
Ha dato conto di ulteriori vicende, processualmente accertate ancorché non consacrate in sentenze irrevocabili di condanna, attestanti che egli ha avuto disponibilità economiche sproporzionate per eccesso rispetto alle apparenti e lecite capacità reddituali ed ha, a più riprese ed almeno sino al 2009, distratto rilevanti somme di denaro da società nella cui gestione egli, direttamente o tramite la compagna, era coinvolto.
Se a ciò si aggiunge che M. ed i suoi familiari, nel periodo interessato dagli incrementi patrimoniali de quibus agitur, hanno mantenuto un tenore di vita assolutamente incompatibile con i redditi di fonte lecita da loro percepiti tra il 1992 ed il 2016, si comprende come la prognosi di pericolosità sociale sia stata effettuata sulla scorta di un univoco quadro fattuale, attestante che egli, per circa quattro lustri, ha tratto le proprie fonti di sostentamento dal sistematico e professionale ricorso all’illecito.
La Corte di appello ha, dunque, concluso nel senso che la commissione di una miriade di condotte di rilevanza penale, le modalità della loro consumazione ed il prolungato squilibrio tra entrate lecite ed esborsi concorrono ad attestare che M. era persona che commetteva abitualmente delitti, viveva, almeno in parte, con i profitti in tal modo conseguiti ed era, pertanto, socialmente pericolosa.
7. Al cospetto di un apparato argomentativo di assoluta linearità e coerenza, rispettoso dei principi e dei criteri enunciati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, i ricorrenti oppongono obiezioni di tangibile sterilità, del tutto inidonee a comprovare la dedotta violazione di legge.
Pongono l’accento sulla sopravvenuta penale irrilevanza della miriade di condanne per emissione di assegni a vuoto che, lungi dal costituire elemento fondante del giudizio postumo di pericolosità sociale, si risolve in un elemento di contorno, che concorre a descrivere la personalità di A.M. quale imprenditore spregiudicato e poco propenso al rispetto delle regole della civile convivenza e del commercio.
Obiettano che, in alcuni casi, non è stata acquisita la prova, nell’an e nel quantum, della percezione di profitti in conseguenza della commissione dei reati commessi dal congiunto, così trascurando che la confisca non è stata disposta in ragione dell’effettiva derivazione dei beni acquisiti dalla consumazione di specifici reati ma, piuttosto, per la tangibile sproporzione tra il valore delle acquisizioni e l’ammontare dei redditi di matrice lecita, vagliata anche in relazione al tenore di vita condotto dalla famiglia M. ed agli esborsi affrontati per sostenerlo.
In proposito, è utile ricordare, a confutazione delle doglianze dei ricorrenti, che i redditi familiari prodotti dal nucleo familiare tra il 1992 ed il 2016 ammontano complessivamente ad euro 393.227, per una media annuale di poco superiore a 15.000 euro, e che il confronto con le spese, calcolate in ossequio alle indicazioni fornite dall’ISTAT, evidenzia un saldo negativo di euro 465.657, pari ad oltre 18.000 euro annui.
Del tutto generica si palesa, sotto questo profilo, l’ulteriore doglianza, afferente alla correlazione temporale tra i reati accertati e gli arricchimenti patrimoniali, che la Corte di appello ha ritenuto, in forza di argomentazioni della cui ragionevolezza non vi è motivo di dubitare e che sono pienamente coerenti con le emergenze istruttorie, essere frutto di attività criminose poste in essere nell’arco del lunghissimo torno di tempo scandito, da un canto, dal compimento di condotte sintomatiche di pericolosità sociale e, dall’altro, da ininterrotta ed eclatante sproporzione tra le entrate lecite e le spese dell’intero nucleo familiare.
A.M., in altri termini, si è rivelato, a partire quantomeno dal 1994 e, praticamente, sino alla vigilia del suo decesso, soggetto propenso alla consumazione di reati suscettibili di garantirgli una notevolissima provvista economica e finanziaria, ciò che vale senz’altro a giustificare, carente la prova dell’impiego di risorse di origine lecita, la confisca dei beni acquisiti in costanza di pericolosità sociale.
8. Privo di pregio si palesa, del pari, il secondo ed ultimo motivo di ricorso, con il quale si contestano le valutazioni operate dalla Corte di appello in ordine alla fittizietà dell’intestazione dei beni confiscati in capo agli odierni ricorrenti ed alla loro effettiva disponibilità in capo al defunto compagno e padre.
Sul punto, occorre muovere dalla considerazione dei redditi lecitamente prodotti da A.P.R., pari ad appena 106 mila euro in ventotto anni, per una media annuale di euro 3.800,95, dalla figlia S.M., che dal 2011 ha prodotto redditi per una media annuale di euro 4.288,50, e dal figlio A.M., il quale, tra il 2013 ed il 2016, ha dichiarato redditi per una media annuale di euro 3.764,56.
Ciò posto, la Corte di appello ha, con motivazione congrua, disatteso l’argomento difensivo, vertente sulla percezione, da parte della P. e negli anni 2009-2010, pressappoco coincidenti con l’acquisto degli immobili in Bergamo e Trescore Balneario, intestati a lei ed alla figlia, di entrate per complessivi euro 446.793.
Ha, specificamente, rilevato che la vendita di una quota societaria, per il prezzo di euro 147.500, non giova alla causa della P. per essere rimasta sconosciuta la provenienza della somma impiegata dalla donna per l’acquisizione della partecipazione.
Analogamente, ha osservato che il riscatto di polizze assicurative vita per euro 108.000 nulla dice in ordine alla provenienza degli importi in precedenza destinati al pagamento dei premi.
Ha ancora, stimato che il versamento, da parte di E.M., fratello di A., di quasi quarantamila euro, effettuato nel 2010, appare, in sostanza, privo di credibile causale — tale non essendo l’evocazione di un prestito in favore di A. — e, quanto al rientro dalla Svizzera, di euro 149.979,02, funzionale alla regolarizzazione ai sensi del d.l. 3 agosto 2009, n. 102 (c.d. «scudo fiscale»), che la non perseguibilità, sotto il profilo amministrativo, tributario e penale, della disponibilità di somme all’estero non esclude, di per sé, la necessità, al fine di evitare la confisca, di offrire una congrua giustificazione, che la P.R. non ha dato, in ordine alla corrispondenza tra le somme rimpatriate o regolarizzate ed il frutto delle violazioni penaltributarie contestate e non punibili.
Ha, infine, ritenuto che A.M. abbia avuto, sin dal 1997, la titolarità della villa in Ponteranica che, intestata al fratello F. ma sempre da lui utilizzata in via esclusiva, è stata infine formalmente trasferita, nel 2015, a Selene ed A. per un prezzo largamente inferiore a quello di mercato e, peraltro, neanche materialmente incassato dall’apparente venditore.
9. Il percorso argomentativo seguito dalla Corte di appello di Brescia appare, anche in questo caso, tetragono alle contestazioni dei ricorrenti che, quanto agli importi tratti dalla cessione della partecipazione societaria e dal riscatto delle polizze assicurative, si risolvono, in buona sostanza, nella proposizione di una ricostruzione alternativa rispetto a quella concordemente avallata dai giudici di merito, in quanto tale inidonea ad evidenziare fratture logiche o crismi di contraddittorietà in una motivazione che, per di più, può essere censurata in sede di legittimità, secondo quanto sopra precisato, solo se carente o apparente e non anche se affetta da un mero deficit razionale.
Allo stesso modo, i ricorrenti non si affrancano da un approccio ispirato alla mera confutazione laddove sostengono, in dissenso con la Corte di appello, che la villa di Ponteranica è stata effettivamente acquistata dai germani Selene ed A.M. nel 2015 e per il prezzo di 120.000.
La P.R. ed i fratelli M. non si confrontano, invero, con gli elementi valorizzati dai giudici di merito, che hanno tratto argomento, innanzitutto, dalla costante e risalente disponibilità del bene in capo ad A.M., alla moglie ed ai figli e dall’assenza di interesse dell’apparente proprietario ad effettuare un cospicuo investimento in un’area lontana da quella di sua residenza e ad esclusivo vantaggio del fratello, cui egli, secondo la prospettazione dei ricorrenti, avrebbe concesso il bene in comodato.
Nello stesso senso militano, del resto, la sproporzione tra il prezzo di vendita e l’effettivo, e di gran lunga superiore, valore del bene e l’omesso incasso dell’assegno che la P.R., rappresentante dei figli, risulta avere consegnato in pagamento al venditore: questi, opina correttamente la Corte di appello, si è prestato, per molti, anni a svolgere il ruolo di fittizio intestatario di un compendio immobiliare di notevoli pregio e consistenza (trattasi, infatti, di una villa sulla quale insistono tre unità abitative, per l’estensione di mq. 452, circondate da rea verde, giardino e piscina) che, in realtà, rientrava nella sfera patrimoniale di A.M. il quale, nel 1997 (epoca in cui si era già manifestata la sua pericolosità sociale), ha destinato al suo acquisto risorse finanziarie ricavate dalla perpetrata attività illecita.
In ordine, infine, al rientro di capitali già detenuti in Svizzera, improprio si palesa il richiamo, da parte dei ricorrenti, alla causa di non punibilità introdotta dall’art. 13-bis, D.L. 1 luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla I. 3 agosto 2009, n. 102, relativa al rimpatrio di attività finanziarie e patrimoniali detenute irregolarmente fuori dal territorio dello Stato (cosiddetto «scudo fiscale»), che, per conforme indirizzo giurisprudenziale, opera soltanto in relazione a reati fiscali nella cui condotta rilevano i capitali trasferiti e posseduti all’estero e successivamente oggetto di rimpatrio (Sez. 3, n. 41947 del 02/07/2014, Società Rentcar Chartering Gmbh, Rv. 261395; Sez. 3, n. 28724 del 05/05/2011, Lamprecht, Rv. 250605), sicché, di conseguenza, grava sul soggetto interessato l’onere di indicare gli specifici elementi da cui desumere che le somme rimpatriate o regolarizzate corrispondono esclusivamente a quelle oggetto delle violazioni penaltributarie a lui contestate (Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply soc. coop, Rv. 277225; Sez. 3, n. 2221 del 06/10/2015, dep. 2016, Grossi, Rv. 266012).
Sul punto, a fronte dell’eccezione dei ricorrenti, secondo cui l’indicato onere di allegazione graverebbe, in materia di prevenzione, sul proposto e non anche sui terzi interessati, deve replicarsi che la precisa enucleazione degli effetti del rimpatrio e della contestuale regolarizzazione e, dunque, dei limiti di operatività del c.d. «scudo» non risente della veste nella quale il soggetto interessato è attinto dalla procedura di prevenzione, in un caso e nell’altro discutendosi dell’attitudine della disponibilità estera a dimostrare che il proposto — se del caso trincerandosi dietro lo schermo di familiari conniventi — ha costituito una provvista che, non ricollegabile a fonti lecite, deve ritenersi frutto della commissione di reati espressione della sua pericolosità sociale generica, non coincidenti con le violazioni tributarie, di rilievo penale, protette dalla normativa sul rientro dei capitali dall’estero.
Né, va aggiunto, può porsi, come ventilato dai ricorrenti con il conforto di un isolato e non condiviso precedente (Sez. 5, n. 14692 del 23/09/2019, dep. 2010, Isoldi, non massimata), una questione di applicazione retroattiva della normativa che ha esteso l’ambito di applicazione della confisca di prevenzione nei confronti di soggetti portatori di pericolosità sociale generica, avendo la giurisprudenza di legittimità, nella sua massima espressione, illo tempore chiarito che «accanto alle misure di prevenzione personali, pure quelle patrimoniali del sequestro e della confisca possono essere applicate nei confronti di soggetti ritenuti socialmente pericolosi perché abitualmente dediti a traffici delittuosi, o perché vivono abitualmente – anche solo in parte – con i proventi di attività delittuose, a prescindere dalla tipologia dei reati in riferimento» (Sez. U, n. 13426 del 25/03/2010, Cagnazzo, Rv. 246272).
10. Dal rigetto dei ricorsi discende la condanna di A.P.R., S.M. ed A.M. al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616, comma 1, primo periodo, cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
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