Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 32364 depositata il 19 luglio 2019
frode fiscale – reato di pericolo – sussiste
Massima
Per la condanna per frode fiscale è sufficiente che l’imprenditore accetti il rischio che con la presentazione della dichiarazione dei redditi compilata con false fatture possa generare un’evasione d’imposta anche se poi effettivamente non vi è stata. Il reato è infatti punibile a titolo di dolo eventuale.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza adottata in data 14 dicembre 2018, e depositata in data 11 gennaio 2019, il Tribunale di Roma ha respinto l’istanza di riesame presentata da M.F. avverso il provvedimento emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma che aveva disposto il sequestro preventivo dei saldi attivi e dei beni intestati alla “T.I. s.r.l.” fino a concorrenza della somma di 616.246,37 Euro, finalizzato alla confisca diretta, nonché, in subordine, in caso di insufficienza di questi beni, il sequestro preventivo dei saldi attivi giacenti sui rapporti finanziari riconducibili al medesimo M.F., nonché ai coindagati B.I. e M.M., finalizzato alla confisca per equivalente.
Il sequestro preventivo si riferisce al profitto del reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 3, contestato con riferimento alla dichiarazione fraudolenta presentata dalla “T.I. s.r.l.” nel settembre del 2013, quando il ricorrente era amministratore delegato dell’impresa, nella parte relativa all’indicazione ai fini IVA per l’anno 2012 di elementi attivi non imponibili, derivanti dalla vendita di autoveicoli, per un ammontare pari ad Euro 2.934.506,50, con evasione di imposta pari a 616.246,37 Euro. Precisamente, la “T.I. s.r.l.” acquistava dalle case produttrici veicoli che, dopo avere utilizzato per il noleggio a breve termine, o rivendeva a terzi o restituiva alle medesime case produttrici, e riceveva da queste, nel caso di rivendita a terzi, “bonus” in denaro. Gli elementi attivi, indicati nella dichiarazione del 2013 come non imponibili perché riferiti a vendite ad operatori dichiaratisi esportatori abituali, secondo i giudici di merito, e quindi operanti in regime di sospensione IVA, sono da ritenere invece soggetti a tale imposta, in quanto detti acquirenti: a) erano soggetti commerciali che non presentavano dichiarazioni fiscali né versavano imposte; b) trasferivano i beni ad operatori italiani e non esteri, in violazione del regime di sospensione di IVA, previsto per le vendite all’esportazione; c) operavano “sotto-costo”, approfittando del prezzo ridotto corrisposto alla “T.I. s.r.l.” per gli acquisti effettuati in regime di esenzione dell’IVA, ed omettendo di versare l’imposta dovuta al momento della rivendita, così da consentire, da un lato, ai loro acquirenti di ottenere prezzi vantaggiosi attraverso pagamenti formalmente regolari quanto al versamento dell’IVA, e, dall’altro, alla “T.I. s.r.l.” di incassare i “bonus” corrisposti dalle case produttrici di automobili per le rivendite a terzi.
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso l’ordinanza indicata in epigrafe l’avvocato Francesco Compagna, difensore di M.F., articolando un unico motivo, con il quale si denuncia violazione di legge, in riferimento al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3, e artt. 43 e 110 c.p., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., avendo riguardo alla configurabilità dell’attribuibilità del reato all’indagato.
Si osserva che il fumus commisis delicti a carico del ricorrente per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3, è stato affermato ravvisando una responsabilità da posizione perché: a) le vendite “sospette” sono pari ad una frazione compresa tra il 5 ed il 10 % dell’intero volume delle vendite del gruppo di cui fa parte la “T.I. s.r.l.”; b) gli accertamenti per individuare le irregolarità sono stati “difficoltosi” anche per il Fisco; c) il ricorrente è divenuto amministratore dell’ente solo nel dicembre 2012, non ha seguito le operazioni di vendita, concretamente affidate ai coindagati B.I. e M.G., si è occupato esclusivamente dei rapporti dell’azienda con gli istituti di credito, e non ha sottoscritto la dichiarazione IVA in contestazione, presentata invece da B.I..
Si deduce che illegittimamente l’ordinanza impugnata ha ritenuto configurabile una responsabilità da posizione, in presenza di violazioni non suscettibili di accertamento sulla base di verifiche minime della contabilità, perché, anche ai soli fini dell’applicazione della misura del sequestro preventivo, è comunque necessario comprovare la sussistenza del necessario elemento soggettivo del reato sulla base di elementi specifici.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito precisate.
2. Il ricorrente contesta che l’ordinanza impugnata non ha evidenziato elementi idonei a far ravvisare la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in capo al ricorrente.
2.1. Le indicate censure richiedono, per una corretta decisione, alcune puntualizzazioni di ordine sostanziale e processuale.
2.1.1. Relativamente ai profili sostanziali, occorre precisare quali siano l’esatta definizione giuridica del fatto per cui si procede e l’elemento psicologico necessario ai fini della configurabilità del reato prospettabile.
Va rilevato, innanzitutto, che il fatto descritto in contestazione, anche alla luce di quanto evidenziato nell’ordinanza impugnata e nei ricorsi, è sussumibile nella fattispecie prevista dall’art. 2, e non in quella contemplata dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3, perché lo stesso si fonda sull’utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti a supporto di dichiarazioni fiscali.
Invero, si è già evidenziato che, anche seguito della novella apportata dal D.Lgs. n. 158 del 2015, la quale ha aggiunto il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, lett. g bis, la condotta di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non è assorbita in quella di compimento di operazioni simulate soggettivamente, in quanto in base alla immutata definizione contenuta nella lett. a) del D.Lgs. n. 74 del 2000, stesso art. 1, sono fatture per operazioni inesistenti anche quelle che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi, e che, quindi, il discrimine tra i reati previsti, rispettivamente, dal D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 3, non è dato dalla natura dell’operazione, ma dal modo in cui essa è documentata (così Sez. 3, n. 38185 del 11/04/2017, Pozzi, Rv. 270692-01).
Data questa precisazione, deve aggiungersi che, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza, il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, è configurabile a titolo di dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA (cfr., specificamente, Sez. 3, n. 52411 del 19/06/2018, B., Rv. 274104-01, e Sez. 3, n. 30492 del 23/06/2015, Damiani, Rv. 264395-01).
2.1.2. Per quanto concerne i profili processuali, è utile indicare quali sono i limiti concernenti l’accertamento dell’elemento psicologico del reato ai fini dell’adozione di una misura cautelare reale.
Innanzitutto, ai fini dell’accertamento dei presupposti per l’applicazione del sequestro preventivo, il difetto dell’elemento psicologico del reato è sì rilevabile, ma solo se tale circostanza sia di immediata evidenza. Infatti, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, il giudice, siccome tenuto a procedere ad una valutazione sommaria in ordine al fumus del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata, può rilevare il difetto dell’elemento soggettivo del reato, ma sempre che tale circostanza risulti ictu oculi (cfr. tra le tante: Sez. 2, n. 18331 del 22/04/2016, Iommi, Rv. 266896-01; Sez. 6, n. 16153 del 06/02/2014, Di Salvo, Rv. 259337-01; Sez. 1, n. 21736 del 11/05/2007, Citarella, Rv. 236474-01).
Inoltre, anche secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, nel giudizio di cassazione in materia di sequestro preventivo, i vizi della motivazione sono rilevabili solo se così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (così Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692-01, nonché, di recente, Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Napoli, Rv. 269656-01).
2.2. Nella specie, l’ordinanza impugnata ha indicato analiticamente sia gli elementi da cui desumere il fumus del reato, sia gli elementi da cui inferire la consapevole partecipazione del ricorrente alla commissione dello stesso.
La frode in contestazione si assume realizzata nel 2012 mediante operazioni di vendita documentate da fatture registrate nella contabilità della “T.I. s.r.l.”, e poi riportate nella dichiarazione presentata nel 2013, per un ammontare pari a 2.934.506,50 Euro, con evasione di IVA pari a 616.246,37 Euro, in una data in cui il ricorrente era componente del consiglio di amministrazione della medesima società. La frode, secondo l’ordinanza, è stata commessa attraverso vendite di veicoli dalla “T.I. s.r.l.” a società le quali, dichiarandosi esportatrici abituali, acquistavano in regime di sospensione di IVA, ossia senza alcun versamento di IVA, e, poi, invece di rivendere all’estero, rivendevano ad operatori italiani, “sotto-costo”, e precisamente ad un prezzo inferiore a quello di acquisto ove non si fosse considerata la somma indicata per questa imposta nelle fatture emesse verso i terzi. Le condotte fraudolente erano state economicamente possibili perché le società false esportatrici abituali, da un lato, avevano acquistato in regime di sospensione IVA, e, quindi, ad un prezzo dal quale era “correttamente” detratta VIVA, e, dall’altro, avevano rivenduto caricando questa imposta sulle corrispondenti fatture emesse verso gli acquirenti, ma senza versarla, come invece avrebbero dovuto per aver effettuato le vendite in Italia anziché all’estero, ed anzi omettendo di presentare qualunque dichiarazione fiscale. Secondo i giudici del riesame, la “T.I. s.r.l.” aveva ricavato vantaggio dalla frode perché, approfittando del regime di sospensione di IVA cui abusivamente ricorrevano le società false esportatrici abituali, aveva trovato acquirenti disponibili per 2.934.506,50 Euro: in questo modo, infatti, la “T.I. s.r.l.” aveva potuto rivendere a terzi le automobili acquistate dalle società produttrici, invece che restituirle a queste ultime, e così lucrare i “bonus” previsti da dette società per il caso di cessione dei veicoli a terzi, invece che di restituzione.
Per quanto attiene specificamente alla posizione del ricorrente, il Tribunale rappresenta che: a) lo stesso era componente del consiglio di amministrazione ed amministratore delegato della “T.I. s.r.l.” già dal dicembre 2012, e quindi da molti mesi prima del settembre 2013, epoca in cui era stata presentata la dichiarazione fiscale che si assume essere mendace; b) la dichiarazione fiscale indicata, pur essendo stata sottoscritta dal coindagato B.I., è comunque riferibile a tutti i componenti del consiglio di amministrazione della società, quale organo deliberativo della persona giuridica; c) sin dal luglio 2012, la società era formalmente sottoposta ad attività ispettiva, ed aveva subito un accesso da parte dei funzionari dell’Ufficio centrale Antifrode, con effettuazione di specifici controlli sulle operazioni di cessioni non imponibili a terzi operanti in regime di sospensione IVA, ed anzi, nel marzo 2013, era stato formalmente sentito dagli inquirenti il coindagato B.I.. Il Tribunale, poi, conclude che le circostanze indicate sono idonee a far ravvisare quanto meno il dolo eventuale del ricorrente in ordine all’uso di documenti falsi a supporto della dichiarazione fiscale per il 2013, nel momento in cui è stato deliberato di presentarla.
2.3. L’ordinanza impugnata, in considerazione dei principi giuridici applicabili e degli elementi da essa esposti in motivazione, è immune da vizi logici o giuridici.
In effetti, il Tribunale, anche quando affronta il tema dell’elemento soggettivo del ricorrente, ossia il profilo sulla cui configurabilità si appuntano le specifiche critiche dell’atto di impugnazione, fa riferimento a categorie giuridiche corrette, nella parte in cui evoca la figura del dolo eventuale. Inoltre, in riferimento a tale punto, posto che il parametro di riferimento per il giudizio sulla legittimità dell’applicazione di una misura cautelare reale è costituito dal fumus commissi delicti, e non dai gravi indizi di colpevolezza, la motivazione della decisione impugnata non può dirsi meramente apparente o comunque non intellegibile.
3. All’infondatezza delle censure proposte segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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