Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 32461 depositata il 19 luglio 2019
Misura di prevenzione patrimoniale – Imprenditore – Frode fiscale – Cospicua entità – Sussiste
Massima
E’ legittima la misura di prevenzione patrimoniale della confisca ben potendosi considerare pericoloso l’imprenditore che ha escogitato un meccanismo ormai collaudato per frodare il fisco, dovendosi considerare l’imponenza del debito maturato nei confronti dell’erario, la professionalità dimostrata dal proposto e la sicura rilevanza delittuosa dei comportamenti ascritti.
RITENUTO IN FATTO
1. S.N., quale proposto, e S.T., S.C., G.P. e A. Group Spa, nella veste di terzi interessati, ricorrono con il ministero dei rispettivi difensori, per la cassazione del decreto reso in data 15 settembre 2017, con il quale la Corte di appello di Milano ha respinto il gravame interposto avverso il decreto del Tribunale della stessa città, in data 18 ottobre 2016, che, respinta l’istanza di applicazione della misura di prevenzione personale nei confronti del proposto per difetto di attualità della pericolosità sociale, aveva disposto la confisca di una serie di beni mobili e immobili intestati alla A. Group Spa, alla Immobitalia Srl. e, comunque, nella disponibilità del S. e dei suoi familiari, ritenendo che il preposto vivesse abitualmente con i proventi di attività delittuosa: segnatamente da quelli derivanti dalla pluriennale attività di frode fiscale e di evasione tributaria, posta in essere, a partire dall’anno 1994 e perdurante almeno fino al 2014, attraverso un collaudo sistema fraudolento costituito dalla costituzione di una serie di società cooperative, coordinate da società consortili, predisposte al solo scopo di creare un’interposizione cartolare tra la società appaltatrice dei lavori di facchinaggio e di logistica (la società cd. consortile) e i lavoratori, così da consentire la creazione di costi fittizi per prestazioni inesistenti – rese dal consorzio alle cooperative consorziate -, che consentivano di abbattere o ridurre l’imponibile, o di crediti IVA da opporre in compensazione e generare riserve occulte di denaro – derivanti dal relativo risparmio di imposta – da destinare all’acquisito di beni. Risorse patrimoniali quelle derivanti dall’indicato “risparmio di spesa” – fuoriuscite dal patrimonio delle società consorziate e delle società cooperative mediante operazioni distrattive mascherate dietro il pagamento di spese per necessità aziendali o imprenditoriali (di pubblicità, di servizi amministrativi, di manutenzione del verde di pagamento di canoni di locazione per uso di immobili) in favore di società di dubbia esistenza ovvero orbitanti nel circuito del proposto e della sua famiglia.
2. Con l’atto di impugnativa i difensori dei ricorrenti eccepiscono:
2.1. la violazione del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 1, lett. b), ovvero, in subordine, l’illegittimità della stessa norma e di quelle di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 4, comma 1, lett. c), art. 16, comma 1, lett. a), in relazione agli artt. 41, 42 e 43 Cost., e art. 1, Prot. Add. CEDU, sul rilievo che l’interpretazione della norma di riferimento sposata dal giudice censurato, secondo cui anche le misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca possono essere applicate nei confronti di soggetti ritenuti socialmente pericolosi perché viventi abitualmente, anche solo in parte, con i proventi di attività delittuose, a prescindere dalla tipologia dei reati in riferimento, e secondo cui, attesa la natura preventiva della confisca emessa nell’ambito del procedimento di prevenzione, questa sarebbe suscettibile di colpire anche beni riferibili ai comportamenti posti in essere in epoca in cui non vi era alcuna norma che ne disponesse con chiarezza l’applicazione, si porrebbe in contrasto con i principi di legalità convenzionale, che postula la prevedibilità dei comportamenti colpiti da una qualsivoglia misura pregiudiziale per le libertà della persona e con i principi costituzionali di tutela della proprietà e della libertà di iniziativa economica privata; ciò tanto più che, per effetto della sentenza del 23 febbraio 2017 della Grande Camera della Corte Edu nel caso De Tommaso v. Italia, da considerare diritto convenzionale consolidato, quanto alla accessibilità del dato normativo e alla prevedibilità del precetto, il segnalato contrasto sarebbe divenuto non superabile mediante l’interpretazione adeguatrice apprestata dalla giurisprudenza di legittimità, di modo che il Collegio investito della decisione non si sarebbe potuto sottrarre dal sollevare la relativa questione di legittimità costituzionale, rilevante, nel caso sottoposto a scrutinio, perché all’epoca di acquisizione dei beni sottoposti a confisca – intorno all’anno 2000 – il proposto non aveva avuto la possibilità di rendersi conto di quali sarebbero state le conseguenze sul piano patrimoniale dei comportamenti asseritamente pericolosi posti in essere per assenza di base legale o per assenza di chiarezza del tessuto normativo;
2.2. la violazione dell’art. 199 c.p., e art. 25 Cost., comma 3, evidenziandosi come, per effetto della sentenza del 23 febbraio 2017 della Grande Camera della Corte Edu nel caso De Tommaso v. Italia – la quale, nel valutare la compatibilità con la Convenzione della disciplina delle misure di prevenzione personali (dettata dalla L. n. 1423 del 1956, riprodotta nel D.Lgs. n. 159 del 2011), sia quanto alla descrizione dei presupposti applicativi, che quanto alla indicazione dei contenuti prescrittivi, ha ritenuto che la stessa non contenesse “disposizioni sufficientemente dettagliate sui tipi di comportamento che dovevano essere considerati costituire un pericolo per la società” (p. 117) – (da considerare diritto convenzionale consolidato, con il conseguente riconoscimento del ruolo sovra legislativo nel sistema delle fonti e della sua capacità di conformare il diritto interno), si sia venuto a determinare un contrasto con il principio di legalità convenzionale e costituzionale applicabile anche alle misure di sicurezza e quindi alle misure di prevenzione, invero non sufficientemente tipizzate quanto alle categorie soggettive perché di conio giurisprudenziale;
2.3. la violazione del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 1, lett. b), nel punto in cui il giudice censurato aveva tratto elementi di valutazione, al fine di pervenire al convincimento di inquadramento del proposto nella categoria di soggetti che vivono anche in parte con i proventi di attività delittuose, da procedimenti e processi penali avviati e celebrati nei confronti dello stesso conclusisi con decreti di archiviazione e con sentenze di assoluzione;
2.4. la violazione dell’art. 2602 c.c., L. n. 537 del 1993, art. 14, D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2, 8, e 10 ter, laddove nel decreto impugnato si era sostenuto che la A. Group Spa. avesse ottenuto vantaggi fiscali che in realtà non gli sarebbero spettati, posto, che, invece, il meccanismo di fatturazione di prestazioni realmente rese nei confronti delle società cooperative era perfettamente in linea con la funzione tipica delle società consortili, le quali sono fiscalmente neutre perché non possono conseguire alcun vantaggio economico; che, anche a volere dare credito alla ricostruzione operata dalla Corte territoriale, i servizi resi dalle cooperative alle società appaltanti erano stati, comunque, effettivi, con la conseguenza che le fatture emesse dal Consorzio non potevano dirsi relative ad operazioni fittizie e i relativi costi erano da considerarsi deducibili; che non erano state prese in considerazione le deduzioni difensive e la documentazione versata a sostegno comprovanti che l’omesso versamento dell’IVA da parte dell’A. e di altre società della galassia S. era stata determinata da situazioni eccezionali ed imprevedibili di crisi di liquidità; che le spese di pubblicità e quelle sostenute per versare le previste indennità ai lavoratori erano state effettivamente sostenute, così come quelle relative al canone di locazione pagato dalla Immobitalia per l’uso del complesso immobiliare ove avevano sede sia la A. Group che le cooperative e ai servizi di amministrazione resi dalla Elco; che, ad ogni buon conto, il giudizio reso in punto di sproporzione tra i redditi del S. e quelli del suo gruppo familiare e il compendio dei beni nella loro disponibilità era manifestamente illogico.
3. Con requisitoria scritta, in data 30 ottobre 2018, il Procuratore Generale presso questa Corte, in persona del Sostituto Procuratore Generale D.C., ha chiesto rigettarsi i ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso nell’interesse del proposto S.N. è infondato, mentre i ricorsi nell’interesse dei terzi interessati S.T., S.C., G.P. e A. Group Spa sono inammissibili essendo stati sottoscritti da difensore non munito di procura speciale, e neppure dichiaratosi come procuratore speciale, valendo in tal senso il principio di diritto secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione proposto, avverso il decreto che dispone la misura di prevenzione della confisca, dal difensore del terzo interessato non munito di procura speciale, ex art. 100 c.p.p. (Sez. U, n. 47239 del 30/10/2014, Borrelli e altro, Rv. 260894).
1. L’eccezione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 1, lett. b), art. 4, lett. c), art. 16 lett. a), per contrasto con gli artt. 3, 41 e 42 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 1, Protocollo Addizionale CEDU, che si è chiesto a questa Corte di sollevare – con il primo e, implicitamente, con il secondo dei motivi di ricorso -, è stata, medio tempore, scrutinata dalla Corte Costituzionale e respinta con la sentenza 24 gennaio/27 febbraio 2019, n. 24, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale:
– della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 1, (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma della L. 13 agosto 2010, n. 136, artt. 1 e 2), nella parte in cui consente l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, anche ai soggetti indicati nel numero 1);
– della L. 22 maggio 1975, n. 152, art. 19, (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico), nel testo vigente sino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca previsti dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter, (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) si applicano anche alle persone indicate nella L. n. 1423 del 1956, art. 1, n. 1);
– del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 4, comma 1, lett. c), nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lett. a);
– del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 16, nella parte in cui stabilisce che le misure di prevenzione del sequestro e della confisca, disciplinate dagli artt. 20 e 24, si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, comma 1, lett. a).
1.1. Il Giudice delle legge, valorizzando gli approdi interpretativi della giurisprudenza di legittimità successivi alla sentenza emessa dalla Corte EDU, Grande Chambre, nel caso De Tommaso c. Italia, ha ritenuto, invece, che risulta oggi possibile assicurare in via interpretativa contorni sufficientemente precisi alla fattispecie descritta della L. n. 1423 del 1956, art. 1, n. 2), poi confluita nel D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 1, lett. b), che evoca la categoria di “coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”, sì da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali “casi” e in quali “modi” essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca.
Ha, perciò, precisato che:
1) “la locuzione “coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” è suscettibile di essere interpretata come espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di reato, tale ermeneusi consentendo di ritenere soddisfatta l’esigenza – sulla quale ha da ultimo giustamente insistito la Corte Europea, ma sulla quale aveva già richiamato l’attenzione la sentenza n. 177 del 1980 della Corte Costituzionale – di individuazione dei “tipi di comportamento” (“types of behaviour”) assunti a presupposto della misura. Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi “elementi di fatto”, di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13 Cost., comma 2) per cui deve trattarsi di:
a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto;
b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui;
c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.
Sicché: “Ai fini dell’applicazione della misura personale della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, al riscontro processuale di tali requisiti dovrà aggiungersi la valutazione dell’effettiva pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica, ai sensi del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 6, comma 1”.
Quanto alla misura di prevenzione patrimoniale della confisca, la Corte Costituzionale ha chiarito che i detti requisiti dovranno a loro volta essere accertati in relazione al lasso temporale nel quale si è verificato, nel passato, l’illecito incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare, “dal momento che, secondo quanto autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, la necessità della correlazione temporale in parola “discende dall’apprezzamento dello stesso presupposto giustificativo della confisca di prevenzione, ossia dalla ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita” (Corte di cassazione, Sezioni Unite, sentenza 26 giugno 2014-2 febbraio 2015, n. 4880): donde “l’ablazione patrimoniale si giustifica se, e nei soli limiti in cui, le condotte criminose compiute in passato dal soggetto risultino essere state effettivamente fonte di profitti illeciti, in quantità ragionevolmente congruente rispetto al valore dei beni che s’intendono confiscare, e la cui origine lecita egli non sia in grado di giustificare”.
Per tali ragioni, ha conclusivamente ritenuto non illegittima la disciplina riguardante la fattispecie normativa di cosiddetta “pericolosità generica” di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 1, lett. b).
1.2. Nella stessa sentenza, il Giudice delle leggi ha evidenziato come le misure di prevenzione non presuppongano l’instaurarsi di un processo penale nei confronti del soggetto destinatario: “Sufficiente e necessario a legittimarne l’applicazione… è, infatti, che l’attività criminosa – descritta nelle varie fattispecie elencate oggi nel D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 4, e il cui riscontro probatorio funge da base sulla quale sviluppare il giudizio in ordine alla pericolosità del soggetto per la sicurezza pubblica – risulti da evidenze che la legge indica ora come “elementi di fatto”, più spesso come “indizi”; evidenze che debbono essere vagliate dal tribunale nell’ambito di un procedimento retto da regole probatorie e di giudizio diverse da quelle proprie dei procedimenti penali”.
Da ciò ha tratto ragione per sostenere che le garanzie che, dal punto di vista costituzionale e convenzionale, le circondano non sono le stesse che riguardano i reati e le pene. Ha, in tal senso, sottolineato che: “La circostanza che, ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione personale, sono comunque necessari elementi che facciano ritenere pregresse attività criminose da parte del soggetto, non comporta che le misure in questione abbiano nella sostanza carattere sanzionatorio-punitivo, sì da chiamare in causa necessariamente le garanzie che la CEDU, e la stessa Costituzione, sanciscono per la materia penale. Imperniate come sono su un giudizio di persistente pericolosità del soggetto, le misure di prevenzione personale hanno una chiara finalità preventiva anziché punitiva, mirando a limitare la libertà di movimento del loro destinatario per impedirgli di commettere ulteriori reati, o quanto meno per rendergli più difficoltosa la loro realizzazione, consentendo al tempo stesso all’autorità di pubblica sicurezza di esercitare un più efficace controllo sulle possibili iniziative criminose del soggetto. L’indubbia dimensione afflittiva delle misure stesse non è, in quest’ottica, che una conseguenza collaterale di misure il cui scopo essenziale è il controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato: non già la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato“.
Ha, quindi, dato seguito all’orientamento espresso dalla giurisprudenza costituzionale secondo il quale le misure di prevenzione personali non soggiacciano ai principi dettati, in materia di diritto e di processo penale, dall’art. 25 Cost., comma 2, art. 27 Cost., 111, commi 3,4 e 5, e art. 112 Cost., ed ha efficacemente ricordato come la stessa Corte EDU, nella sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia, paragrafo 143 abbia espressamente escluso che le misure di prevenzione personali sottoposte al suo esame costituiscano sanzioni di natura sostanzialmente punitiva, come tali soggette ai vincoli che la Convenzione detta in relazione alla materia penale.
2.3. Alla luce dei richiamati principi, che valgono ovviamente anche per le misure di prevenzione patrimoniale, con le aggiunte di cui si è dato atto nel paragrafo precedente, deve, quindi, riaffermarsi il principio di diritto enunciato dal diritto vivente secondo cui le misure di prevenzione patrimoniali, in ragione del loro carattere preventivo, sono assimilabili alle misure di sicurezza e come tali sono sottoposte al principio di legalità ai sensi dell’art. 199 c.p., ma soggiacciono alla norma di cui all’art. 200 c.p., e, quindi, al principio tempus regit actum (Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014 – dep. 02/02/2015, Spinelli e altro, Rv. 262602). Deve, al riguardo, sottolinearsi come l’intervento auspicato dal ricorrente, volto, nella sostanza, a riconoscere alla confisca di prevenzione – sottoposta al principio dell’applicazione della legge vigente al momento della decisione – i caratteri propri della sanzione penale – sottoposta, invece, al principio della legge vigente al momento del fatto, salvo il caso di legge successiva più favorevole si tradurrebbe in una innovazione conseguente ad una scelta di politica criminale che non rientra nei poteri del giudice delle leggi, ma è di esclusiva spettanza del legislatore.
Va dato atto, peraltro, che la Corte EDU, nel caso Marrandino c. Italia (Commissione, 15 aprile 1991), ha preso posizione sul tema specifico dell’applicazione retroattiva delle misure in parola – lamentandosi il ricorrente della confisca di beni acquistati prima dell’entrata in vigore della L. n. 646 del 1982, con cui era stata introdotta nell’ordinamento italiano la confisca di prevenzione – ed ha affermato la valida applicazione della confisca sul rilievo che: “ciascuno dei beni in questione era stato acquistato irregolarmente e che il ricorrente potesse utilizzarli per scopi illeciti in danno della società; ciò è consentito, visto il margine di discrezionalità di cui godono gli Stati quando controllano l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale, particolarmente nel contesto di una politica diretta a contrastare la criminalità grave”.
3. Il terzo di motivo di ricorso è infondato.
3.1. Come ricordato dal Giudice delle leggi, nella sentenza n. 24 del 2019, la Corte di cassazione – in sede di interpretazione del requisito normativo, che compare nel D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 1, lett. b), degli “elementi di fatto” su cui l’applicazione della misura deve basarsi -, ha affermato che “il giudice della misura di prevenzione può ricostruire in via totalmente autonoma gli episodi storici in questione – anche in assenza di procedimento penale correlato – in virtù della assenza di pregiudizialità e della possibilità di azione autonoma di prevenzione” (Sez. 1, n. 43826 del 19/04/2018, R., Rv. 273976), anche se ha precisato che non sono sufficienti meri indizi, perché la locuzione utilizzata va considerata volutamente diversa e più rigorosa di quella utilizzata dal D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 4, per l’individuazione delle categorie di cosiddetta pericolosità qualificata, dove si parla di “indiziati” (Sez. 1, n. 43826/2018), e che: “In tema di misure di prevenzione, il concetto di abitualità rilevante ai fini della pericolosità generica deve essere valutato tenendo conto del pregresso accertamento in sede penale, ancorché non definito da una sentenza di condanna, relativo all’accertamento dell’avvenuta commissione di delitti dai quali il proposto avrebbe tratto proventi illeciti” (Sez. 6, n. 53003 del 21/09/2017, D’Alessandro e altro, Rv. 272268).
3.2. Alla stregua di tali premesse e scrutinati i connotati fattuali della vicenda all’esame sulla base dei presupposti relativi alla identificazione del soggetto socialmente pericoloso rientrante nella categoria di cui all’art. 1, lett. b), D.Lgs. n. 159 del 2011 enucleati dalla Corte costituzionale, deve ritenersi immune dal vizio di violazione di legge denunciato l’inquadramento del proposto quale soggetto ritraente le proprie fonti di arricchimento, in maniera consistentemente significativa, dalla realizzazione sistematica di reati di frode fiscale e di evasione delle imposte, siccome desumibile dai precedenti penali e giudiziari, partitamente passati in rassegna dalla Corte territoriale: segnatamente dalla sentenza del 16 maggio 2002 della Corte di appello di Milano che, nell’ambito del procedimento n. 2375/1998, aveva condannato il S. per il delitto di corruzione ed aveva, comunque, accertato il collaudato modus operandi di frode all’Erario posto in essere dal predetto attraverso il consorzio C.; dal procedimento n. 27410/2013, pendente a carico di questi e di altri, nell’ambito del quale era stata adottata nei confronti del proposto misura cautelare personale in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis c.p., per la promozione e la costituzione, nonché la direzione, di un’organizzazione criminale finalizzata alla commissione dei delitti di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2, 8 e 10 ter; dal procedimento n. 1423/2016 sempre per delitti di frode in danno dell’Erario commessi mediante l’emissione di fatture fittizie da parte di società estere, nel quale era stato emesso l’avviso di conclusione delle indagini.
Ad avviso della Corte territoriale censurata, dagli atti dei procedimenti e processi richiamati era, infatti, possibile desumere comportamenti concreti – ad esempio le stesse ammissioni del S., riportate dalla sentenza della Corte di appello di Milano del 16 maggio 2002 (pag. 21 decreto impugnato) in ordine a sue condotte elusive degli obblighi fiscali – sintomatici della pericolosità generica del proposto.
Le ridette pendenze giudiziarie del soggetto inciso, ma, soprattutto, gli accertamenti compiuti, nell’ambito dei processi e procedimenti penali che l’avevano visto coinvolto anche quelli conclusisi con il suo proscioglimento – e nel contesto di verifiche fiscali condotte a suo carico, lumeggiavano un giudizio di pericolosità sociale, formulato relativamente ad un arco temporale ricompreso tra il 1994 e il 2014, che doveva ritenersi corroborato dal rilievo di redditi modesti in capo al S. e alle società a lui riconducibili – la C. e la A. Group – a fronte di una rilevantissima disponibilità patrimoniale, soprattutto nel settore immobiliare.
A sostegno del proprio convincimento circa l’esistenza dei requisiti stabiliti per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, la Corte di appello ha richiamato le emergenze ricavabili dalle stesse ammissioni del proposto e dalle risultanze dell’attività di investigazione di ampio respiro effettuata dalla Polizia Tributaria – fatte proprie dall’Autorità Giudiziaria, che, come anticipato, ha elevato contestazioni per delitti di frodi fiscali nei confronti del S. – dalle quali era da dedursi che questi aveva elaborato un modus operandi, reiterato nel tempo, attraverso il quale aveva conseguito consistenti risorse finanziarie in nero, che aveva fatto confluire nell’acquisto dei cespiti sottoposti alla misura ablatoria. Tale meccanismo illecito, che gli aveva consentito di lucrare un ingente risparmio di imposta, consisteva nella utilizzazione di cooperative di produzione e lavoro a mutualità prevalente, prive di ogni consistenza imprenditoriale e aziendale, gestite da familiari del proposto o da persone di sua fiducia, costituite al solo scopo di espletare una funzione di interposizione cartolare, vale a dire in vista della emissione di fatture in favore delle società consortili C., prima, e A. Group, poi, così da far figurare costi deducibili o da far maturare un credito IVA da opporre in compensazione ad altri debiti tributari. Modus operandi che si concludeva con la fuoriuscita delle risorse così conseguite dal patrimonio delle società consorziate e delle società cooperative mediante operazioni distrattive dissimulate dietro il pagamento di spese per necessità aziendali o imprenditoriali (di pubblicità, di servizi amministrativi, di manutenzione del verde, di pagamento di canoni di locazione per uso di immobili) in favore di società di dubbia esistenza ovvero orbitanti nel circuito del proposto e della sua famiglia.
Ne viene che non può dubitarsi, nel caso al vaglio dell’esistenza dei presupposti indicati dal Giudice delle leggi, per la identificazione del soggetto socialmente pericoloso inquadrabile nella categoria di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 1, lett. b): in tal senso deponendo l’imponenza del debito maturato nei confronti dell’Erario, la professionalità dimostrata dal proposto nel congegnare – valendosi di ben due società succedutesi in un arco di tempo significativamente lungo – un meccanismo collaudato, coinvolgente più persone fisiche e giuridiche, ancorché di comodo, ben inserite nel rispettivo ruolo, per eludere gli obblighi fiscali lucrando ingenti risorse da destinare all’implementazione del proprio patrimonio personale; la sicura rilevanza delittuosa dei comportamenti ascritti al S., oggetto di accertamento in procedimenti istaurati a suo carico anche in tempi recenti, per i delitti di cui all’art. 416 c.p., e per plurime ipotesi di reati fiscali.
3.3. Al cospetto dell’illustrazione di siffatto collaudato congegno in frode all’Erario, i rilievi censori che denunciano la violazione dell’art. 2602 c.c., e L. n. 537 del 1993, art. 14, (Razionalizzazione e soppressione di agevolazioni tributarie e recupero di imposte e di base imponibile), per essere la fatturazione delle prestazioni rese da A. Group nei confronti delle società cooperative perfettamente in linea con la funzione tipica delle società consortili, le quali sono fiscalmente neutre perché non possono conseguire alcun vantaggio economico, sono privi di pregio perché del tutto generici, non facendosi carico di contrastare criticamente l’effettiva ratio decidendi del provvedimento impugnato. Il quale, invece, ha ampiamente dato conto del meccanismo decettivo escogitato dal preposto, sostanziatosi nella strumentalizzazione al fine di conseguire scopi illeciti della funzione economico – sociale attribuita dall’ordinamento alle società consortili e alle società cooperative: vale a dire la funzione mutualistica delle seconde potenziata dalla creazione di un organismo volto a coordinare e rendere efficienti le prestazioni e i servizi rese dalle società cooperative. Funzione, quelle indicata, che, tuttavia, nel caso di specie, era null’altro che una mera apparenza, atteso che gli accertamenti espletati hanno rivelato che le società cooperative non erano che un vuoto simulacro, radunando sotto una nomenclatura formale i dipendenti del S., il quale attraverso la A. Group, fatta passare come società consortile, ma di fatto costituente lo strumento operativo della sua strategia imprenditoriale, acquisiva le commesse e gestiva la loro esecuzione: da qui l’inammissibilità delle deduzioni sul punto.
4. Manifestamente infondati o palesemente generici o deducenti vizi non consentiti sono tutti i rilievi articolati con il quarto motivo di ricorso.
4.1. Ricordata la necessità per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, ancorché disgiunta da quella personale, della sussistenza dei presupposti sia della pericolosità sociale, di cui al combinato disposto del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 16, art. 4 lett. c), e art. 1, lett. b), che della sproporzione tra il valore dei beni comunque riconducibili alla disponibilità del proposto rispetto al reddito dichiarato ai fini delle imposte sul reddito o alla sua attività economica (D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 24), la Corte territoriale ha richiamato il principio affermato dalle Sez. Unite n. 33451 del 2014, Repaci e altri, secondo cui, al fine di escludere la citata sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del soggetto, non possono essere valutati i proventi conseguiti in violazione degli obblighi fiscali che di per sè non possono considerarsi leciti, derivando pur sempre da un’attività costituente anche reato e quindi confiscabili e ha ritenuto di poter trarre conferma anche da tale autorevole arresto della legittimità dell’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale nei confronti del S..
4.2. Le ulteriori deduzioni sviluppate in ricorso, per un verso sono aspecifiche, perché omettono di confrontarsi con la minuziosa argomentazione spesa dal giudice censurato in relazione a ciascuna delle censure sviluppate nell’atto di gravame – talune già viziate da genericità perché declinate in maniera del tutto astratta – (Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007, Scicchitano, Rv. 236945); altre – segnatamente quelle in punto di sperequazione patrimoniale del patrimonio del preposto e delle società a lui riconducibili deducono vizi non consentiti – quelli relativi alla illogicità della motivazione -, posto che è jus receptum che, nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4, richiamato dalla L. n. 575 del 1965, art. 3 ter, comma 2, con la conseguenza che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello dalla L. n. 1423 del 1956, predetto art. 4, comma 9, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci e altri, Rv. 260246).
Deve, dunque, ribadirsi che non può essere proposta come vizio di motivazione mancante o apparente la deduzione di sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realtà, siano stati presi in considerazione dal giudice o comunque risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato.
5. Le suesposte ragioni impongono il rigetto del ricorso di S.N., cui consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. I ricorsi di S.T., S.C., G.P. ed A. Group S.p.a. devono essere, invece, dichiarati inammissibili, con condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 a favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso di S.N. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dichiara inammissibili i ricorsi di S.T., S.C., G.P. ed A. Group S.p.a. e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila a favore della Cassa delle Ammende.
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