CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 32877 depositata il 6 settembre 2021
Reati tributari – Somministrazione illecita di manodopera – Dissimilazione di contratti di appalto – Fatture per i servizi appaltati – Qualificazione di fatture per operazioni inesistenti – Esclusione – Sequestro preventivo, finalizzato alla confisca diretta – Illegittimità
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 20 novembre 2020, il Tribunale del Riesame di Ravenna confermava il decreto del 30 settembre 2020, con cui il G.I.P. presso il Tribunale di Ravenna, nell’ambito di un procedimento penale avente ad oggetto i reati di cui all’art. 416 cod. pen. e 2 e 8 del d. lgs. n. 74 del 2000, aveva disposto il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca diretta, delle somme di denaro appostate nel sistema bancario, nella disponibilità della società V. s.r.l., fino alla concorrenza della somma di 152.871,80 euro, e il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente fino alla concorrenza della medesima somma nella disponibilità di R.C., o di beni immobili o mobili registrati a lei riferibili, nonché il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta, delle somme di denaro appostate nel sistema bancario, nella disponibilità della società P. s.r.l., fino alla concorrenza della somma di 373.194,92 euro e il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente fino alla concorrenza della medesima somma nella disponibilità della C., o di beni immobili o mobili registrati a lei riferibili.
2. Avverso l’ordinanza del Tribunale ravennate, la C., tramite il suo difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando tre motivi.
Con il primo, la difesa censura il giudizio sulla configurabilità del reato contestato, premettendo al riguardo che lo standard probatorio richiesto nel sequestro funzionale alla confisca non può limitarsi all’astratta valutazione del fumus, ma deve spingersi nel perimetro dei gravi indizi di colpevolezza, specie quando, come nel caso di specie, il sequestro abbia ad oggetto l’anticipazione cautelare dell’esecuzione della sanzione penale costituita dalla confisca di valore, essendo costituzionalmente inaccettabile che una sanzione penale possa trovare applicazione in assenza di indizi di responsabilità penale gravi e individualizzanti. Ciò premesso, la difesa deduce l’inosservanza degli art. 1 lett. a) e 2 del d. lgs. n. 74 del 2000, lamentando che il Tribunale ha erroneamente qualificato come fatture per operazioni inesistenti quelle attestanti i rapporti commerciali sussistenti tra le committenti V. e P. e l’appaltatrice M.S., essendosi in presenza di operazioni commerciali effettivamente eseguite non da una cartiera, ma da una società realmente esistente e dotata di dipendenti.
Né poteva configurarsi nel caso di specie un’ipotesi di inesistenza soggettiva delle operazioni fatturate, posto che la M.S. e le società amministrate dalla ricorrente sono state le parti effettive del rapporto contrattuale, pur se per ipotesi accusatoria simulato, circostanza questa suscettibile peraltro di smentita.
Con il secondo motivo, oggetto di doglianza è l’inosservanza degli art. 12 bis del d. lgs. n. 74 del 2000 e 321 comma 2 cod. proc. pen. in relazione agli art. 19 e 21 del d.P.R. n. 633 del 1972, avendo il Tribunale erroneamente configurato la sussistenza del profitto del reato confiscabile in relazione a importi riferibili all’I.V.A. interamente versata dalle società di riferimento in favore della società che aveva emesso le fatture contestate e da questa corrisposta all’Erario. Del resto, aggiunge la difesa, come chiarito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, è legittimo per gli ordinamenti nazionali negare il diritto alla detrazione dell’I.V.A. per il soggetto che riceve una fattura per una prestazione inesistente, solo se ciò è finalizzato a eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale, ma, in assenza di tale accadimento, come nella vicenda in esame, dove il gettito I.V.A. è risultato inalterato, negare a colui che corrisponde effettivamente l’I.V.A. poi regolarmente versata da chi la riceve, il diritto alla detrazione dell’ammontare di essa significa pregiudicare il principio comunitario di neutralità e proporzionalità di tale imposta indiretta, per cui la legittimità o meno della detrazione dipende non dall’inesistenza soggettiva dell’operazione, ma dall’effettività della corresponsione all’Erario dell’I.V.A. poi detratta.
Dunque, non avendo la persona sottoposta a indagini maturato alcun indebito credito di imposta in danno dell’Erario, alcun profitto confiscabile la stessa avrebbe incamerato, per cui il sequestro era stato illegittimamente disposto.
Con il terzo motivo, infine, viene contestata l’erronea applicazione degli art. 42-43 cod. pen. e 2 del d. lgs. n. 74 del 2000, censurandosi in particolare la valutazione circa la sussistenza del dolo specifico del fine di evasione, atteso che alcun fine di profitto appare ravvisabile a carico dell’indagata, la quale prima si è privata delle proprie risorse, pagando l’iva, per poi recuperare in un secondo momento, attraverso la detrazione, proprio quanto precedentemente anticipato. L’imponibile era stato infatti legittimamente abbattuto in forza di costi effettivamente sostenuti, mentre la detrazione è stata solo la conseguenza del suo previo versamento in favore del soggetto emittente la fattura.
Considerato in diritto
Il ricorso è fondato, nei termini in seguito illustrati.
1. Prima di soffermarsi sul merito delle doglianze difensive, si ritiene utile una breve sintesi ricostruttiva dei fatti per cui si procede.
Deve premettersi che il procedimento penale in esame è scaturito dalle indagini svolte in altro procedimento dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Ravenna nei confronti della M.S. s.r.l., essendo emerso in quella sede l’esistenza di una attività di illecita somministrazione di manodopera da parte delle M.S. in favore di altre imprese del settore turistico e della ristorazione, attività che sarebbe stata dissimulata attraverso la stipula di fittizi contratti di appalto ex art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, con un elevato numero di imprese e con emissione di fatture non corrispondenti al vero.
Partendo da tali elementi investigativi, i militari della Guardia di Finanza hanno disposto nuovi accertamenti, confluiti nel presente procedimento, svolgendo talune verifiche nei confronti dei soggetti individuati quale utilizzatori delle fatture emesse da M.S., tra cui appunto le società V. s.r.l. e P. s.r.l., di cui è legale rappresentante la ricorrente Raffaella C.
In particolare, dall’accertamento svolto dai finanzieri emergeva che, tanto nella contabilità della V. s.r.l. che in quella della P. s.r.l., erano state registrate, con riferimento agli anni di imposta 2013, 2014, 2015 e 2016, fatture emesse dalla M.S. s.r.l., in forza delle quali le società amministrate dalla C. avevano potuto fruire di un consistente credito I.V.A.
Di qui la contestazione a carico dell’indagata del reato di cui all’art. 2 del d. lgs. n. 74 del 2000, assumendosi che le fatture, pur se relative a operazioni economiche di fatto eseguite, dovevano tuttavia considerarsi relative a operazioni giuridicamente inesistenti, in quanto la M.S. aveva utilizzato, nei rapporti con tutte le molteplici società committenti, dunque anche con le due società amministrate da R.C., il medesimo schema contrattuale standard senza assumere su di sé alcun rischio di impresa e pattuendo un corrispettivo calibrato esclusivamente sul costo della manodopera, maggiorato soltanto del mark-up (apertura pratica, utilizzo software ecc.), senza dunque remunerare in alcun modo l’assunzione del rischio di impresa e della correlativa organizzazione, elementi questi essenziali di ogni contratto di appalto.
Tale impostazione è stata condivisa sia dal G.I.P. che dal Tribunale del Riesame, in base al rilievo secondo cui la predisposizione di tale meccanismo, nel quale la M.S. s.r.l. operava come mera “cartiera evoluta”, aveva consentito alle società utilizzatrici delle fatture emesse, dunque anche V. e P. s.r.l., di abbattere indebitamente il reddito di esercizio mediante imputazione del costo dei servizi, rappresentato dal costo del lavoro, in modo da detrarre l’iva esposte nelle fatture in esame, usufruendo così di un credito IVA che altrimenti le due società non avrebbero maturato; a ciò il Tribunale del Riesame ha aggiunto che le società amministrate dalla ricorrente e la M.S., sotto la forma negoziale del contratto di appalto, hanno in realtà dissimulato una illecita intermediazione di manodopera, al fine di beneficiare del diverso regime impositivo e incamerare il relativo profitto, atteso che, in materia di I.V.A., il cd. “prestito di personale” o distacco non rileva ai fini dell’imposta, per cui il datore di lavoro del dipendente distaccato (somministrato), poiché resta in essere il rapporto lavorativo, continua a corrispondere la retribuzione al proprio dipendente e a richiedere al terzo utilizzatore soltanto il rimborso della spesa sostenuta nel periodo di distacco, configurandosi in questi casi non un vero e proprio pagamento di corrispettivo, ma solo un rimborso di spese sostenute, cioè un’operazione esclusa dall’imposizione IVA ex art. 15 del d.P.R. n. 633 del 1972.
Dunque, nel caso di specie, l’emissione da parte della M.S. delle fatture contestate, solo formalmente imputate al contratto di appalto, ha consentito alle due società facenti capo alla C. di generare dei costi aziendali da inserire nelle dichiarazioni annuali tra gli elementi passivi, fondandosi il giudizio sulla natura fittizia dei contratti di appalti sottostanti alle fatture sul rilievo che erano i committenti a indicare alla M.S. quali fossero i soggetti da assumere, che spesso era stati già alle dipendenze della committente e che erano in alcuni casi anche ignari dell’avvenuto passaggio datoriale, essendo inoltre le attrezzature necessarie di proprietà della società committente, che dunque assumeva di fatto l’organizzazione e la gestione dell’attività dei dipendenti dell’appaltatore, rispetto al quale non era pertanto configurabile il tipico rischio di impresa.
In definitiva, secondo i giudici dell’impugnazione cautelare, l’esposizione nella dichiarazione di dati fittizi, anche solo soggettivamente, implicava la creazione delle premesse per un rimborso al quale le società dichiaranti altrimenti non avrebbero avuto diritto, non essendo indifferente ai fini I.V.A. l’indicazione di un soggetto diverso da quello che aveva effettuato la fornitura.
Quanto al versante soggettivo della condotta, nell’ordinanza impugnata è stato rilevato che la C., nella sua veste di imprenditrice titolare di due società di capitali, era senz’altro a conoscenza del beneficio fiscale conseguibile con l’abbattimento del reddito imponibile tramite l’indicazione di elementi passivi fittizi, cogliendosi traccia del fine di evasione dai comportamenti volti a predisporre un’organizzazione di risorse materiali e umane che, per la sua articolazione, tradiva proprio il fine illecito, avendo cioè la ricorrente fatto in modo di usufruire di un credito Iva cui non avrebbe avuto diritto.
Non sono stati ritenuti dirimenti i contrari rilievi difensivi volti a dimostrare la non fraudolenta registrazione in contabilità delle fatture de quibus e la loro conseguente indicazione nelle dichiarazioni fiscali annualmente presentate, ciò in base alla considerazione “metodologica” secondo cui, in sede cautelare, “ciò che conta l’indizio, non il grave indizio e men che meno la prova del reato e la sua attitudine a non escludere, ictu oculi, gli elementi costitutivi della fattispecie”.
2. Tanto premesso, occorre osservare che l’ordinanza impugnata non appare immune da censure, soprattutto nella parte relativa alla considerazione “metodologica” operata dal Tribunale nel confronto con i rilievi difensivi e, prima ancora, nell’esposizione dedicata alla sussistenza del fumus commisi delicti.
Sul punto, il Collegio ritiene di aderire alla prevalente affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 3722 del 11/12/2019, dep. 2020, Rv. 278152 e Sez. 6, n. 49478 del 21/10/2015, Rv. 265433), secondo cui il “fumus commissi delicti” per l’adozione di un sequestro preventivo, pur non dovendo integrare i gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 cod. proc. pen., necessita comunque dell’esistenza di concreti e persuasivi elementi di fatto, quantomeno indiziari, che consentano di ricondurre l’evento punito dalla norma penale alla condotta dell’indagato. Pertanto, in tema di valutazione del fumus commisi delicti, non può ritenersi sufficiente l’astratta sussumibilità del fatto contestato in una determinata ipotesi di reato, come veniva ritenuto bastevole in base a un più risalente orientamento (cfr. Sez. 6, n. 2672 del 09/07/1999, Rv. 214185) pure richiamato nell’ordinanza impugnata, orientamento invero non superato (cfr. Sez. 1, n. 18491 del 30/01/2018, Rv. 273069), ma non condivisibile, dovendosi viceversa ritenere che, ai fini dell’emissione del sequestro preventivo, il giudice deve valutare la sussistenza in concreto del “fumus commissi delicti” attraverso una verifica puntuale e coerente delle risultanze processuali, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull’esistenza della fattispecie ascritta, all’esito della quale possa sussumere la fattispecie concreta in quella legale e valutare la plausibilità di un giudizio prognostico in merito alla probabile condanna dell’imputato.
Orbene, nel caso di specie, l’adesione del Tribunale all’indirizzo interpretativo che ritiene sufficiente l’astratta sussumibilità del fatto contestato in una determinata ipotesi di reato ha comportato che l’ordinanza impugnata, pur avendo ripercorso le risultanze investigative in maniera critica e razionale, non abbia fornito tuttavia adeguata risposta alle censure sollevate dall’indagata, soprattutto con riferimento alla valutazione indiziaria dell’elemento soggettivo del reato.
Deve premettersi in proposito che, nella ricostruzione della vicenda, il Tribunale ha compiuto un’attenta disamina delle risultanze investigative disponibili, descrivendo chiaramente il meccanismo illecito imperniato sulla illecita somministrazione di manodopera da parte del M.S. in favore delle società committenti, circostanza questo che invero non ha trovato smentita nel ricorso. Parimenti corretto, almeno dal punto di vista oggettivo, deve essere ritenuto l’inquadramento giuridico della condotta, atteso che le fatture utilizzate dalla M.S. nei rapporti con le società committenti erano tutte relative a operazioni che, per quanto effettivamente eseguite, erano tuttavia soggettivamente inesistenti, avendo la M.S. evitato di assumere il rischio di impresa.
Al riguardo il Tribunale ha ben tratteggiato la differenza tra cd. “appalto genuino” e somministrazione di manodopera, escludendo ragionevolmente che, nel caso della M.S. fosse ravvisabile il primo, venendo cioè in rilievo un “prestito di personale” che dava luogo a un’operazione esclusa dall’imposizione dell’I.V.A. Dunque, premesso che i costi per operazioni che siano inesistenti, anche solo sul piano soggettivo, non sono mai deducibili (cfr. Sez. 3, n. 19012, del 11/02/2015, Rv. 263745), risulta legittimo l’inquadramento del fatto nello schema normativo delineato dall’art. 2 del d. lgs. n. 74 del 2000, atteso che, come precisato da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 29977 del 12/02/2019, Rv. 276289), la detrazione Iva è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che effettua la cessione o la prestazione, mentre non entrano, cioè, nel conteggio del dare ed avere ai fini Iva le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, a nulla rilevando che le medesime fatture costituiscano la “copertura” di prestazioni acquisite da altri soggetti, ciò in quanto l’intero meccanismo dell’Iva poggia sul presupposto che il tributo sia versato a chi ha eseguito prestazioni imponibili (che a sua volta potrà compensarla con l’iva corrisposta per l’acquisto di beni e di servizi), mentre il versamento dell’Iva a un soggetto non operativo o, comunque, fittiziamente interposto apre la strada al recupero indebito dell’imposta stessa. In definitiva, l’imposta si applica sulle operazioni che oggettivamente e soggettivamente sono comprese nella sfera di applicazione del tributo e da qui nasce l’obbligo della rivalsa (cioè dell’addebito), in mancanza del quale non può sorgere nella controparte il potere di esercitare la detrazione, per cui non è possibile assegnare all’avvenuto addebito dell’imposta un’efficacia sostitutiva della ricorrenza delle condizioni normative; né l’esercizio della rivalsa costituisce prova certa dell’appartenenza dell’operazione al campo di applicazione dell’Iva, ma, al più, semplicemente un elemento indiziario che denota la convinzione delle parti in buona fede di dover ricondurre lo schema contrattuale della cessione o della prestazione all’interno di quel campo (cfr. la citata sentenza n. 29977 del 2019). Ora, se alla luce di tali premesse interpretative, risultano pertinenti i riferimenti del Tribunale rispetto all’inquadramento giuridico del fatto, e tanto anche in ragione della riconosciuta possibilità astratta di concorso tra la contravvenzione di cui all’art. 18 d.lgs. n. 276 del 2003 e il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti ai fini dell’IVA, nel caso di utilizzo di fatture rilasciate da una società che ha effettuato interposizione illegale di manodopera (così Sez. 3, n. 20901 del 26/06/2020, Rv. 279509), deve tuttavia osservarsi che, nel passare a esaminare la posizione della ricorrente, l’ordinanza impugnata rivela talune criticità, nel senso che il Tribunale ha ritenuto applicabile anche nel caso delle due società amministrate dalla C. lo schema operativo messo in atto dalla M.S., senza tuttavia specificare da quali elementi, in concreto, fosse desumibile tale conclusione, risultando il ragionamento del Tribunale affidato a considerazioni assertive, non adeguatamente parametrate alla specificità del caso concreto.
A pagina 7 del provvedimento impugnato, in particolare, sono descritti gli elementi sintomatici della mancata genuinità del contratto di appalto, ma invero non è ben chiaro se tale elencazione si riferisca al modus procedendi generale della M.S., o invece ai singoli contratti stipulati con la P. s.r.l. e la V. s.r.l., mancando in tal senso i necessari riferimenti fattuali.
La genericità della descrizione del meccanismo contrattuale adottato con riferimento alle società gestite dalla C. è inevitabilmente destinata a riverberarsi nell’esposizione dedicata alla valutazione dell’elemento soggettivo del reato, rispetto alla quale il Tribunale, trincerandosi dietro lo schermo del giudizio astratto sulla sussistenza del fumus commisi delicti, non si è confrontato con la necessaria specificità con i rilievi difensivi, evocando la conoscenza del beneficio fiscale conseguito dalla ricorrente, senza tuttavia precisarne gli indici sintomatici, non desumibili soltanto dalla sua veste di imprenditrice esperta.
Del resto, risulterebbe che, nella vicenda in esame, un pagamento dell’Iva vi sia stato comunque, nel senso che l’imponibile era stato legittimamente abbattuto in forza di costi effettivamente sostenuti, venendo dunque in rilievo una circostanza che, per quanto di per sé non ostativa alla configurabilità del reato, costituisce comunque un elemento da prendere in considerazione nella prospettiva non tanto del soggetto che emette la fattura, ma di colui che la utilizza, nella consapevolezza dell’effettivo svolgimento delle prestazione ad essa sottesa.
Ora, questa Corte ha invero affermato (Sez. 3, n. 52411 del 19/06/2018, Rv. 274104) che il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, rappresentato dal perseguimento della finalità evasiva, che deve aggiungersi alla volontà di realizzare l’evento tipico (la presentazione della dichiarazione), è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’Iva.
Tuttavia, la ritenuta compatibilità del dolo eventuale, anche in sede cautelare reale, comporta pur sempre la necessità di una verifica adeguata sull’esistenza dell’elemento soggettivo del dichiarante, verifica da compiere in concreto mediante l’esame della tipologia delle operazioni compiute e di tutte le circostanze eventualmente rivelatrici della finalità di evasione del soggetto agente, ivi compresa la compiuta individuazione del profitto, tema questo invero non sufficientemente esplorato dai giudici dell’impugnazione cautelare.
Sotto tale profilo, l’apparato argomentativo dell’ordinanza impugnata appare dunque carente, soprattutto con riferimento al confronto con i temi proposti dalla difesa rispetto alla valutazione del dolo, integrando ciò un profilo di violazione di legge che impone l’annullamento con rinvio del provvedimento e l’esigenza di un nuovo approfondimento in sede di merito, da compiere alla luce delle premesse prima richiamate circa l’ambito valutativo del Tribunale rispetto alla configurabilità del fumus commisi delicti in tema di sequestro preventivo.
3. In conclusione, entro i limiti sin qui esposti, l’ordinanza impugnata deve essere quindi annullata, con rinvio al Tribunale del Riesame di Ravenna per nuovo giudizio.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Ravenna competente ai sensi dell’art. 324, co. 5, cod. proc. pen.