Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 33893 depositata il 14 settembre 2022
indebita compensazione – reato di cui all’art. 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 7 dicembre 2021, la Corte d’appello di Brescia ha parzialmente confermato la sentenza del Gilp, del Tribunale di Bergamo del 17 dicembre 2020, con la quale l’imputato era stato condannato alla pena di due anni di reclusione, oltre pene accessorie, per il reato di cui all’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000 (in esso ritenuto assorbito il reato di cui all’art. 640, secondo comma, n. 1 cod. pen.), per avere, quale amministratore di una società, omesso di versare ritenute fiscali, contributi previdenziali e assicurativi, utilizzando indebitamente in compensazione, a mezzo di modelli F24, somme derivanti da crediti tributari inesistenti (per complessivi euro 79.423,71), con l’aggravante della recidiva reiterata.
La Corte territoriale ha escluso la recidiva e ridotto la pena a un anno e quattro mesi di reclusione.
2. Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1 Con un primo motivo di doglianza, si lamentano la violazione della disposizione incriminatrice e dell’art. 28 Cost., sul rilievo che i giudici di merito avrebbero aderito al principio di diritto di cui alla sentenza Cass., 3, n. 13149 del 2020 e non a quello espresso dalla sentenza Cass., Sez. 1, n. 38042 del 2019, secondo la quale il reato in questione si configura solo se l’omesso versamento realizzatosi in conseguenza dell’indebita compensazione riguarda Iva o imposte sui redditi. Nel richiamare e condividere tale secondo orientamento, ritenendolo applicabile al caso in esame, la difesa sostiene che sarebbe in atto sul punto un contrasto giurisprudenziale e chiede che la relativa questione venga rimessa alle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
2.2 In secondo luogo, si deducono la violazione della disposizione incriminatrice e vizi della motivazione in relazione all’elemento soggettivo del reato, sul rilievo che non vi è prova in atti della consapevolezza dell’imputato dell’inesistenza delle poste attive portate in compensazione, con violazione della ripartizione dell’onere probatorio tra accusa e difesa.
2.3 In terzo luogo, si censurano vizi della motivazione, nonché la violazione degli 62-bis, 114, 133 cod. pen. in relazione al trattamento sanzionatorio, al diniego delle circostanze attenuanti generiche, alla mancata considerazione del fatto che l’imputato era stato amministratore di diritto della società su un piano meramente formale, in presenza di altro soggetto amministratore di fatto, e solo per pochi mesi.
2.4 La difesa ha depositato memoria, con la quale – in replica alle conclusioni del pubblico ministero – insiste in quanto già dedotto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
1.1 Il primo motivo di doglianza – riferito all’interpretazione della disposizione incriminatrice ritenuta dalla difesa applicabile solo se, diversamente da quanto avvenuto nel caso di specie, l’omesso versamento realizzatosi in conseguenza dell’indebita compensazione riguarda Iva o imposte sui redditi – è manifestamente infondato.
La più recente giurisprudenza di legittimità (ex plurimis: Sez. 3, n. 23083 del 22/02/2022, Rv. 283236; Sez. 6, n. 37085 del 28/09/2021, Rv. 281958; Sez. 3, n. 11803 del 23/10/2020, dep. 29/03/2021; Sez. 3, n. 389 del 18/09/2020, dep. 08/01/2021, Rv. 280776; e v. anche infra) – ampiamente consolidatasi prima della proposizione del ricorso per cassazione – ritiene che il reato di indebita compensazione possa configurarsi sia in caso di compensazione “verticale”, riguardante crediti e debiti afferenti alla medesima imposta, sia in caso di compensazione “orizzontale”, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa, in quanto può avere ad oggetto tutte le somme dovute che possono essere inserite nell’apposito modello F24, incluse quelle relative ai contributi previdenziali e assistenziali. Infatti, la ratio dell’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000 va ricercata nella necessità, per il legislatore, di punire tutti quei comportamenti che, attraverso l’indebito ricorso all’istituto della compensazione tributaria, si concretizzino in un omesso versamento di quanto dovuto allo Stato e, conseguentemente, nel conseguimento di un indebito risparmio d’imposta da parte del soggetto contribuente. Tale ingiustificato risparmio non può essere limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta. Pertanto, l’omesso versamento può avere ad oggetto somme di denaro attinenti a tutti i debiti, sia tributari, sia di altra natura, il cui pagamento sia effettuato attraverso il modello di versamento unitario; rileva quindi, tanto sul lato attivo quanto sul lato passivo del rapporto obbligatorio, qualunque tributo o contributo che possa essere opposto in compensazione secondo le norme generali.
1.1.1 Più nello specifico, deve ricordarsi che l’art. 10-quater del d.lgs. 74 del 2000, introdotto dall’art. 35, comma 7 del d.l. n. 223 del 2006, convertito dalla legge n. 248 del 2006, è stato in parte riscritto dall’art. 9 del d.lgs. n. 158 del 2015, ed è attualmente strutturato in questi termini: «È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi del dell’art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997, crediti non spettanti, per un importo annuo superiore a euro cinquantamila» (comma 1); «è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi del richiamato articolo 17, crediti inesistenti per un importo annuo superiore a euro cinquantamila» (comma 2). In considerazione dell’ampliamento delle ipotesi di compensazione in ambito tributario previste dall’art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997 – a norma del quale i contribuenti che devono eseguire versamenti unificati di imposte, di contributi previdenziali e assistenziali, di premi INAIL e di altre somme a favore dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni e di altri enti possono utilizzare in compensazione i crediti risultanti dalle dichiarazioni fiscali o dalle denunce periodiche contributive – l’orientamento oggi consolidato di questa Corte, richiamato come tale anche nella sentenza n. 35 del 2018 della Corte costituzionale, ravvisa la ratio della disposizione in esame nella necessità di punire tutti quei comportamenti che si concretizzano in realtà nell’omesso versamento del dovuto e nel conseguimento di un indebito risparmio di imposta mediante l’indebito ricorso al meccanismo della compensazione tributaria, ossia attraverso la materiale redazione di un documento ideologicamente falso, idoneo a prospettare una compensazione che non avrebbe potuto avere luogo, o per la non spettanza o per l’inesistenza del credito. Ed è evidente che, in questa prospettiva, l’indebito risparmio di imposta che la norma incriminatrice tende a colpire non può essere limitato al mancato versamento delle imposte dirette o dell’Iva, ma coinvolge necessariamente anche le somme dovute a titolo previdenziale e assistenziale, il cui mancato pagamento, attraverso lo strumento della compensazione effettuata utilizzando crediti inesistenti o non spettanti, determina per il contribuente infedele un analogo risparmio di imposta (ex plurimis, Sez. 3 n. 13149 del 03/03/2020, Rv. 279118; Sez. 3, n. 5934 del 12/09/2018, Rv. 275833; Sez. 3, n. 8689 del 30/10/2018, Rv. 275015; 4/02/2015, n. 5177; Sez. 3, n. 15236 del 16/01/2015, Rv. 263051; Sez. 3, n. 42462 del 11/11/2010, Rv. 248754). La norma in esame, in altri termini, si presta a reprimere l’omesso versamento di somme di denaro attinente a tutti i debiti, sia tributari, sia di altra natura, per il cui pagamento deve essere utilizzato il modello di versamento unitario.
1.1.2 E ciò, sia per ragioni legate al tenore letterale della disposizione, che si riferisce genericamente all’omesso versamento di “somme dovute”, senza prevedere alcuna limitazione alle compensazioni verticali o orizzontali che estinguano unicamente debiti relativi alle imposte dirette o Iva, sia per ragioni di carattere sistematico, dal momento che non può essere condiviso il rilievo, pur formulato da una isolata e ormai superata giurisprudenza (Sez. 1, n. 38042 del 10/05/2019, Rv. 278825), secondo il quale la disposizione in esame risulterebbe inserita in un testo normativo, quale è il lgs. n. 74 del 2000, diretto a sanzionare unicamente le violazioni in materia di Iva e di imposte sui redditi. Può osservarsi, in contrario, che sono presenti all’interno del suddetto decreto almeno due norme poste anche ad eventuale presidio di tributi diversi dall’Iva e dall’imposta sui redditi: l’art. 10-bis, rubricato “omesso versamento di ritenute dovute o certificate”, e l’art. 11, rubricato “sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte” che al comma 2 punisce, con la reclusione da sei mesi a quattro anni, chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila.
1.1.3 L’orientamento giurisprudenziale qui non condiviso fa perno anche sulla speciale causa di non punibilità del pagamento del debito tributario (art. 13, comma 1, d.lgs. n. 274 del 2000), che sarebbe disciplinata in termini incompatibili con obblighi di natura diversa, perché, parificando le tre fattispecie di cui agli 10-bis, 10-ter e 10-quater del medesimo decreto, confermerebbe che quella contemplata dall’art. 10-quater, come le altre due, punisce sempre e solo l’omesso versamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto. A tale conclusione deve però obiettarsi che il richiamato art. 13, comma 1, si limita semplicemente a prevedere che non sono più perseguibili penalmente le omissioni oggetto delle richiamate fattispecie incriminatorie, quando il contribuente versi integralmente le somme dovute all’Erario, comprese le sanzioni amministrative e gli interessi maturati, prima della dichiarazione dell’apertura del dibattimento di primo grado. Chiaro è l’intento premiale di tale istituto che si muove nell’ottica, condivisibile, di una politica criminale e fiscale volta maggiormente alla tutela del bene giuridico protetto (il corretto gettito fiscale) piuttosto che alla “punizione esemplare” dei trasgressori. La parificazione tra le fattispecie degli art. 10-bis, 10-ter e 10-quater, risiede, dunque, nel fatto che, per gli omessi versamenti e per l’indebita compensazione, il contribuente ha correttamente indicato il proprio debito tributario, a differenza di quanto invece avviene per i reati dichiarativi, per i quali il comma 2 del richiamato art. 13 richiede, ai fini della non punibilità, la spontaneità della resipiscenza del contribuente (Sez. 3, n. 13149 del 03/03/2020).
1.1.4 Tali principi trovano pacifica applicazione anche nel caso di specie, in cui la contestazione ha per oggetto l’indebita compensazione di ritenute fiscali, contributi previdenziali ed assicurativi con inesistenti crediti tributari.
1.2 Il secondo motivo di doglianza – riferito alla motivazione della sentenza impugnata circa la prova dell’elemento soggettivo del reato – è inammissibile per genericità. La difesa non si confronta con la motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale, che correttamente fa perno sull’esistenza di poste fiscali artificiose, rispetto alla quale la responsabilità dell’amministratore della società è evidente, essendo stato lui stesso a crearle e utilizzarle indebitamente in compensazione, a fronte di mere affermazioni difensive di segno contrario. Del resto, l’inesistenza del credito costituisce di per sé, salvo prova contraria, un indice rivelatore della coscienza e volontà del contribuente di bilanciare i propri debiti verso l’Erario con una posta creditoria artificiosamente creata, ingannando il fisco (Sez. 3, n. 5934 del 12/09/2018, dep. 07/02/2019, Rv. 275833 – 02).
1.3 Inammissibile è anche la terza censura del ricorrente, perché la difesa si limita a generiche asserzioni circa, l’eccessività della pena, in realtà correttamente determinata dai giudici di primo e secondo grado in relazione alla gravità del fatto e alla personalità dell’imputato; il diniego delle circostanze attenuanti generiche, che sono state però motivatamente escluse, in mancanza di elementi positivi di giudizio, neanche compiutamente dedotti dalla difesa; l’esclusione dell’applicazione dell’art. 114 cod. pen., ampiamente giustificata per il fondamentale contributo dato dall’imputato alla commissione del reato, a lui materialmente ascrivibile in quanto amministratore di diritto della società.
2. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.
P.Q.M
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.