CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 34490 depositata il 3 dicembre 2020
Reati tributari – Utilizzo di fatture per operazioni inesistenti – Rilevanza penale – Responsabilità – Legale rappresentante dell’azienda cessionaria
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza 21.01.2014, la Corte d’appello di Brescia confermava la sentenza del tribunale di Bergamo del 7.06.2013, appellata dal C., che lo aveva riconosciuto colpevole del reato di frode fiscale ex art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000, per avere nella qualità di l.r. della M.I. s.r.l. unipersonale, indicato nelle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi e IVA dell’esercizio 2007, al fine di evaderle, elementi passivi fittizi dell’ammontare complessivo di € 238.796,16, avvalendosi di fatture relative ad operazioni inesistenti emesse dalla s.r.l. E., condannandolo alla pena di 2 anni di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge, nella misura minima.
2. Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia, iscritto all’Albo speciale previsto dall’art. 613, cod. proc. pen., articolando due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di motivazione per insufficiente e/o omessa valutazione di tutte le prove e gli elementi di fatto emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale.
Premette la difesa del ricorrente che il processo nasce da un controllo effettuato dall’Agenzia delle entrate venuta a conoscenza di asserite operazioni inesistenti poste in essere dalla società amministrata dall’imputato con altra società. La condanna si fonderebbe soltanto sulle presunzioni, senza alcun valore di prova in sede penale, ossia su valutazioni documentali operate in via presuntiva dagli accertatori, i quali non avrebbero mai effettuato alcun controllo, se non quello documentale-contabile. Diversamente, si sostiene in ricorso, la documentazione difensiva prodotta avrebbe confermato la regolarità di ogni prestazione ed il versamento delle relative imposte da parte della società amministrata dall’imputato e, non sarebbe mai emerso alcun elemento nel corso del giudizio di merito in grado di confermare che il cessionario, ossia la società amministrata dall’imputato, sapeva o avrebbe dovuto sapere che le asserite operazioni ritenute oggettivamente inesistenti e portate a deduzione del costo ed in diminuzione ai fini IVA, si iscrivevano in una evasione di imposta da parte della società cedente. Nel corso dei giudizi di merito sarebbe sempre stato evidenziato che la società amministrata dall’imputato era operante sul mercato da diversi anni, circostanza che dimostrava l’effettivo esercizio dell’attività imprenditoriale oggetto delle fatture contestate. L’inesistenza delle operazioni oggetto di fatturazione sarebbe stata dedotta nella sentenza impugnata sulla base di accertamenti tributari disposti nei confronti della società coinvolta, la quale aveva omesso ogni dichiarazione per non pagare le imposte e, peraltro, dalle operazioni contestate, mai sarebbero emersi elementi idonei a dubitare dell’esistenza delle operazioni indicate nelle predette fatture.
La documentazione prodotta dalla difesa, anzi, si sostiene in ricorso, attesterebbe che le fatture riguardano corrispettivi per opere edili eseguiti regolarmente presso i cantieri di Sarnico e di Cernusco sul Naviglio, laddove l’organo accertatore non sarebbe stato in grado di fornire prova alcuna in ordine alla non correttezza dell’operato della società amministrata dall’imputato quanto alle operazioni oggetto di indagine, scegliendo invece di contestare il tutto con presunzioni semplici prive di certezza. Tutte le operazioni sarebbero coerenti con l’attività svolta dalla società amministrata dall’imputato e rientrerebbero nell’oggetto sociale, come del resto evidenziato nel PVC dell’Agenzia delle Entrate. La difesa ribadisce che già nel corso del giudizio di merito era stato evidenziato come non vi fossero elementi idonei ad affermare che le operazioni contestate fossero riferibili ad operazioni inesistenti, né sul piano oggettivo né sul piano soggettivo, non essendo mai emersa alcuna prova sul punto ma anzi, al contrario, la documentazione difensiva avrebbe attestato la buona fede dell’imputato, ciò che avrebbe dovuto portare i giudici di appello a ritenere la effettività delle operazioni intercorse tra cedente e cessionario. Si censura nel ricorso, a tal proposito, il ragionamento della Corte d’appello che si sarebbe limitata a confermare la sentenza apodittica di primo grado quanto alle asserite anomalie concernenti i tempi e gli importi dei pagamenti dei corrispettivi, nonché ritenendo che fosse altrettanto poco credibile che l’amministratore di una società di capitali stipuli dei contratti di appalto per determinati importi senza fare la minima indagine sulla propria controparte contrattuale. Unico elemento, secondo il ricorrente, da cui la sentenza fonderebbe la inesistenza delle operazioni sarebbe costituito dalla presunta cessazione dell’attività di impresa esercitata dalla società cedente. Si tratterebbe tuttavia di un’affermazione totalmente sconfessata dalla certificazione rilasciata dalla Camera di Commercio, da cui invece si evince che la società E. era stata cancellata dal registro delle imprese soltanto nel marzo del 2008, ossia l’anno successivo rispetto alle fatture oggetto della contestazione. In sostanza, alla data della cancellazione della predetta società dal registro delle imprese, tutti i pagamenti delle fatture n. 1 e n. 2 del 2007 sarebbero stati effettuati, come attestato dagli stessi atti di indagine e dal partitario bancario in cui sono riportate le movimentazioni bancarie della società amministrata dall’imputato. Del resto tali documenti sarebbero stati esaminati dagli organi accertatori, i quali avevano dichiarato che i pagamenti indicati nel partitario risultavano effettivamente eseguiti dalla società amministrata dell’imputato in favore della E.: non a caso, si aggiunge, nel PVC del 18/04/2011 viene indicato che tali pagamenti furono effettuati e vennero considerati dei flussi anomali, ossia del denaro che era stato movimentato secondo le tempistiche ritenute sospette, ma in maniera infondata. Secondo la difesa del ricorrente, senza alcun motivo concreto gli accertatori ritennero che i pagamenti fatti dalla M.I. per le fatture della E. n. 1/2007 e n. 2/2007 nonché i pagamenti delle committenti alla M.I. per i medesimi cantieri fossero distanti nel tempo. Si tratterebbe di una circostanza infondata ed ininfluente, atteso che l’imputazione di un costo o di un pagamento negli esercizi di impresa che si succedono temporalmente è un fatto di rilevanza strettamente fiscale, laddove per l’accertamento della responsabilità penale è necessario verificare che si tratti di operazioni inesistenti. A tal proposito, la Corte d’appello di Brescia avrebbe omesso di valutare e di prendere posizione sulle risultanze probatorie emerse nel corso del giudizio, limitandosi semplicemente ad affermare che le considerazioni svolte non potevano essere inficiate dalla eventuale esistenza di contratti e pagamenti nei confronti del fornitore di servizi cartolare, dal momento che – si legge in sentenza – tali pezze contabili sono del tutto indispensabili per creare la falsa apparenza di effettività delle operazioni annotate. Secondo il ricorrente, si tratterebbe di una motivazione generica ed apodittica, omettendo di valutare gli elementi probatori e fattuali emersi nel giudizio che invece escluderebbero qualsiasi responsabilità penale, non indicando la sentenza nemmeno quali sarebbero questi numerosi ed inequivocabili elementi da cui si possa creare la falsa apparenza di effettività delle operazioni compiute. Alla luce di quanto sopra, quindi, la difesa ha ribadito nel ricorso che la scelta della società, svolgente regolare attività commerciale, di non presentare le dichiarazioni e pagare regolarmente le imposte dovute, risulterebbe essere un fatto di terzi che non coinvolge la società amministrata dall’imputato.
A tal proposito, ricorda il ricorrente, come il reato contestato dovrebbe ritenersi insussistente per mancanza di offensività, atteso che l’interesse tutelato dalla norma non subisce lesioni nel caso in cui i costi siano stati legittimamente dedotti perché inerenti allo svolgimento dell’attività di impresa e realmente sostenuti nel periodo di competenza fiscale, concorrendo così alla determinazione della base imponibile come avvenuto nel caso di specie. Conseguentemente, le fatture indicanti prestazioni realmente avvenute ma considerate illegittimamente inesistenti determinano una passività reale e per nulla fittizia essendo state le imposte regolarmente computate. La rilevanza penale dell’illecito contestato al ricorrente andava subordinata al fatto che fosse stata conseguita un’evasione di imposta attraverso l’inserimento di documenti nella dichiarazione fiscale della M.I., ma nulla di ciò sarebbe mai avvenuto né provato nel corso del giudizio di merito. A tal proposito si osserva come la inesistenza di un costo non può conseguire dal mancato pagamento dell’imposta liquidata a carico del soggetto e dalla effettività delle operazioni in contestazione. In ogni caso, l’impiego nell’ambito delle dichiarazioni sui redditi di presunte fatture per operazioni esistenti sarebbe per il ricorrente condotta irrilevante penalmente anche sotto altro profilo, atteso che in capo all’utilizzatore delle fatture difetterebbe l’elemento soggettivo della fattispecie, ossia il dolo specifico di evasione che deve necessariamente accompagnare la condotta del reo. Diversamente, la condotta attribuita al ricorrente non sarebbe idonea a produrre tale risultato, non essendo una condotta di evasione, atteso che nel caso in esame sarebbero stati inseriti dei costi realmente sostenuti dalla società, come risulta dalla documentazione contabile. Dunque, la misura finale dell’imponibile e dell’imposta è proprio quella che si otterrebbe qualora le predette fatture fossero considerate corrette in dichiarazione. In altre parole, e conclusivamente, attraverso le condotte poste in essere dal ricorrente non sarebbe ipotizzabile alcun risparmio di imposta della società da lui amministrata, in quanto le fatture sono state regolarmente indicate tra i ricavi e debito IVA.
2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 133, c.p. quanto al computo della pena irrogata, nonché in relazione all’art. 62 bis, c.p. per il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed, infine, in relazione all’art. 163, c.p., per il mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena.
In sintesi, il ricorrente si duole anzitutto per non aver la Corte d’appello riconosciuto le circostanze attenuanti generiche e la sospensione condizionale della pena. Quanto alle prime, le avrebbe escluse ritenendo non sussistente alcun positivo elemento che potesse giustificare tale concessione. Quanto al beneficio della sospensione condizionale, ritenendo che il precedente di condanna della stessa indole fosse ostativo al riconoscimento del predetto beneficio.
Secondo la difesa, l’imputato non sarebbe socialmente pericoloso né avrebbe mostrato una particolare tendenza a delinquere, risalendo il precedente all’anno 1997 e dunque, non potrebbe considerarsi ostativo in un giudizio di determinazione della pena per il riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale. L’imputato, secondo la difesa del ricorrente, sarebbe vittima di comportamenti altrui, che nonostante la effettività delle operazioni contestate, ne avrebbero omesso la registrazione e la relativa dichiarazione con il pagamento delle imposte. Per quanto poi specificamente concerne il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, la sentenza non avrebbe motivato adeguatamente in ordine alla assenza di meritevolezza di un giudizio positivo per il riconoscimento, atteso che l’imputato avrebbe sempre tenuto una condotta di massima collaborazione, dapprima con gli accertatori fiscali e, successivamente, con gli organi inquirenti ed il giudice, tanto da sottoporsi all’esame. Quanto al trattamento sanzionatorio, si sostiene che la determinazione della pena muoverebbe da errati presupposti, in quanto avrebbe considerato erroneamente l’importo e la pluralità delle fatture quale indice della modalità dell’azione e della gravità del fatto. Nel caso in esame, la società da lui amministrata avrebbe versato regolarmente le imposte sul valore aggiunto maturate sul reddito d’impresa per gli anni di competenza sicché, non solo non si configurerebbe il reato, ma nemmeno sarebbero stati causati danni all’Erario. Tutto ciò non sarebbe stato minimamente tenuto in considerazione dalla sentenza che, pertanto, sarebbe in quanto tale censurabile.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
2. E’ anzitutto affetto da genericità per aspecificità, in quanto non si confronta con le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata che confutano in maniera puntuale e con considerazioni del tutto immuni dai denunciati vizi motivazionali le identiche doglianze difensive svolte nei motivi di appello (che, vengono, per così dire “replicate” in questa sede di legittimità senza alcun apprezzabile elementi di novità critica), esponendosi quindi al giudizio di inammissibilità. Ed invero, è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 – dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
3. Lo stesso è inoltre da ritenersi manifestamente infondato, atteso che la Corte d’appello ha, con motivazione adeguata e del tutto immune dai denunciati vizi, spiegato le ragioni per le quali ha disatteso le identiche doglianze difensive esposte nei motivi di impugnazione.
Ed invero, i giudici di appello, a fronte delle identiche censure difensiva, nella dovuta sinteticità dell’apparato argomentativo della sentenza d’appello, alla luce delle doglianze difensive, hanno con motivazione non manifestamente illogica ritenuto che le censure svolte nell’interesse dell’imputato avverso la sentenza del Tribunale di Bergamo fossero manifestamente infondate.
Anzitutto, ha valorizzato le anomalie riguardo ai tempi e agli importi dei pagamenti (essendo inverosimile per la Corte territoriale che la sub-committente versi le spettanze al subappaltatore molti mesi dopo avere ricevuto le proprie spettanze dal committente, argomentazione, questa, scevra da illogicità manifeste). Ha aggiunto il fatto (ritenuto assorbente) che è altrettanto incredibile che l’amministratore di una società di capitali stipuli contratti di subappalto di valore non trascurabile (oltre 200.000,00 euro) con altra società senza neppure fare la minima indagine sulla propria controparte contrattuale (per verificare che esso sia un soggetto regolarmente operante, e che il soggetto firmatario dell’accordo sia fornito dei poteri di rappresentanza della società), ciò che – si legge in sentenza – l’imputato vorrebbe far credere, allorché assume di non ricordare l’identità del soggetto con il quale egli trattò le condizioni contrattuali, e che sottoscrisse i contratti per conto di E. s.n.c.
La Corte d’appello, poi, con analoga argomentazione scevra da illogicità manifeste, ha reputato ancor più inverosimile la versione difensiva, se solo si consideri che la società che le aveva asseritamente fornito le prestazioni aveva, già in data 24 maggio 2005, comunicato al Registro delle Imprese il proprio scioglimento e messa in liquidazione, con decorrenza 28 dicembre 2000 (cfr. certificato storico camerale a pgg. 135 e ss.). Argomentazione, questa, che priva di rilievo la circostanza dedotta in ricorso secondo cui la cancellazione dal registro delle imprese fosse successiva, risalendo al marzo 2008, dunque dopo l’emissione delle fatture contestate e utilizzate dalla società da lui amministrata.
La cessazione dell’attività di impresa costituisce accertamento riservato al giudice del merito, il quale, se sufficientemente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità. Nel caso di specie la Corte d’appello ha individuato tale momento fattuale nella comunicazione, intercorsa in data 24 maggio 2005 (dunque in un momento antecedente all’emissione delle fatture ed alla loro utilizzazione), della E. al Registro delle Imprese del proprio scioglimento e messa in liquidazione.
I giudici territoriali, infine, si preoccupano altresì di confutare l’ulteriore censura difensiva, osservando come le predette considerazioni non potevano essere inficiate dalla (eventuale) esistenza di contratti e pagamenti nei confronti del fornitore di servizi “cartolare”, dal momento che – si legge in sentenza – tali pezze contabili sono del tutto indispensabili per poter creare la falsa apparenza di effettività delle operazioni annotate (che, si puntualizza nella motivazione, assai probabilmente, sono state effettuate, ma da altri operatori economici, “in nero” – ciò che peraltro nulla sposta agli effetti della sussistenza del reato contestato).
4. Nel caso di specie, infatti, una volta individuati dai giudici di appello una serie di elementi idonei a giustificare l’inesistenza delle operazioni, il contribuente – imputato non può sostenere la sua buona fede sulla base della sola regolarità contabile, dovendo dimostrare di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta a evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto. Tale onere, però, come sottolineato, non può limitarsi all’esibizione della fattura o alla regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi, di pagamento adoperati che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia.
In materia di deducibilità dei costi d’impresa, infatti, la derivazione dei costi da una attività che è espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa, come in caso di operazioni oggettivamente inesistenti per mancanza del rapporto sottostante, comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale, inerenza che è onere del contribuente provare, al pari dell’effettiva sussistenza e del preciso ammontare dei costi medesimi. Tale ultima prova non può, peraltro, consistere nella esibizione della fattura, in quanto espressione cartolare di operazioni commerciali mai realizzate, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 33915 del 19/12/2019, Rv. 656602 – 01).
5. Parimenti manifestamente infondato è il motivo di ricorso relativo al trattamento sanzionatorio, al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche ed al beneficio della sospensione condizionale della pena.
Ed invero, sul punto i giudici territoriali: a) quanto alla doglianza relativa alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, ritengono che non sussiste alcun positivo elemento che possa giustificare tale concessione; b) quanto alla doglianza relativa all’entità della pena, rilevano che la stessa è stata determinata in misura di poco superiore al minimo edittale, per una frode di valore non trascurabile, commessa da parte di un soggetto gravato da una precedente condanna per reato della medesima indole; c) quanto al beneficio di cui all’art.163, c.p., ritengono che il precedente penale sia ostativo alla concessione al C. dell’invocato beneficio della sospensione condizionale della pena.
5.1. Si tratta di motivazione del tutto immune dalle censure proposte in ricorso: a) quanto all’art. 62 bis, c.p., la motivazione è conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis, disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017 – dep. 30/08/2017, Starace, Rv. 270986 – 01), essendo del resto la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai fini dell’art. 62-bis cod. pen. oggetto di un giudizio di fatto che può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, non sindacabile in sede di legittimità, purché non contraddittoria e congruamente motivata, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008 – dep. 14/11/2008, Caridi e altri, Rv. 242419 – 01); b) quanto al trattamento sanzionatorio, deve essere ribadito che in tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, essendo sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015 – dep. 23/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283 -01); c) quanto, infine, al beneficio della sospensione condizionale della pena, l’inammissibilità della doglianza emerge all’evidenza non solo avuto riguardo all’entità della pena irrogata (che raggiunge già i limiti della sospendibilità condizionale di due anni di reclusione, ciò che non consentirebbe la reiterazione del beneficio), ma anche alla luce della motivazione della sentenza, che ha valorizzato in chiave negativa il precedente ostativo della stessa indole. Del resto, si osserva, in tema di sospensione condizionale della pena, il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell’art. 133 cod. pen., potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti in senso ostativo alla sospensione, ivi compresi i precedenti giudiziari (Sez. 5, n. 17953 del 07/02/2020 – dep. 11/06/2020, Filipache, Rv. 279206 – 02).
6. Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile, conseguendone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali a norma dell’art. 616, cod. proc. pen.
Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, si condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di euro 3.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.