CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 35461 depositata il 25 luglio 2018
Reati tributari – Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti
Ritenuto in fatto
1. Il difensore di fiducia di W.R., indagato per il delitto di cui all’art. 648-ter cod. pen., ricorre per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di Bolzano in data 11/1/2018 che ha rigettato la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. del medesimo Tribunale il 27710/2017 avente ad oggetto “beni/denaro sino alla concorrenza di € 240.000,00 nei confronti di R.W.”.
1.1. Con il primo motivo deduce l’inosservanza e/o l’erronea applicazione del combinato disposto degli artt. 324 e 309, comma 9 (come novellato con la legge 16.4.2015, n. 47), cod. proc. pen.
In particolare, lamenta la mancanza di autonoma valutazione da parte del G.I.P. delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa in ossequio alla previsione di cui all’art. 292 codice di rito. Osserva, infatti, come il giudice si sia limitato “a dichiarare di avere esaminato la richiesta del P.M. … e gli atti processuali e in particolare la relazione del 20.9.2017 della G.d.F., tenenza di Silandro e relativi atti allegati, non operando alcun rinvio a detti atti quale motivazione del proprio convincimento ed adducendo a sostegno del medesimo una scarna motivazione”.
Né poteva colmare la lacuna il rinvio recettizio, pure operato nel provvedimento genetico, al contenuto degli atti su cui la richiesta si fondava, considerato che il giudice aveva comunque omesso di dare conto di aver preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento, “meditandole e ritenendole coerenti con la sua decisione”.
Peraltro, il G.I.P. non solo aveva omesso un’autonoma valutazione, ma anche confuso il contestato delitto di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita con quello di auto-riciclaggio che non era stato contestato.
Aveva, dunque, errato il Tribunale del riesame nel ritenere che il richiamo operato nell’incipit del provvedimento (esaminata la richiesta del P.M. … esaminati gli atti processuali”) rappresentasse una valida motivazione per relationem espressiva di un’autonoma valutazione e che dunque il provvedimento censurato fosse emendabile attraverso una motivazione integrativa, tenuto conto della genericità assoluta del rinvio operato dal primo giudice, nonché del fatto che il G.I.P. aveva emesso il decreto sulla scorta di un’immotivata sussistenza di un “documentato” autoriciclaggio (art. 648-ter. 1 cod. pen.) e omesso di indicare le ragioni per le quali aveva ritenuto di configurare – tra i delitti presupposti – oltre quello di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (per come individuato dalla G.d.F.), anche quello di appropriazione indebita, non contestato agli altri coindagati. Parimenti era a dirsi con riferimento alla misura del profitto sequestrabile indicato in € 99.526,00 dalla G.d.F. (e pari all’imposta sul valore aggiunto e sui redditi d’impresa evasa), a fronte di una richiesta del P.M., poi asseverata dal G.I.P., di € 240.00,00.
1.2. Con il secondo motivo deduce l’inosservanza/erronea applicazione del combinato disposto degli artt. 321, comma 2, 646 e 648-ter cod. pen., con particolare riguardo all’aver ritenuto sussistente il fumus – quale reato presupposto del delitto di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita – del delitto di appropriazione indebita, indicando quale autrice del medesimo la coindagata R.S.. L’ipotizzato versamento di denaro della società a terzi non era avvenuto per il perseguimento di un interesse estraneo a quello della persona giuridica ed in mancanza di un formale assenso dei soci al compimento dell’operazione, circostanze che avrebbero consentito di sussumere il fatto sotto l’alveo dell’art. 646 cod. pen., bensì per l’abbattimento degli utili della società ed il contestuale reimpiego della somma uscita dal patrimonio sociale per finanziare la società stessa.
1.3. Con il terzo motivo deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione del combinato disposto degli artt. 321, comma 2 e 648-ter cod. pen., stante l’esistenza del concorso del ricorrente nel ritenuto delitto presupposto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, addebitato alla sola amministratrice della S. s.r.l. R.S.. Dagli atti acquisiti, infatti, emerge che è solo l’indagato ad intrattenere, per tutte le società del gruppo coinvolte nel giro di fatture per operazioni inesistenti, i rapporti con il B. (vedi in particolare s.i.t. E.I.). Di ciò si era reso conto lo stesso G.I.P. che aveva ritenuto di configurare a carico del ricorrente il diverso delitto di autoriciclaggio, fattispecie ratione temporis non applicabile (trattandosi di fattispecie di reato introdotta dalla legge n. 186 del 2014 a fronte di un fatto consumato nel 2009).
Considerato in diritto
2. Il ricorso è fondato con riferimento al secondo e al terzo motivo per come precisato nel prosieguo della motivazione.
2.1. Infondato è il primo motivo di ricorso con cui si censura il provvedimento cautelare del G.I.P. sotto il profilo della mancata autonoma valutazione del compendio indiziario e delle esigenze cautelari e, di conseguenza, l’ordinanza del Tribunale del riesame che ha escluso la sussistenza di un tale vizio, integrandone poi la motivazione. Al riguardo, l’ordinanza impugnata ha indicato una serie di elementi della motivazione del provvedimento genetico che risultano logicamente dimostrativi dello svolgimento da parte del G.I.P. di un autonomo percorso decisionale che, seppur succinto e riferito ad altri atti specificamente richiamati, dà conto di una valutazione critica della richiesta del pubblico ministero e delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta. In particolare, si è fatto riferimento anche alla diversa qualificazione giuridica del fatto operata dal G.I.P. rispetto a quella prospettata dal pubblico ministero, avendo ricondotto alla figura dell’autoriciclaggio la condotta del R.W., anziché a quella del reimpiego illecito di cui all’art. 648-ter cod. pen. per come prospettato dal pubblico ministero nella sua richiesta (vedi capo n. 6 pag. 9). Il giudice della cautela ha dunque necessariamente compiuto, per pervenire a tali differenti conclusioni, un’analisi autonoma degli atti di indagine. Né del resto l’autonoma valutazione è incompatibile con il rinvio per relationem agli atti valutativi espressi dagli altri attori processuali (nella specie pubblico ministero e G.d.F. non avendo il ricorrente censurato il provvedimento genetico sul rilievo della mancata valutazione di elementi forniti dalla difesa), in quanto ciò che rileva è che di quel compendio valutativo vi sia stata – come nel caso in esame – un apprezzamento di tipo indipendente (sulla possibilità per il giudice di esplicitare, anche eventualmente per relationem le ragioni per le quali ritiene in modo autonomo di aderire alla richiesta cautelare, vedi Sez. 3, n. 2257 del 18/10/2016, dep. 18/1/2017, Rv. 268800). Era dunque consentito al Tribunale del riesame procedere all’integrazione delle motivazioni del provvedimento genetico come operare una diversa qualificazione giuridica del fatto contestato rispetto a quello ritenuto nel provvedimento del G.I.P. (sulla permanenza del potere-dovere del Tribunale del riesame di integrazione della motivazione insufficiente, purché non mancante o apparente, anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 47 del 2015, vedi ex multis Sez. 5, n. 3581 del 15/10/2015, dep. 27/1/2016, Rv. 266050; Sez. 2, n. 46136 del 28/10/2015, Rv. 265212; sul potere del Tribunale del riesame di assegnare al fatto un qualificazione giuridica diversa da quella ritenuta dal G.I.P., vedi Sez. 6, n. 18767 del 18/2/2014, Rv. 259679).
2. Fondati sono, invece, il secondo ed il terzo motivo di ricorso nei sensi di seguito precisati.
2.1. Sussiste, infatti, la lamentata violazione di legge con riferimento all’individuazione dell’appropriazione indebita quale delitto presupposto dell’ipotizzato impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita. Se l’utilizzo della (falsa) fattura per operazione inesistente è avvenuta – per come asseverato dallo stesso Tribunale del riesame – al fine di abbattere gli utili della società, pagare meno tasse e reimpiegare la somma uscita dal patrimonio sociale per finanziare, mediante il prestito dei vari soci, la società stessa, non sussiste alcuna condotta “appropriativa”, posto che il modello “operativo” individuato dall’accusa vede immancabilmente il ritorno finale dei capitali nel patrimonio della società. Il perseguimento di un interesse della società (trattasi di una s.r.l.), sotto il duplice profilo del conseguimento di risparmio di imposta, recte evasione, e di ottenimento di liquidità sotto forma di finanziamento soci, con l’assenso degli stessi aderenti al patto sociale, siccome destinatari della somma versata al terzo ed autori del finanziamento alla società, è circostanza che rileva anzitutto ai fini dell’esclusione della condotta di “appropriazione”, esigendo questa una manifestazione di volontà univoca del soggetto attivo di tenere come propria la cosa (uti dominus). Inoltre, occorre che il fatto sia realizzato in danno della società stessa o dei soci, con esclusione, dunque, di qualsiasi risalto, quali potenziali vittime della condotta appropriativa, di terzi o creditori, peraltro nel caso di specie neppure menzionati. Infine, difetta anche l’ingiustizia del profitto, da escludersi quando l’appropriazione sia realizzata con l’accordo del titolare dei beni che sono oggetto della condotta (Sez. 5, n. 5081 del 5/3/1993, Rv. 195365, Sez. 2, n. 20062 del 6/5/2011, Rv. 250439). Né, infine, risulta pertinente, ai fini dell’integrazione del delitto di appropriazione indebita, l’orientamento giurisprudenziale citato nell’ordinanza impugnata (Sez. 6, n. 39008 del 6/5/2016, Rv. 268090) che, invece, attiene al diverso caso in cui il versamento a terzi di somme della società sia avvenuto per il perseguimento di un fine estraneo a quello dell’ente e in mancanza di un formale assenso dei soci al compimento di dette operazioni (nella specie si trattava di una somma per il pagamento di sondaggi pre-elettorali in favore di un terzo e senza che tale erogazione perseguisse un interesse dell’ente).
2.2. La mancata ravvisabilità del reato presupposto “appropriazione indebita” non determina però ipso iure il venir meno del fumus del delitto di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita che sostiene il disposto sequestro preventivo, in quanto il giudice del merito ha ravvisato anche altra fattispecie di reato idonea a fungere da delitto presupposto, quale quella di dichiarazione fraudolenta tramite uso di fatture o altri documenti relativi ad operazioni inesistenti di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 74/2000 (anche se in relazione a tale diverso delitto differente sarebbe la misura della somma da sequestrare, in quanto non più riferita all’intero ammontare dell’operazione di finanziamento socio, ma alla relativa misura dell’IVA e dell’imposta sui redditi della società non dichiarata a debito, ammontante complessivamente ad € 99.526,00 per come evidenziato dalla stessa G.d.F.). Per tale ragione, infatti, la difesa ha altresì censurato il provvedimento impugnato sul rilievo di avere ritenuto l’indagato estraneo al delitto presupposto di frode fiscale che, invece, secondo gli elementi prospettati dallo stesso giudice del riesame, avrebbe commesso in concorso con la sorella R.S., quale amministratrice della società S. a r.l. (con conseguente operatività della clausola di riserva che esclude la responsabilità per il delitto di cui all’art. 648-ter cod. pen. di colui che abbia concorso nel delitto presupposto).
La doglianza difensiva risulta fondata. Dalla ricostruzione operata dal giudice del merito è emerso, infatti, che la società S. a r.l. (di cui il ricorrente è socio di maggioranza, nonché fondatore del Gruppo societario R.G.) ha emesso una falsa fattura (la n. 6 del 10/6/2009) per l’importo di € 427.998,00 relativa al pagamento di merce che sarebbe stata asseritamente acquistata dalla ditta individuale F.F., il quale ha negato la circostanza. La merce è stata pagata mediante un bonifico bancario ricevuto da tale B. R. (perito commerciale), in forza di una falsa delega ad incassare rilasciata dal F., il quale ha negato di avere mai conferito a tale soggetto poteri ad incassare per conto della sua ditta individuale. Il B., risultato titolare di vari conti correnti su cui confluivano numerosi pagamenti di false fatture da parte della S., ha poi provveduto immediatamente (il 29/7/2009) a restituire detto importo, mediante bonifico bancario, all’amministratrice della società S., R.S., la quale ha contabilizzato la fattura falsa (utilizzandola per portare componenti negativi di reddito nella relativa dichiarazione della società), provvedendo poi nell’immediatezza ad effettuare un bonifico a proprio favore (per l’importo di € 140.899,00) e al ricorrente (per l’importo di € 251.435,00) sui conti che entrambi intrattenevano presso la stessa azienda di credito (Cassa Rurale di Laces). Una volta ricevute le somme sui conti, dopo soli due giorni (il 1° luglio 2009), il ricorrente e la stessa R.S. hanno provveduto a riversare gli importi alla stessa società S. s.r.l. al fine di sostenere un aumento di capitale, effettuando, rispettivamente, il R.W. un bonifico di € 260.000,00 e la R.S. di € 140.000,00. La società S. ha, infine, imputato detti versamenti (per l’importo complessivo di € 400.000,00) quali “finanziamenti soci” attribuendo a R.W. l’importo di € 240.000,00 (oggetto di sequestro) e quello di € 80.000,00 tanto alla R.S. che a R.F. (terzo socio della compagine).
Così ricostruita la vicenda illecita, il giudice del merito ne ha tratto per un verso la sussistenza del delitto di cui all’art. 2 d.lvo n. 74/2000 a carico dell’amministratrice della società R.S. e, per altro, ne ha escluso il concorso del R.W. sul rilievo che “non risulta dagli atti che quest’ultimo fosse coinvolto nei suddetti reati presupposto”. Ad avviso del Tribunale, poiché R.S. è l’unica amministratrice della S. s.r.l., da ciò “si deduce che le attività di detta società sino da ricondursi alla sua responsabilità, non risultando che anche R.W. abbia amministrato la S. s.r.l.”.
Tanto premesso, se può ritenersi corretto l’aver individuato a carico dell’amministratrice il reato di cui all’art. 2 d.lvo n. 74/2000, sussistendo tale ipotesi anche laddove la falsa fattura sia stata emessa dalla stessa società “beneficiaria” che la faccia apparire come proveniente da terzi, poiché la “ratio” del reato di frode fiscale risiede nel fatto di punire colui che artificiosamente si precostituisce dei costi sostenuti al fine di abbattere l’imponibile (vedi Sez. F, n. 47603 del 31/8/2017, Rv. 271033), altrettanto non può affermarsi con riguardo all’affermata esclusione della responsabilità concorsuale del ricorrente. La descrizione dell’operazione attraverso cui si sarebbe realizzato il delitto presupposto appare infatti essere stata realizzata, non soltanto nella piena consapevolezza del rappresentante legale della società, ma anche nel quadro di una totale convergenza di volontà ed interessi tra i diversi componenti “soggettivi” della compagine associativa, tra cui spicca proprio l’odierno ricorrente, definito “proprietario della società”. Sul punto il provvedimento impugnato risulta illogicamente contraddittorio, laddove nel richiamare anche gli esiti dell’indagine della G.d.F., da un lato evoca molteplici e significativi elementi dimostrativi di un previo concerto (tempi, modalità e beneficiari dell’operazione) e, poi, esclude, con argomentazione del tutto apodittica (“non risulta dagli atti che il R.W. fosse coinvolti nei suddetti reati-presupposto”) che il ricorrente abbia avuto parte, quale concorrente istigatore, nel reato di frode fiscale. E ciò a prescindere anche dal contenuto degli atti di indagine allegati al ricorso – con cui il Tribunale del riesame non risulta essersi confrontato – che avvalorano il ruolo di dominus del ricorrente nell’ambito delle attività di gestione delle società del “G.R.”. Se, pertanto, al R.W. deve riconoscersi un ruolo di concorrente morale o materiale nella violazione delle norme tributarie che hanno “generato” quelle somme poi reimpiegate, non risulterebbe configurabile a suo carico, nemmeno in astratto, un’imputazione per il delitto di cui all’art. 648-ter cod. pen., siccome applicabile solo “fuori dei casi di concorso nel reato” presupposto.
Né, poi, può escludersi l’ipotesi concorsuale esclusivamente sul rilievo dell’attribuzione alla R.S. della qualifica di amministratrice della società S. a r.l., in quanto sebbene il reato di cui all’art. 2 d.lvo n. 74/2000 richieda il compimento di atti tipici che rientrano nella diretta competenza e responsabilità del rappresentante legale, può concorrervi anche chi di quelle operazioni ne ha avuto consapevolmente la regia e la supervisione.
Va, pertanto, annullato il provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale del riesame di Bolzano affinché, alla luce di quanto in precedenza evidenziato e posta la sussistenza del reato di frode fiscale di cui all’art. 2 d.lvo n. 74/2000 a carico dell’amministratrice della società, verifichi se sussistano o meno elementi evocativi di un’attuale contestazione di un’ipotesi concorsuale nei confronti del ricorrente, con i conseguenti riflessi anche sulla misura del quantum oggetto di sequestro.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame con integrale trasmissione degli atti al Tribunale di Bolzano Sezione per il riesame delle misure cautelari reali.
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