CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 35696 depositata il 14 dicembre 2020
Reati tributari – Omesso versamento IVA – Soglia di punibilità – Responsabilità del legale rappresentante – Esclusione – Precarie condizioni economiche aziendali – Iniziative attivate per fronteggiare la crisi
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 10 febbraio 2020, la Corte d’appello di L’Aquila ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Chieti del 22 marzo 2018, con la quale l’imputato era stato condannato, per il reato di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, perché, in qualità di legale rappresentante della S. s.r.l., non aveva versato nei termini prescritti l’imposta sul valore aggiunto dovuta per l’anno 2012, per un ammontare di euro 251.155,00, oltre che per il reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, a lui contestato quale legale rappresentante di una diversa società. La Corte d’appello ha assolto l’imputato dal secondo di tali reati, per insussistenza del fatto, e ha rideterminato la pena per il residuo reato di cui al richiamato art. 10-ter in otto mesi di reclusione, eliminando il beneficio della sospensione condizionale della pena riconosciuto in primo grado.
2. Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si deducono vizi della motivazione, per travisamento della prova ed omesso esame dei motivi di appello, e si lamenta che la Corte territoriale avrebbe ritenuto inesistente la dedotta forza maggiore e la dedotta mancanza del dolo, affermando che la mancata riscossione, da parte della società dell’imputato, dei canoni dovuti dai conduttori non costituisce impossibilità che abbia efficacia scriminante o faccia venire meno l’elemento psicologico, perché l’iva comunque risultava dalle relative dichiarazioni ed era già stata incamerata. Non si sarebbe considerata la testimonianza del consulente fiscale S., il quale aveva precisato che le somme oggetto delle fatture non erano materialmente confluite nelle casse della società. Né si sarebbe considerata la documentazione prodotta, dalla quale emergeva una crisi di liquidità cagionata dalla contestuale interazione di fattori imprevedibili e inevitabili, aggiuntivi rispetto all’inadempimento dei conduttori. Si sostiene, altresì, che l’imputato aveva tentato di fronteggiare la progressiva contrazione dei flussi finanziari tramite la sottoscrizione di un piano di ristrutturazione del debito con le banche e che queste avrebbero inaspettatamente violato l’accordo, destinando le somme di cui la società avrebbe dovuto immediatamente disporre alla copertura di preesistenti passività maturate nel periodo anteriore; vicenda per la quale sarebbe in corso un contenzioso civile con le stesse banche. In tale quadro, avrebbe dovuto essere valutato a favore dell’imputato il suo tentativo di accedere al credito, anche attraverso la prestazione di garanzie personali, emergente dalla documentazione in atti.
2.2. Con un secondo motivo di doglianza, si lamenta la mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., sul rilievo che la Corte d’appello avrebbe scorrettamente valorizzato in senso negativo i precedenti penali specifici, senza considerare che l’omesso versamento era di un ammontare di pochissimo superiore alla soglia di punibilità. La difesa sostiene che la mera esistenza di condanne non vale ad integrare il presupposto dell’abitualità del comportamento e che i procedimenti penali a carico dell’imputato riguardavano più società facenti parte del medesimo gruppo interessate ad una contestuale crisi di liquidità e, dunque, a più fatti legati dal vincolo della continuazione.
2.3. Si lamenta, in terzo luogo, l’eliminazione del beneficio della sospensione condizionale della pena applicato con la sentenza di primo grado, quale effetto automatico di precedenti sentenze di condanna. Vi sarebbe, ad avviso della difesa, una violazione del divieto della reformatio in peius, non essendo configurabile l’ipotesi di cui all’art. 168, primo comma, cod. pen., perché tale disposizione si riferisce a fatti successivi e non a fatti anteriormente commessi. Per la difesa, la sommatoria delle pene irrogate all’imputato consentirebbe in ogni caso l’applicazione della sospensione condizionale.
2.4. Si contesta, infine, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, per l’omessa considerazione degli elementi di fatto indicati a fondamento dell’atto di appello e la mancata valorizzazione della crisi d’impresa.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso – riferito alla prova della responsabilità penale – è fondato, con assorbimento degli altri, rispetto ai quali è logicamente prioritario.
1.1. Quanto alla rilevanza della crisi economica in relazione al reato di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, deve ricordarsi che il dissesto societario può rilevare come causa di forza maggiore solo se siano assolti gli oneri di allegazione idonei a dimostrare, non solo l’asserita crisi di liquidità, ma anche che detta crisi non sarebbe stata fronteggiabile tramite il ricorso ad apposite procedure da valutarsi in concreto, non ultimo il ricorso al credito bancario. L’imprenditore deve quindi provare di aver posto in essere, senza successo per causa a lui non imputabile, tutte le misure (anche sfavorevoli per il proprio patrimonio personale) idonee a reperire la liquidità necessaria per adempiere il proprio debito fiscale (ex plurimis, Sez. 3, n. 12906 del 13/11/2018; Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013). Si è anche affermato che la colpevolezza del contribuente non è esclusa dalla crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo e, nel caso in cui l’omesso versamento dipenda dal mancato incasso dell’IVA per altrui inadempimento, non siano provati i motivi che hanno determinato l’emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo (ex multis, Sez. 3, n. 23796 del 21/03/2019, Rv. 275967). E si è precisato, sul punto, che l’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso per inadempimento contrattuale dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10-ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, atteso che l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa, evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi (Sez. 3, n. 6506 del 24/09/2019, dep. 19/02/2020, Rv. 278909).
1.2. Nel caso di specie, la difesa non si è limitata ad asserire l’esistenza di una pregressa crisi di impresa, ma ha allegato elementi che avrebbero dovuto essere valutati ai fini accertare l’entità di tale crisi, le cause della stessa, e l’impossibilità di superarla tramite il ricorso ad idonei strumenti.
La prospettazione del ricorrente si basa, infatti, su elementi decisivi non presi in considerazione dalla Corte d’appello, pur a fronte di specifiche e argomentate doglianze formulate con l’atto di appello. La Corte territoriale si è infatti limitata ad affermare che l’iva avrebbe dovuto essere versata, in quanto risultante dalle relative dichiarazioni, nonostante le precarie condizioni economiche aziendali, senza considerare che, nella prospettazione difensiva, assumeva rilevanza la testimonianza del consulente fiscale della società, da cui risultava – tra l’altro – che vi erano numerosi crediti non incassati, al fine di accertare l’eventuale portata della crisi d’impresa, nonché di chiarire le ragioni della cessazione dell’attività, del ricorso alla procedura di concordato per la ristrutturazione del debito, del successivo fallimento. E anche il tentativo che l’imputato afferma di aver effettuato con le banche di giungere ad un accordo transattivo, con la prestazione di garanzie personali, avrebbe dovuto essere preso in considerazione, quanto meno allo scopo di valutare la sussistenza di una reale impossibilità di superare la crisi, non imputabile all’imputato stesso.
2. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, perché proceda a nuovo giudizio, prendendo in considerazione – con libertà di esito – gli elementi di prova richiamati dalla difesa in relazione all’esistenza, alle cause, alle conseguenze di una crisi d’impresa.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Perugia.
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