CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 36383 depositata il 23 agosto 2019
Reati tributari – Consulente fiscale – Intermediario – Trasmissione di mod. F24 predisposti dal contribuente con utilizzo in compensazione di crediti inesistenti e falsamente asseverati da altro professionista – Configurabilità del reato – Responsabilità
Ritenuto in fatto
capi A) e B), di cui agii artt. 110, 81 comma 2 cod.pen., artt. 10 – quater, 13 bis comma 3 del d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, perché, quale professionista abilitato alla trasmissione dei mod. F24 con saldo 0, utilizzando in compensazione, con il ricorso fraudolento all’accollo del debito fiscale, crediti Iva inesistenti e falsamente asseverati da altro professionista, consentiva, in concorso con gli amministratori della società E.P. srl e M. (società dichiarate fallite), soggetti generatori di crediti Iva fittizi, e delle società accollate, la compensazione indebita dei debiti di queste ultime, con l’aggravante per il F., di avere commesso il fatto nell’esercizio dell’attività di consulente fiscale mediante l’elaborazione di modelli di evasione fiscale. In Napoli dal febbraio 2017 al 01/12/2017 (capo A), dal 25/03/2017 al 05/01/2018 (capo B). Il provvedimento veniva eseguito su beni mobili e su un immobile intestato al F. (cfr. pag. 5).
2. Propone ricorso per cassazione l’indagato, a mezzo del difensore di fiducia, e chiede l’annullamento per i seguenti motivi enunciati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod.proc.pen.:
2.1. Con il primo motivo deduce l’inosservanza, la violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod.proc.pen. in relazione al fumus commissi delicti del reato di cui all’art. 10 – quater d.lgs 10 marzo 2000, n. 74.
Deduce il ricorrente la violazione di legge in relazione all’erronea applicazione dei presupposti per l’adozione della misura cautelare, sia sulla sussistenza del fumus del reato di indebita compensazione, sul rilievo che non vi sarebbe la dimostrazione della fittizietà dei crediti Iva utilizzati per le compensazioni, tratta unicamente dalla relazione del curatore del fallimento e dagli accertamenti della Guardia di finanza, né la motivazione sulla partecipazione al reato del F., soggetto unicamente deputato alla trasmissione dei mod. F24 predisposti dal contribuente ed asseverati da altro professionista, non essendo egli, quale mero intermediario, tenuto alla verifica della rispondenza dei crediti alle scritture contabili, verifica che compete al professionista deputato ad apporre il visto di conformità. Nessuna forma di collegamento era stata dimostrata tra questi e le società coinvolte, e i contratti di accollo del debito tributario erano depositati. Non sarebbe configurabile il concorso del professionista nel reato tributario in quanto non ispiratore della frode. Nessuna dimostrazione vi sarebbe, infine, sulla elaborazione di modelli di evasione fiscale in capo al ricorrente.
2.2. Con il secondo motivo deduce la violazione di legge in relazione agli artt. 10 – quater, 13 bis comma 3 del d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, in relazione all’erronea quantificazione del profitto del reato da assoggettare a vincolo cautelare, alla assenza di pertinenzialità di quanto sequestrato come profitto, oltre tutto il ricorrente non riveste la qualifica di amministratore di diritto e/o di fatto delle società coinvolte e, dunque, soggetto che non consegue il risparmio di imposta.
3. Il Procuratore generale ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.
Considerato in diritto
4. Il ricorso è inammissibile per la riproposizione delle stesse censure già devolute, in sede di riesame anche in parte dirette alla rivalutazione del fatto, che sono manifestamente infondate.
5. Va, anzitutto, osservato che, in tema di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc. pen. consente il sindacato di legittimità soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge. Secondo le Sezioni Unite (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710), nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, ma anche i vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, come tale apparente e, pertanto, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal Giudice (Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013, Gabriele, Rv. 254893; Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093). Non può, invece, essere dedotta l’illogicità manifesta della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di cui alla lett. e) dell’art. 606, stesso codice (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino S., Rv. 224611).
6. Ciò posto, tenuto conto dell’ambito cognitivo, il ricorso sollecita alla Corte una nuova e diversa valutazione degli stessi elementi in fatto già valutati dal Tribunale del riesame invocandone una lettura alternativa e più favorevole in punto di fumus commissi delicti. Tale valutazione non è, però, consentita in questa sede. La doglianza deve essere disattesa alla luce della motivazione con cui Tribunale del Riesame ha ritenuto sussistente il fumus con motivazione logica, coerente alle emergenze processuali e tutt’altro che assente e/o apparente.
Peraltro, se è vero che, nella valutazione del fumus commissi delicti quale presupposto del sequestro preventivo di cui all’art. 321, comma 1, c.p.p., il giudice del riesame non può avere riguardo alla sola astratta configurabilità del reato, ma deve tener conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali e dell’effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, indicando, sia pure sommariamente, le ragioni che rendono allo stato sostenibile l’impostazione accusatoria (tra le altre, Sez. 3, n. 26197 del 05/05/2010, Bressan, Rv. 247694), dall’altro lato, il giudizio in ordine alla misura cautelare reale resta correlato con la fase delle indagini preliminari nella quale, come è noto, la delibazione che viene compiuta è diversa da quella piena della fase del giudizio. Nella fase delle indagini preliminari, nella quale si inserisce la fase incidentale del riesame del provvedimento cautelare, il giudizio che viene compiuto è un giudizio di apprezzamento della plausibile sussistenza del fatto che non può tradursi in una anticipata decisione sulla responsabilità del soggetto indagato in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale ipotizzata, mediante una valutazione prioritaria della antigiuridicità penale del fatto (per tutte, Sez. 2, n. 26457 del 22/06/2005, P.M. in proc. Farnitano, Rv. 231959; Sez. U. n. 6 del 27/03/1992, Midolini, Rv. 191327; Sez. 5, n. 6252 del 19/11/1998, Pansini, Rv. 212511).
7. Rileva, il Collegio, la congruità ed esauriente motivazione del Tribunale che, in risposta alle censure difensive, ha ancorato il fumus del reato all’esito della disamina del compendio probatorio, e segnatamente dalla relazione del curatore fallimentare delle società cartiere (E.P. srl e M. produttrici dei fittizi crediti Iva), relazione che costituisce “prova documentale” e che, pertanto può legittimamente essere utilizzata in questa sede e posta a fondamento del provvedimento ablativo, e degli accertamenti della G di F. sulle compensazioni operate da società terze che si erano accollate il credito Iva (fittizio) ceduto dalle prime due, e che, grazie all’intervento dell’indagato F., persona deputata ad operare la materiale compensazione, mediante invio dei mod. F24 con saldo 0, avevano così compensato i loto debiti tributari, sicché alcuna carenza motivazionale, diversamente dall’assunto difensivo, è sul punto prospettabile.
Ma non solo, per quanto di rilievo in connessione con i profili di censura che si appuntano sulla buona fede dell’indagato, mero intermediario nella trasmissione dei mod. F24, senza alcun obbligo di verifica della sussistenza dei crediti attestata da altro professionista, la prospettazione difensiva è stata disattesa con motivazione che non è assente e/o meramente apparente.
Ed invero, il provvedimento impugnato, contrariamente all’assunto difensivo, ha analizzato il profilo della buona fede, escludendo che la stessa potesse essere sostenuta (pag. 8), e il correlato profilo della realizzazione di modelli di evasione, con motivazione che non solo non è apparente, ma è altresì corretta in diritto.
In tale ambito, il provvedimento impugnato, dopo aver richiamato la pronuncia della Corte di cassazione sulla compensazione mediante l’istituto dell’accollo, che ne delineava il carattere illecito (Sez. 3, n. 1999 del 14/11/2017, Addonizio, Rv. 272712 – 01), pronunciata prima dell’intervento dell’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione n. 140 pubblicata in data 15 novembre 2017, che, nel prendere posizione sulla legittimità del pagamento dei debiti fiscali mediante compensazione con crediti d’imposta a seguito del c.d. “accollo fiscale”, ha fornito una risposta negativa, (e che qui rileva quantomeno per le compensazioni operate dopo tale data), ha confermato la natura illecita delle compensazioni operate, in quanto l’art. 17 del d.lgs. 241/97, non solo non prevede il caso dell’accollo, ma richiede che la compensazione avvenga unicamente tra i medesimi soggetti. E in tale ambito, ha confermato l’illiceità delle compensazioni operate dal F., professionista abilitato alla trasmissione dei mod. F24 con saldo 0, il quale, mediante il ricorso all’accollo fiscale, del fittizio credito Iva, generato dalle società cartiere fallite E.P. srl e M., da parte di numerose società (ben 11 società) nell’arco di 18 mesi, per un ammontare di € 19.133.526,66, aveva partecipato al meccanismo illecito mediante creazione di un modello seriale (pag. 8), non potendo giustificarsi la concentrazione in capo al F., in così poco tempo di un tale numero di compensazioni per crediti inesistenti, riconducibile a diverse società tutte in rapporto con le società fallite E.P. srl e M., generatrici del credito Iva fittizio, accollato dalle società che, operando la compensazione con saldo 0, hanno così omesso il versamento dell’imposta.
Affermare la buona fede del ricorrente si risolve in una contestazione aspecifica che non si confronta con il provvedimento impugnato laddove, dopo aver ricostruito i fatti (come sopra delineati), il tribunale ha ulteriormente evidenziato come dalla lettura dei contratti di accollo risultava che la società accollate si impegnavano al pagamento di ammontare superiore al debito tributario, senza peraltro essere documentata alcuna transazione di denaro; circostanza ritenuta, dal tribunale milanese, contraria a normali prassi e pratiche commerciali. Orbene, rispetto a tali profili, la censura, che con essi non si confronta, è anche generica e come tale inammissibile.
Quanto poi alla doglianza che si appunta sulla carenza di motivazione sui modelli di evasione, circostanza, non devoluta ma implicitamente argomentata, è sufficiente leggere pag. 7-8 dell’ordinanza impugnata (vedi supra), da cui anche l’infondatezza dell’ulteriore profilo del concorso del F. nel reato, che il tribunale cautelare ha ritenuto sussistente sul significativo fatto che, in soli 18 mesi, il F. avesse operato compensazioni in favore di numerose società che, in virtù dell’accollo tributario, operavano la compensazione con i crediti fittizi di Iva, generati dalle società cartiere fallite, che si accollavano, e in ragione delle clausole previste nei contratti di accollo (101% e assenza di forme di pagamento non tracciate) ravvisava l’elaborazione dei modelli di evasione fiscale. La pluralità delle medesime operazioni tutte riconducibili a due società che funzionavano come cartiere per la produzione di crediti Iva fittizi e poi come società accollanti, costituiscono la dimostrazione del modello seriale di evasione fiscale che veniva realizzato presso lo studio del F. il quale, mediante il suo apporto provvedeva alla trasmissione dei mod. F24 con saldo 0, e provvedeva alla realizzazione del reato consentendolo ad un numero indeterminato in astratto (nel concreto sono state individuate ben 11 società in un ristretto arco temporale). In altri termini, il F., ha concorso a realizzare un meccanismo di frode che ha replicato con le società indicate nei capi di imputazione, ma replicabile all’infinito grazie alla sua qualifica di concorrente necessario per la trasmissione del mod. F24 con cui si operava la compensazione indebita. Da qui anche il fumus del concorso che è assistito da motivazione congrua che non può dirsi apparente.
8. Quanto al secondo motivo di ricorso, esso è manifestamente infondato.
Il profitto del reato è l’intero ammontare del debito della società accollata (Sez. 3, n. 46709 del 28/03/2018, Carriero, Rv. 274561 – 03) e può essere disposto nei confronti di ciascun concorrente nel reato.
Quanto al secondo profilo, questa Terza sezione della Corte di cassazione ha avuto modo di chiarire, che il sequestro preventivo per equivalente, funzionale alla confisca prevista dall’art. 12 bis, d.lgs n. 74 del 2000, può essere disposto, entro i limiti quantitativi del profitto, indifferentemente nei confronti di uno o più autori della condotta criminosa, non essendo ricollegabile all’arricchimento personale di ciascuno dei correi, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito (Sez. 3, n. 1999 del 14/11/2017, Addonizio, Rv. 272714 – 01; conf. Sez. 2, n. 29395 del 26/04/2018, Pasero, Rv. 272968 – 01). Ha osservato la pronuncia Addonzio, che il concorso di persone nel reato implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e il sequestro non è collegato all’arricchimento personale di ciascuno dei correi, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito.
Dunque, non influisce sulla legittimità del sequestro preventivo, disposto per equivalente nei confronti del F., la circostanza che egli non rivestiva la carica di legale rappresentante delle società, nel cui interesse il reato è stato realizzato e che hanno beneficiato del risparmio di imposta, né è necessario il rapporto di pertinenzialità tra il reato e il bene oggetto di sequestro.
9. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 cod.proc.pen. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
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